venerdì 28 novembre 2008

Letterine letterarie (11)

Gurrado,
non credi che un Pavese di nascita o di elezione possa star male sentendosi dire che, praticamente, la sua città non esiste?
Mamma

Cara mamma,
comprendo senz'altro le reazioni degli indigeni soprattutto, i quali hanno l'ovvio istinto a difendere la propria città. Penso che in caso di sommosse - fermo restando il diritto di ognuno a esprimere le proprie idee, quindi tanto il loro quanto il mio - andrebbe spiegato che il mio articolo rientrava in un ciclo che Tempi, per mezzo di Camillo Langone, ha deciso di dedicare a come le piazze delle città italiane vengono interpretate dallo sguardo di alcuni scrittori. Il busillis sta appunto in questo: gli autori dei vari pezzi (Doninelli, Laura Bosio, Langone stesso, Enrico Brizzi, etc.) sono tutti scrittori e non giornalisti, ragion per cui danno un taglio letterario alla descrizione/interpretazione di ciò che vedono. Per questo motivo tutti i pezzi sono risultati parziali: non solo perché eravamo tutti costretti a contenerci entro i limiti delle 7.500 battute (che ti assicuro sono molto poche per descrivere una città intera) ma soprattutto perché l'obiettivo del ciclo di Tempi è quello di far vedere ai lettori le singole piazze con gli occhi di un singolo scrittore - quindi uno sguardo soggettivo e non oggettivo. D'altra parte penso che sia evidente il mio utilizzo continuo del pronome "io" nel corso del mio intervento. Altrimenti, per avere i vari articoli, invece che a degli scrittori Tempi avrebbe dovuto rivolgersi alle pro loco.
Nel mio caso la letterarietà del testo, benché implicita, credo che sia decisamente evidente. In primo luogo per la scelta del genere letterario in cui inscrivere le due paginette: la satira (all'inizio e alla fine, con il ritornello paradossale "Pavia non esiste") e l'invettiva (al centro, con la descrizione minuziosa di casi effettivamente accadutimi, come ad esempio la faccenda dell'ambulante che si siede al mio tavolo mentre sto offrendo un caffé a una signorina: cosa che mi è successa anche l'altro giorno, sempre in piazza della Vittoria, a un altro bar, con un altro ambulante e un'altra signorina). In secondo luogo la letterarietà del mio intervento era intuibile dalla presenza di una serie di citazioni implicite di cultura locale, che non dovrebbero sfuggire alle fasce più colte della cittadinanza (indigena o d'elezione), e delle quali ti elenco le più eclatanti:
- l'attacco "Pavia non esiste" si ricollega direttamente all'incipit del passo più celebre dell'Antapòdosis di Liutprando da Cremona, diacono di Pavia nel X secolo, il quale scrive una vibrante descrizione della distruzione di Pavia che si fonda sul ritornello "Brucia la disgraziata Pavia, un tempo così bella";
- la divisione di Pavia in "due compartimenti stagni" è un riferimento a un celebre brano di Cesare Angelini, ex rettore di una tristemente nota residenza universitaria nei pressi del Ticino, che fa riferimento alla divisione di Pavia in due parti "come nella Gallia di Cesare";
- la descrizione delle direttrici composte da cardo e decumano, che corrono verso i differenti punti cardinali, è un riferimento al Liber de laudibus civitatis Ticinensis di Opicino de Canistris, parroco a Pavia nel XIV secolo, in cui offre una descrizione di Pavia come specchio geografico dell'universo intero e delle differenti pulsioni dell'animo umano (nel caso del mio articolo, "passeggio e fuga");
- "a Pavia ogni battaglia è persa" è, come dovrebbero effettivamente sapere gli studenti di cui parlo nella circostanza specifica, un riferimento al fatto che le varie battaglie di Pavia sono state decisive per la (cattiva) sorte di grandi popoli nel corso della storia: sempre a Pavia infatti nel 271 l'Impero Romano dovette soccombere agli Alemanni, nel 773 i Longobardi furono sconfitti dai Franchi, nel 1525 i Francesi persero contro il Sacro Romano Impero la possibilità di impossessarsi di tutta la Lombardia (e, nella circostanza, venne addirittura imprigionato il Re di Francia Francesco I).
E così via: tutte queste informazioni peraltro sono reperibili nel volume Lombardia della collana Letteratura Regionale Italiana dell'editrice La Scuola, curata dal prof. Stella e da un ottimo pavese, Cesare Repossi. Penso si chiaro che sotto la patina graffiante e ironica ci fosse una non comune attenzione alla storia e alla cultura di una città nella quale sono capitato più di dieci anni fa, pur non avendoci vissuto continuativamente, e che quando si legge un testo non ci si debba limitare al senso letterale.

