Luglio, galleria Tate Britain di Londra: un ragazzino opta per la bravata e ruba una scatola di matite HB. Una volta scoperto, invece di subire rampogna e scappellotto con annesso sequestro delle matite incriminate, viene arrestato, quindi rilasciato dietro cauzione e al momento è in attesa di sapere se deve pagare un risarcimento danni di cinquecentomila sterline, cifra della quale presumibilmente non dispone. Direbbe a questo punto un saggio: ma non era meglio condannarlo a ricomprare la scatola di matite e chi s’è visto s’è visto? Un cinico magari avrebbe potuto costringerlo a rimpiazzare dette matite con un set extralusso, scatola plastificata e gomma in cima, dal valore non inferiore alle cinque sterline – cifra che di questi tempi è comunque una bella ferita al portafoglio di un adolescente. In entrambi i casi la faccenda sarebbe stata risolta in mezz’oretta e non si trascinerebbe inane e un po’ ridicola da mesi.
Il dettaglio che sfugge tanto al saggio quanto al cinico è la provenienza delle matite: non già gli uffici della Tate Britain, dove magari perdono matite a profusione e non se ne curano più di tanto, ma l’installazione Pharmacy di Damien Hirst, l’artista vivente più venerato e valutato al mondo. Fate conto che l’installazione riempie un’intera stanza della galleria con oggetti di uso comune, almeno a quel che si può scorgere dalla visita virtuale sul sito della Tate: ché solo ad apprendere che Pharmacy è stata valutata all’incirca dieci milioni di sterline viene lo sconforto e passa tutta la voglia di guardarla dal vivo.
Se pure di dieci milioni di sterline fosse l’effettivo valore dell’installazione, è comunque piuttosto irragionevole che il set di matite ne costi cinquecentomila a meno che non occupi un ventesimo ovvero il 5% della stanza. Damien Hirst è indubbiamente ricco, d’altronde, quindi non ha bisogno di rimediare soldi. Inoltre ha un talento artistico talmente elevato che gli sarebbe bastato andare in cartoleria, acquistare un qualsiasi set di matite da cinque sterline al massimo e ricollocarlo lì dov’erano le matite trafugate: improvvisamente il nuovo set avrebbe acquisito un valore da centomila volte tanto. Perché dunque tanto accanimento nei confronti della bravata di un diciassettenne?
Perché il ragazzino non aveva rubato le matite in sé, voleva rubarne il valore artistico: Hirst sostiene che lo dimostrino i precedenti. Nel dicembre 2008 il ragazzino aveva ancora sedici anni e aveva compiuto un furto ben più sensazionale senza dover nemmeno spostare una matita. L’anno prima Hirst aveva prodotto Per l’amor di Dio, un teschio risalente al XVIII secolo tempestato da ottomilaseicentouno diamanti. Un’opera d’arte talmente bella da far ingrugnire
Hirst evidentemente aveva gradito ben poco che in presenza del suo teschio si osasse non parlare di Dio, morte e senso della vita e aveva accusato Cartrain di plagio o meglio di sfruttare il successo del teschio, valutato cinquanta milioni di sterline, per ricavarne l’indebito guadagno di sessantacinque sterline a collage. Il legale di Hirst, Paul Tackaberry, ha tenuto un convincente discorso riguardo alla percentuale di prodotto artistico “citato” nell’opera di Cartrain, stabilendo che il teschio occupa all’incirca l’80% del collage e quindi si tratta di leso diritto d’autore oltre che di ovvia lesa maestà. Al riguardo non è stato però interpellato un terzo artista, John LeKay, la cui principale attività da due anni a questa parte consiste nel ripetere che Hirst ha cop..., no, s’è fortemente ispirato a un teschio che LeKay stesso aveva a sua volta prodotto nel
Cartrain sarà un ladruncolo di matite ma è anche un ragazzetto brillante: s’è subito affrettato a riconoscere che Hirst è un artista di rottura, un grande dissacratore. Le sue opere lo confermano: L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente consiste in uno squalo conservato in formaldeide; Fuori dal gregge consiste in una pecora conservata in formaldeide; Un po’ di consolazione tratta dall’accettazione delle menzogne inerenti qualsiasi cosa consiste in varie vacche conservate in formaldeide; Madre e figlio divisi in mezza mucca e mezzo vitello conservati in formaldeide; Dio in una cassetta di pronto soccorso non conservata in formaldeide. A questo punto Cartrain chiede: se Hirst può – letteralmente – fare a pezzi l’esistente già prodotto con altri fini e riproporlo originalmente nelle proprie opere artistiche, perché lo stesso destino non può toccare alle sue opere? E, soprattutto, se Hirst può dissacrare la qualsiasi perché nessuno può dissacrare Hirst?