Eh no, Gurrado!
[omissis] Anna Karenina [omissis] Tolstoj [omissis] i romanzi russi [omissis]
.
Enzo, Erika, Graziano

Madò, che putiferio.
Uno per volta, direi a Enzo che lo svuotamento culturale, indubbio e indegno, di questi tempi colpisce altrove che nei romanzi russi. Penso che loro si siano un po' svuotati da soli, polarizzando uno scontro fra una minoranza di sostenitori estremi e un'altra minoranza di insofferenti urticati. Nel mezzo c'è la maggioranza svuotata culturalmente che dei romanzi russi non si cale e pertanto non è né favorevole né contraria, anzi si stupisce di come un argomento del genere possa anche spingere alla faida.
Alla signorina Erika direi che alla stessa maniera non è solo questione di gusti. Se i romanzi russi non mi piacciono non è solo perché non mi piacciono (sarebbe una misera tautologia) ma perché non riesco a specchiarmici; anzi, mi sembrano come i vecchi specchi trascurati dove uno può a stento vedere la sua immagine scurita ma qua e là la sua capacità di riconoscersi, o di vedere qualcosa tout court, viene sopraffatta dalle incrostazioni. Limitandoci ad Anna Karenina (che nel frattempo ho ovviamente gettato sotto il treno, finito e digerito), la parte del romanzo che mi interessava di meno è appunto quella che riguardava strettamente lei, Anna Karenina eponima. (Con la ragionevole eccezione delle venti pagine per descrivere la mietitura nelle campagne russe.) Ho avuto l'impressione di star leggendo qualcosa che non aveva a che fare con l'evoluzione sentimentale e intellettiva che una persona solitamente ha una volta passati i quattordici anni, e che nella circostanza il talento di Tolstoj fosse sprecato in faccenduole (meno trama! meno trama!).
A Graziano infine direi che ha un po' di torto su una cosa e ragione su un'altra. Il Dono di Nabokov l'ho letto e ne ho ricavato la lettura di aver sprecato tre giorni di vita (la vita è una sola, ricordiamocelo, e purtroppo è questa). Peraltro mi sorprende che Nabokov mi sia piaciuto nelle sue prove successive, composte in Inglese, mentre Il Dono era irrimediabilmente scritto in Russo (se non erro il titolo originale è Dar): chi lo sa, magari è la lingua che rende indigesta la scrittura, magari è il cirillico che ingolfa i motori, boh. Invece ha ragione assoluta quando dice che per me (ma temo anche per altri) a furia di praticarla la lettura sia diventata l'esercizio di un dovere un po' vuoto, un cartellino da timbrare, una catena corta.

Gurrado,
dici che hai fatto il biglietto per Modena ma causa neve non sai se riuscirai a utilizzarlo domani. Secondo me si scioglie, ma ricordati piuttosto di dirmi a che ora arrivi.
Mirko

Ora che ci penso, questa potrebbe essere un'idea per un nuovo e postmoderno mecenatismo: mi faccio ospitare a turno un paio di notti da tutti quelli che leggono il mio indegno blog, dove che vivano. Dite che riempio un anno o che dopo due settimane mi ritrovo sotto i ponti?

giovedì 27 novembre 2008

Tutti i libri che non ho letto (8)

(Gurrado per Books Brothers)

Per me, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!
-seguono novantadue minuti di applausi-
(Paolo Villaggio)

Tutti i libri noiosi sono simili fra loro, ogni libro russo è noioso a modo suo.

Ogni anno con l’autunno arriva la pioggia, arriva la nebbia e arriva il tempo di migrare. Impacchetto i bagagli, consegno l’estate al suo tramonto, separo l’utile dal dilettevole così come durante la creazione Dio, tanto per cominciare, separò le acque superiori da quelle inferiori (operazione di dubbia concretezza ma di sicuro impatto). Il viaggio è lungo, lo spazio è poco, quindi è meglio selezionare con ragionevolezza e immaginare nel dettaglio i prossimi mesi di vita così da non dimenticare nulla di fondamentale, senza per questo aggiungere niente di superfluo. Il computer portatile è piuttosto utile, quindi è meglio infilarlo in borsa. La raccolta completa di dvd su trent’anni di campionato, un dvd per anno, potrebbe risultare ridondante quindi è meglio lasciarla dov’è. L’ombrello, a Pavia, potrebbe servire di tanto in tanto: dentro. Il travestimento da fiore impollinato, che più di vent’anni fa ha segnato il mio esordio sul palcoscenico nonché il mio simultaneo e precoce addio al mondo dello spettacolo, non troverebbe adeguato séguito nel settore al quale mi pregio di appartenere: fuori. Dentro la Bibbia, qualche film di Woody Allen, magari anche un paio di scarpe di ricambio. Fuori il Martirologio Romano, il videoregistratore, magari anche la foca in porcellana (a grandezza naturale) che campeggia nel soggiorno. Ogni anno con l’autunno arriva il tempo di migrare e arriva il gesto furtivo col quale all’ultimo istante riapro la borsa per lasciarvi cadere Anna Karenina.

Si tratta di un’Anna Karenina d’antan, finita di stampare il 6 marzo 1965, prima uscita assoluta della collana “Garzanti per tutti – i grandi libri”. 823 pagine, 850 lire. A un occhio analfabeta la distribuzione della copertina potrebbe apparire spiazzante, ove la protagonista viene chiamata per nome e cognome in alto e quindi potrebbe benissimo essere l’autrice; mentre Tolstoj, sistemato puro e semplice al centro della copertina, potrebbe altrettanto bene passare per titolo enigmatico (chissà, magari è una biografia). Una volta ristabilito l’ordine fra autore e titolo, e di conseguenza la netta separazione fra realtà (Lev) e fantasia (Anna), l’elemento principale che emerge dalla copertina è un treno nella neve (di Claude Monet, 1875) che avanza minacciosissimo verso il lettore, terrorizzandolo e portando con sé la rappresentazione grafica del finale che tutti conoscono, perfino io.

Quanto all’oggetto-libro, forma pura e niente contenuto, lo conosco alla perfezione perché dal 1998 ogni autunno lo infilo in borsa e parto; arrivo e lo sistemo nello scaffaletto provvisorio che mi serve a tirare avanti fino a Natale, sistemandolo fra la S e la U in ordine di autore; poi pian pianino i giorni passano, l’autunno degenera, io invecchio e affronto lo scaffale leggendo tutti gli altri libri a esclusione di Anna Karenina. Eppure so che ha un odore ottimo, di carta saggiamente invecchiata: potrei annusarlo per ore e alla fin fine è l’unica cosa che faccio, non riuscendo mai a trovare altri motivi per aprirlo.

Anna Karenina è la punta di un iceberg contro il quale mi schianto pervicacemente e che m’impedisce da tempo immemorabile di riuscire a leggere i grandi romanzi russi. Ho esordito promettente a sedici anni con Dostoevskij, leggendo Delitto e Castigo e traendone una mirabile relazione per la professoressa d’Italiano al Liceo; poi mi sono detto: “Mai più”. L’Idiota, I Demoni, I Fratelli Karamazov sono rimasti ben rinchiusi nel baule delle pie intenzioni. Ho arrancato vedendo che tutti dico tutti i miei compagni di classe, anche quelli che usavano i libri solo per pareggiare le zampe di tavoli zoppi, si sono appassionati al genere e hanno letto un Dostoevskij dietro l’altro, diventando altrettanti potenziali protagonisti di Matchpoint (un giorno sarà interessante abbozzare una statistica su quanti maniaci di Dostoevskij abbiano prima o poi ammazzato una vecchietta). E non più tardi di domenica scorsa, venendomi esplicitamente chiesto un parere tecnico sullo stile discontinuo e spezzettato della prosa di Dostoevskij, tutto ciò che son stato capace di rispondere suonava: “Be’, ci credo, era epilettico”.

Achille Campanile non aveva tutti i torti quando sosteneva che la peculiarità dei romanzi russi è che non si capisca mai bene cosa stia succedendo e a chi. Le perifrasi sono interminabili, le descrizioni minuziose di porcherie infime sovrabbondano ma vengono misteriosamente troncate in ellissi che oscurano del tutto il dénouement lasciando alla notevole buona volontà del lettore (la mia è molto poca e per niente buona) il compito di capire cos’è successo alla trama, chi ha sparato a chi altro, chi ha sposato cosa, perché il pope non è zar, il tutto mentre il fuoco narrativo si sposta bellamente sulla dettagliata cronaca, per sette od otto pagine, dell’appassimento di un nasturzio o del mutamento d’espressione di un personaggio secondario mai apparso prima e che mai più ritornerà. Questo in fin dei conti è stato il segreto del successo storico dei romanzi russi; nell’impossibilità di ammettere generalmente che nessuno ha capito niente, tutti li hanno trovati unanimemente meravigliosi, inimitabili e (per fortuna) irripetibili.

Senza contare che, con la scusa del romanzo polifonico, gli autori russi si sono sentiti in dovere di chiamare i personaggi con una pletora di nomi ciascuno, ora Darija ora Dolly, ora Dunja ora Dunečka, ora Ekaterìna ora Katja ora Kitty, ora Tatjàna ora Tanja ora Tančuročka nientedimeno, senza premurarsi di spiegare come si tratti della medesima persona una e trina, così da fugare ogni residuo dubbio riguardo alla possibilità di capire di chi mai stiano parlando man mano che le pagine si susseguono – senza che mai si arrivi al dunque, poiché i romanzi russi hanno l’insondabile caratteristica che alla fine di ogni giorno il numero delle pagine che mancano alla fine è superiore a quello del giorno precedente. Ora io capisco uno che, come me, legge più per professione che per diletto; ma come può impelagarsi in questo vespaio, e poi dichiarare di esserne uscita indenne e soddisfatta, una persona normale che legge solo ogni sera a letto, prima di addormentarsi?