Il problema è che Hirst soffre di una sindrome molto diffusa nell’arte e nella cultura di ogni tempo, per non dire nel cuore di ogni uomo. Potremmo chiamarla un po’ impropriamente sindrome di Michelangelo: la leggenda vuole che dopo aver composto il Mosè l’artista fosse talmente soddisfatto del risultato da lanciargli contro un martello, urlando “Perché non parli?” e rivendicando implicitamente (anzi inconsapevolmente) il diritto a scalfire un’opera troppo perfetta. Eppure quando nel 1972 Laszlo Toth prese a martellate
Allora possiamo chiamarla sindrome di Marinetti, stante il triste destino di un uomo che s’impegnò a ribaltare i luoghi comuni su tutte le arti di questa terra, dalla grammatica alla drammaturgia e dalla cucina alla seduzione, insistendo a ogni pie’ sospinto sulla necessità di fare anch’egli la stessa fine che lui aveva riservato a chi l’aveva preceduto, ossia venire sbeffeggiato, distrutto, dimenticato e gettato nel cestino. Ma oggi chissà se non avrebbe accolto compiaciuto e tronfio la sua consegna all’empireo dell’establishment culturale; chissà se avrebbe effettivamente accettato che tutte le celebrazioni in onore del suo Manifesto si trasformassero in un’unica, assordante pernacchia; e chissà se avrebbe davvero gioito all’apprendere che passati cent’anni dal fatidico 1909 qualcuno potesse prendere in considerazione l’ipotesi di chiedersi: “Centenario? Quale centenario?”.
Oppure chiamiamola sindrome di Voltaire. L’uomo che aveva passato la vita a destabilizzare la tradizione, a smontare
Insomma, alla fine diventiamo tutti ciò che combattiamo. È la trama di Eva contro Eva. È anche quella de Il dittatore del libero stato di Bananas, vecchio film di Woody Allen in cui il capo dei rivoltosi che rovesciano il caudillo immaginario finisce per risultare più dispotico dell’originale: impone lo svedese quale lingua ufficiale e l’obbligo del cambio di mutanda ogni sei ore, per controllare più agevolmente il quale dispone che dette mutande siano indossate sopra i calzoni. Lo stesso accade a qualsiasi figlio che trascorra adolescenza e giovinezza a stabilire che da grande mai e poi mai lui farà la fine di suo padre, salvo poi passare distrattamente anni e anni dopo di fronte allo specchio del bagno e restare come folgorato perché ha scorto un’espressione, un gesto improvviso che mille volte aveva visto fare al padre e che ora, senza nemmeno accorgere, ha ripetuto lui. Sarà una conclusione triste ma è quasi sempre così: l’ultima volta ci ho pensato quest’estate, guardando il Tour de France e vedendo Lance Armstrong protestare e inveire contro Alberto Contador, reo di essere più giovane e pedalare forte. Armstrong aveva dimenticato che dieci anni fa era lui quello più giovane, era lui che pedalava forte.
Non so se è un caso, ma Armstrong ha corso una tappa del Tour con una bicicletta artistica griffata Damien Hirst: sul telaio erano incastonate decine di farfalle morte, non so se in formaldeide. Intanto Cartrain ha emesso un avviso in stile-wanted, in cui rivendica il rapimento della scatola e spiega che, se entro una certa data Hirst non ritirerà le proprie accuse, le matite verranno temperate. Il saggio continua a pensare che la miglior condanna sia di fargli ricomprare le matite. Il sadico ritiene che sarebbe ancora più deterrente fargli visitare tutte le esposizioni di Hirst.
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