Si potrebbe obiettare che tutti i romanzi russi, anche se non è sera e anche se non si è a letto, vengono inevitabilmente letti prima di addormentarsi. Io da parte mia ho azzardato numerosi tentativi. Sospettando che Dostoevskij fosse troppo lungo, ho letto Padri e figli di Turgenev che è più sintetico; l’ho letto in treno da Pavia a Desenzano e mi ha fatto capire a cosa si riferisce la frase “in caso di necessità, rompere il vetro per uscire” scritta su ogni finestrino. Forse Turgenev era troppo filosofico, allora ho letto La Madre di Gorkij, il quale è un vero talento sprecato poiché sarebbe stato un eccellente analfabeta. Forse Gorkij era troppo impegnato, allora ho letto Il Dono di Nabokov il quale, spaventato egli stesso da come scriveva in Russo, s’è ravveduto e poco dopo ha iniziato a scrivere in Inglese. Forse Nabokov era troppo ingenuo all’epoca, quindi ho trattenuto il respiro e in apnea mi sono dato al capolavoro dei capolavori, il russo dei russi, il romanzo dei romanzi, quello che a Napoli verrebbe definito il fatt’apposta. Come Woody Allen, di Guerra e Pace ricordo soltanto che è ambientato in Russia.

Chissà, magari è un problema tecnico-linguistico. Dev’essere semioticamente molto difficile scrivere bene in cirillico, con tutti quei rettangolini e le N arrovesciate. Ma di Guerra e Pace ricordo altresì che è scritto in Francese, lingua che all’epoca non conoscevo (mentre oggidì fingo con classe), nonostante che qua e là compaiano degli inserti in Russo, fortunatamente tradotti nell’edizione italiana. Per certi versi ho capito Guerra e Pace solo qualche mese fa, quando ho letto una raccolta di brevi saggi morali di Tolstoj (Perché la gente si droga?, uscito quest’anno per Mondadori). Il problema di Tolstoj è che lui fa queste magnifiche tirate sulla Storia, sulla Religione, sull’Amore, sulla Politica, su Tutta Una Serie Di Cose Con La Maiuscola. Pagine e pagine di meraviglioso vibrato tenute assieme dalla corda sottile del virtuosismo. Poi, d’improvviso, si ricorda di star scrivendo un romanzo e, per contentare i suoi appassionati lettori, si tace e ricomincia a raccontare la trama: Anna balla con Vronskij, Bezuchov si fa massone, Padre Sergij si mozza un dito e così via. Nessuno come Tolstoj pare dar ragione al ritornello di Mattia Pascal: maledetto sia Copernico, il quale ha rivoluzionato l’universo impedendoci di preoccuparci seriamente di Teresina che si moriva di fame e di Lucrezia che spasimava d’amore.

Tutte queste interruzioni fanno male alla sua prosa, vanno a detrimento del complesso ragionamento che sottostà a ogni suo romanzo e che viene poi disperso nella trama e nel fatterello. Ne sappiamo qualcosa noi teledipendenti, con tutta la pubblicità ben fatta sovente interrotta da film noiosi e programmi di pessimo livello. Nei saggi invece, libero dai legacci della trama, Tolstoj galoppa felice e sragiona con pieno diletto, appassionandosi in dettagliate istruzioni su come capire il Vangelo armati solamente di lapis rosso e blu, o sulla motivazione preclara per cui tutti i soldati debbano invece fare i contadini. In tal caso si contiene e dà il meglio di sé, spiegando perché invece di raccontare come, senza avere l’esigenza di inventare un disertore fittizio che scriva allo zar per spiegargli di abbracciare anch’egli la vita dei campi, né un fattore barbuto che sottolinei in blu le frasi di Gesù che capisce al volo e in rosso i commenti degli evangelisti che spiegano le parabole più oscure. Nessuno come Tolstoj pare dar ragione alla cantilena di Virginia Woolf: non pensare alla trama, la trama non conta.

La stessa vita vissuta da Tolstoj, solitamente relegata in poche pagine a carattere minuto prima delle faccende private di Oblonskij e del principe Andrej, è ben più interessante delle vite altrui che è riuscito a inventare, con l’infanzia senza madre, lo scioperatismo universitario, il matrimonio con la figlia di un’ex innamorata (vecchio porco), la magnifica utopia di Jasnaja Poljana, la conversione tormentatissima e lucida, la fuga dalla sua stessa vita che lo conduce inevitabilmente a morire – in una stazione secondo i gusti peculiari dei personaggi suoi. Per questo, eccezionalmente, il miglior romanzo russo non è quello non letto; il miglior romanzo russo è quello mai scritto.

Ieri sera ho iniziato Anna Karenina, a letto, prima di addormentarmi.


mercoledì 26 novembre 2008

Facciamo un gioco

[Per preservare la privacy di tutti e di ciascuno, in questo breve ma sapido intervento utilizzerò esclusivamente nomi veri e nessun cognome, con la ragguardevole eccezione di un singolo individuo per il quale utilizzerò un cognome vero e nessun nome.]

Giacomo mi ha scritto per dirmi che si cancella da Facebook, e vabbe'. Se non che oltre a me l'ha scritto a un centinaio d'altre persone (fra i quali erroneamente la sua relatrice di tesi, essendogli scappato il polpastrello) e costoro in buona parte hanno reagito alla notizia col sereno distacco che si dedica alle fondate minacce di suicidio.

Il problema, nel dettaglio, è che ormai Facebook è diventato un mondo parallelo. Congedarsi da una persona molesta in mezzo alla strada dicendole: "Ci sentiamo su Facebook" è diventata la variante kitsch del distacco snob. Inserire un rompicoglioni fra gli amici di Facebook, e poi evitarlo come la morte, la peste e le tasse non appena lo si vede profilarsi all'orizzonte, è uso comune e raccomandato. Inviare la richiesta d'amicizia a ex fidanzate, ex compagni delle elementari, ex nemici, ex stronzi, ex sentito dire, ex qualsiasi cosa è la traduzione digitale dell'istinto alla molestia. Scrivere "da quanto tempo!" sulla bacheca di gente svanita da secoli è il bon ton minimo garantito del bravo ragazzo virtualmente educato. Iniziano ad arrivare le prime minacce di morte a chi non accetta l'invito di aggregarsi a gruppi in sostegno di Roberto Saviano. Su Facebook si parla, ci si racconta, si lanciano appelli, si emettono avvisi, si organizzano eventi, si sbirciano le foto al mare della collega gnocca e si chiacchiera distrattamente con tutti (finestrella in basso a destra) ammorbandosi ulteriormente le residue ore d'ufficio. In questo contesto, la voglia di chiamarsi fuori da Facebook equivale all'annuncio di farsi fuori per davvero.

Ragion per cui, Giacomo ha deciso di autoescludersi da Facebook (per banalissime saturazione comunicativa e noia sopraggiunta) e immediati si son levati gli alti lai delle prefiche virtuali che lo scongiurano di non sparire dal loro computer - fermo restando che possono continuare a vederlo di persona quando vogliono, o sentirlo al telefonino, o ignorarlo per una settimana intera senza che per questo l'illustre e ammirevole Giacomo diventi diafano o crepi subitaneamente incenerito.

Invece su Facebook, come aveva argutamente anticipato il drudo Berkeley, esse est percipi (traduco per quelli che hanno avuto il maestro triplo: esistere è venire percepiti). Si fa la gara a chi ha più minchiate scritte sulla bacheca, a chi ha organizzato più eventi inutili, a chi è il primo a fare gli auguri di compleanno a un semisconosciuto, a chi ha offerto più cocktail virtuali (Gesù!) a tizi cai e semproni varii, a chi ha visitato più nazioni diverse e sgradevoli - e, soprattutto, a chi ha più amici. Così si finisce per includere nella lista indifferenziata degli amici di un eventuale e ipotetico, poniamo, Gurrado i seguenti elementi difformi: Giuseppe che faceva lo stesso Liceo, Olga che non vedo da dieci anni, Michela che leggo e apprezzo, Mirko che sento tutti i giorni, Ilaria che non so bene chi sia, Francesco che è un mio ammiratore, Chiara che se la incontro per strada non ci riconosciamo, e così via.

Quelli di Giacomo non lo so, ma stando a Facebook complessivamente i miei amici sono 177. Se Giacomo autoeliminandosi propone la soluzione finale su scala microscopica (in quanto, sottraendosi a Facebook come organo percettivo delle vite altrui, automaticamente sottrae loro un po' d'esistenza) io avanzo invece una modesta proposta per prevenire, di stampo ludico e luddista in un sol colpo. Oggi cos'è, il 26 di novembre? Bene, facciamo che entro dicembre riduco i miei amici da 177 a 170, per fare cifra tonda. Allo stesso modo devono toccare la decina più bassa tutti i miei amici, e tutti i loro amici, e tutti gli amici dei miei amici (Facebook è la mafia 2.0) e così via. A dicembre continuo il gioco a eliminazione arrivando a 160 entro la fine dell'anno, e così tutti gli altri. Idem a gennaio, toccando io quota 150 e gli altri non lo so. Così via eliminando dieci amici ogni mese (non sono tanti: basta eliminarne uno ogni tre giorni), trenta a stagione, centoventi all'anno - col corollario che, qualora qualche nuovo amico dovesse venire incluso, al suo ingresso dalla porta deve corrispondere l'uscita di un altro amico dalla finestra.

A fine 2009 mi ritroverei con 50 amici, cifra decisamente più ragionevole. Ma a quel punto il gioco crudele mi avrebbe preso la mano e seguiterei a eliminarne a ritmo più blando, con la morte nel cuore, cinque al mese, poco più di uno a settimana. A fine 2010 rimarrei con 25 amici; ma scoprirei con orrore che, di questi 25, una buona trentina mi ha già eliminato da tempo facendo il mio stesso identico gioco crudele di cui sopra. Alla fine comparirebbe la triste lapide dell'inizio, che Facebook dedica a ogni nuovo iscritto: Gurrado non ha amici; e, come Gurrado, tutti gli altri.

Un paio d'anni e Facebook dichiara fallimento.

martedì 25 novembre 2008

Un confronto con l'idea di romanzo

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il nuovo romanzo di Gaetano Cappelli si legge d’un fiato; cosa che nel suo caso non costituisce precisamente una novità ma serve a rimarcare il principale e sempre lodevole merito dell’autore, sin dai tempi di Parenti Lontani: aver restituito anche in Italia alta dignità letteraria al pageturner. A voler fare critica letteraria nonché politica editoriale col machete, il principale motivo per cui a quasi dieci anni di distanza Parenti Lontani è tornato in libreria, edito da Marsilio tanto in edizione economica quanto in hardback, è proprio la sua estrema fruibilità ossia, vulgo, l’irresistibile impulso di girare una pagina dietro l’altra per scoprire come va a finire.

Sembrerebbe quasi che la prosa di Cappelli sia istintivamente romanzesca, e che lo porti a includere automaticamente nei suoi capoversi i principali ingredienti tradizionali del romanzo (a partire dal XVIII secolo, sia chiaro): ossia le complicazioni dell’intreccio, l’occultamento artificioso di alcuni fondamentali aspetti caratteriali dei personaggi e la promessa di ulteriori e repentini sviluppi. Rese monumentali in Parenti Lontani, queste caratteristiche tecnico-narrative sono rimaste immutate anche nelle opere di più breve respiro del secondo Cappelli, per intenderci quelle che a partire dal 2005 sono state pubblicate da Marsilio: Il Primo, quindi la Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo e ora, appunto, La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo.

Si potrebbe ragionevolmente obiettare che i tre principali ingredienti della narrativa di Cappelli sono bene o male quelli della narrativa tout court, e che risultano palesi specialmente nella narrativa di bassa lega o, se non altro, di scarse pretese artistiche. Obiezione respinta perché in Cappelli i tre stadi del procedimento narrativo (complicazione, occultamento e previsione) sono evidentemente dei doni che usa con estrema naturalezza e non, come spesso accade nella letteratura di genere, il frutto di un’applicazione reiterata e ottusa, da catena di montaggio.

La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo, oltre a confermare la recente predilezione di Cappelli per i titoli alla Lina Wertmuller, seppur fra le righe prende di petto il rapporto fra Cappelli e la tecnica narrativa, o meglio l’idea stessa di romanzo; ed è su questo che preferirei soffermarmi piuttosto che sulla trama (troppo pirotecnica per essere spiegata senza castrarla) o sulla gradevolezza della lettura (che ritengo conclamata per tutti i possibili strati di pubblico).

Rispetto a Il Primo (2005) e alla Storia Controversa (2007), La Vedova presenta un seppur minimo riavvicinamento dimensionale alla struttura di Parenti Lontani (che tuttavia resta forse ineguagliabile nelle sue cinquecento pagine) in quanto sfonda il muro delle duecento pagine così da consentire al nuovo romanzo un più ampio respiro; non per questo tuttavia perde l’agilità narrativa stabilizzandosi sulle circa duecentocinquanta pagine, in maniera tale da conservare senza troppi patemi il forsennato concatenarsi degli eventi che caratterizzava le sue due opere precedenti, ben reso dalla spezzettatura in capitoli estremamente brevi, lunghezza massima due o tre pagine ma anche un solo capoverso.

Tanti capitoli favoriscono indubbiamente l’introduzione di tanti personaggi, grazie al frequente utilizzo del flashback o di più sofisticate tecniche narrative volte a dimostrare l’onnipotenza del narratore onnisciente – e, nel caso specifico di Cappelli, il talento dell’autore. Il mio precedente riferimento al XVIII secolo non era casuale poiché, poste le debite distanze, la scansione in capitoli per cui ha optato Cappelli coincide grossomodo con quella del Tristram Shandy di Sterne, il nonno un po’ pazzo di tutti i romanzi godibili di oggi.

Rispetto ai suoi due tentativi precedenti, ne La Vedova Cappelli sfrutta maggiormente questa struttura narrativa allo scopo di smontare dall’interno il giocattolo-romanzo. Lo fa dilatando il più possibile il proprio intervento nella trama, già di per sé estrema come adombrato peraltro dal titolo, e facendo sì che il lettore non possa non accorgersi della presenza invadente dell’autore, in maniera tale che questa (solitamente una iattura) divenga il vero valore aggiunto del romanzo. In primo luogo caratterizza con tinte forti la pletora di personaggi surreali che si alternano nel romanzo. Quindi procede a una titolazione arguta e ammiccante per i brevi capitoli, in maniera tale da fornire già in apertura una linea interpretativa improntata a un deridente scetticismo. Nessuno dei personaggi, tutti mossi da una sensazionale e grottesca avidità nei confronti di sesso e denaro, può essere identificato nell’autore il quale ciò nondimeno è il vero protagonista del romanzo: ad esempio quando sostituisce i passi più scabrosi con delle sinossi asteriscate a fine volume, sale in tribuna per esprimere la propria satira sociale, inserisce compiute digressioni teoriche (una delle quali, meravigliosa, in lode dell’infinita fantasia romanzesca a detrimento dell’illusoria libertà vigilata di internet), sbertuccia l’arte contemporanea, o addirittura conta con l’ausilio di Microsoft Word le parole scambiate da due personaggi e inserisce il risultato nel monologo interiore di uno dei due.

Come sempre l’utilizzo che fa Cappelli della lingua merita una menzion d’onore. Se è risaputo che nei suoi precedenti romanzi la fusione di Italiano colto e di dialetto potentino (o dei dintorni) gli riusciva alla perfezione, e altrettanto perfettamente gli riesce ora, ne La Vedova Cappelli compie un passo avanti spingendosi al miscuglio del dialetto con il Latino negli inserti riguardanti i sogni medievali (o la metempsicosi?) della protagonista – a titolo di esempio valga: “O filius de gran meretrix pottanazza”. Padre nobile dell’operazione l’Umberto Eco di Baudolino, se vogliamo limitarci alla narrativa italiana recentissima, ma anche la brava Annalucia Lomunno di Rosa Sospirosa.

Più in generale, Cappelli spicca per la giustapposizione carnevalesca di un registro alto e di uno infimo, che per quanto sopra le righe non risulta mai fastidiosa all’occhio del lettore (anzi all’orecchio – visto che i dialoghi di Cappelli sembrano piuttosto fabbricati per essere letti ad alta voce), divertendolo oltremodo, intrattenendolo man mano che la trama si fa più e più intrigante, e impiantando così una notevole qualità letteraria sulla struttura base del pageturner. Se dovessi infine indicare due soli motivi fra i tanti per cui vale la pena di leggere La Vedova, indicherei due passi da virtuoso. Il primo è la parodia degli annunci di coppie scambiste, un pastiche comprensivo di svarioni e tic verbali che fa emergere dall’ovvio anonimato i differenti strati sociali e condizionamenti psicologici degli orgiasti. Il secondo è il verbale dell’operazione Mantegna Coach, attorno alla quale ruota l’intero romanzo e che nonostante il tono scanzonato costituisce forse la cifra più alta dello stile di Cappelli in questa sua ultima prova: ove riferisce con perfidia flaubertiana dei sospetti “traffici d’opere d’arte e nella fattispecie di una scultura del Mantegna Andrea, di professione: artista rinascimentale”.

lunedì 24 novembre 2008

Tredicesima giornata

Che non sarebbe stata una serata facile l'avevo capito a priori, nel momento in cui ho tentato di piazzarmi a vedere Torino-Milan e ho trovato la televisione occupata da gente che guardava Fabio Fazio. Poi la ragione ha prevalso (o la violenza, non so; nel caso specifico coincidevano) e la partita è iniziata anche per i miei pregevoli organi sensoriali con circa un quarto d'ora di ritardo.

Poi c'è stata un'escalation. Prima entra un tizio che aveva comprato dal McDonald's il super-280 grammi, che per le sue dimensioni potrebbe chiamarsi anche super-280 chili e per il suo olezzo anche super-280 quintali. Dopo di che entra un gruppetto che aveva avuto l'ardire di cenare con una pizza-kebab - voglio dire una pizza-kebab ciascuno. (Per chi non lo sapesse, la pizza-kebab consta di una margherita sulla quale vengono rovesciati tutti gli ingredienti tipici del kebab: carne di boh, insalata smorta, patatine fritte, cipolle, ketchup, maionese, salsa rosa, salsa arancione, salsa fucsia, cipolle, dita di Turco, budella di infedele, un boa che ha mangiato un piccione che ha mangiato un sorcio che ha mangiato un elefante indiano, cipolle, fazzolettini di carta, hot dog sminuzzati, sunniti, sciiti, cipolle, Diet Coke e un'oliva verde. Il tutto ricoperto di cipolle, cipolle, cipolle. Mi ha fatto venire in mente che forse l'unica maniera di sconfiggere definitivamente i mussulmani è mangiarseli.)

Stordita dal fetore che emanava dai miei vicini, una squadra raffinata e neoplatonica come il Milan è riuscita ad andare in svantaggio prendendo un goal con un cross sul primo palo, mostrando un dinamismo difensivo che al confronto giocare alle belle statuine fa male alla salute. A quel punto il Milan sembrava il Signore che (cfr. Genesi 11, 7), solleticato dall'erigenda Torre di Babele, scende da noialtri a farsi due risate. Cinque minuti e Pato pareggia in scioltezza. Altri cinque minuti e Ronaldinho non solo segna su punizione ma addirittura inizia a esultare un attimo prima che la palla entri in porta.

Direte: qui si vede il Brasiliano; oppure: qui si vede il genio. Invece dico: qui si vede il professionista, perché il Brasiliano esulta continuamente e il genio si rende conto di ciò che ha fatto solo dopo averlo fatto, mentre il professionista sa - nella fattispecie - che colpendo la palla in un determinato modo e dandole un determinato giro la palla va a infilarsi esattamente dove la si doveva mandare. Ne consegue che era inutile stare a guardare se entra o no, tanto il goal è stato fatto nel momento in cui il piedino toccava il cuoio. (Poi un giorno bisognerà capire come mai Del Piero tira una punizione e segna, Ibrahimoviç tira una punizione e segna, Ronaldinho tira una punizione e segna: o sono diventati tutti Maradona nello stesso momento, o i palloni sono telecomandati, o i portieri sono diventati imbecilli, o a furia di venire rincoglioniti con schemi e ripartenze non esistono più giocatori in grado di sistemarsi in barriera).

Passati questi dieci minuti di lavoro part-time, il Milan è risalito nell'alto dei cieli aspettando cortesemente che il Torino pareggiasse, com'è puntualmente avvenuto verso la fine della partita. Ora, non mi preoccupano tanto il punto o i tre punti di distacco dall'Inter (si tratta di una partita, ne mancano venticinque), quanto la balenga incapacità rossonera di chiudere le partite, uccidere l'avversario, accanirsi sugli innocenti, sterminare i più deboli. A Torino come a Lecce due settimane fa: e lo scudetto, specie ora che il campionato è a settemila squadre, non si vince negli scontri diretti ma tenendo a bada la classe mediobassa. Ancora una volta il Milan s'è talmente specchiato nella propria bellezza da convincersi infine di dover essere anche buono. L'Inter invece, se un merito le va riconosciuto soprattutto, riesce sempre a vincere le partite che dovrebbe pareggiare (a Reggio, con l'Udinese, anche con la Juventus che non potrà pensare allo scudetto finché non torna Buffon ma nella quale Manninger ha fatto il suo e il soverchio). Se il Milan fosse stato cinico come Mourinho, avrebbe vinto a Lecce e a Torino e ora avrebbe quattro punti in più. Se l'Inter fosse stata paciosa come Ancelotti, non avrebbe segnato all'ultimo secondo contro Reggina e Udinese e ora avrebbe quattro punti in meno.

Sabato sera, per la cronaca, la partita che ha messo di fronte le due squadre minori di Torino e Milano ha visto prevalere nettamente la minore fra le due.

venerdì 21 novembre 2008

Letterine letterarie (10)

Sei un genio.
Cosimo

Iper libro, iper recensione. Ottima come sempre, mio vecchio.
Livio

Ma nessuno recensisce te?
Mirko

Tre lettere che si rispondono l'un l'altra. Oggi chiuso per rabbia creativa e sconforto editoriale.

giovedì 20 novembre 2008

Pavia decadence

(Gurrado per Tempi, anno 14, n.46, 13 novembre 2008)


Pavia non esiste, o meglio è un’illusione ottica, lo specchio di un’immagine riflessa. Controprova sociologica: basta fermare per strada un indigeno e uno studente a caso chiedendo a entrambi di definire la città in cui vivono; ne sortiranno due risposte del tutto diverse e, se non si avesse la certezza che entrambi hanno casa nella stessa Pavia – magari nella stessa strada, fors’anche nello stesso condominio – si finirebbe per credere che vivano non solo in due città ma in due mondi del tutto diversi. Il fatto è che mentre l’indigeno è convinto di abitare in una fin troppo tranquilla cittadina di provincia, onusta di storia medievale e ingloriosamente rappresentata da pedatori di serie C2, lo studente sostiene di abitare nella miglior città universitaria d’Italia, giovane, vivace e stimolante dal lunedì al venerdì (il weekend non gli appartiene, al weekend si torna a casa).

Hanno ragione entrambi. Città e università a Pavia sono due compartimenti stagni, due estremi che s’incontrano molto di rado e, quando capita, tendono a ignorarsi o a considerarsi con malcelato disprezzo. Controprova topografica: la sede centrale dell’Università (1361) si trova quasi uasiquasquasiin cima a corso Strada Nuova, il cardo di Pavia che con longobarda coerenza corre in discesa verso sud, giù fino a inabissarsi nel Ticino. Tuttavia il grosso del passeggio su Strada Nuova è monopolio della società civile, ovvero degli indigeni, e i weekend sono nobilitati dai provinciali con le loro vasche in salita e in discesa a orari tanto improponibili quanto gli abiti nei quali si pavoneggiano – non è raro rinvenire ruspanti signorine che alle tre meno un quarto della domenica pomeriggio attraversano due file di vetrine tenendo per mano energumeni in canottiera, indipendentemente dalla stagione. Quanto agli studenti, è più facile incontrarli sul decumano, che corrisponde a Corso Mazzini prima e Cavour poi, e che coincide grossomodo con la strada più comoda e dritta per raggiungere la stazione, fuggendo da Pavia a massima velocità ogni venerdì pomeriggio, o subito dopo un esame, o negli interstizi fra i trimestri accademici. Cardo e decumano, passeggio e fuga, città e Università finiscono per intersecarsi in uno e un solo punto: piazza della Vittoria.

In piazza Vittoria studenti e indigeni si concentrano a ogni ora per mostrare di fronte al nemico il peggio di sé. Gli indigeni – istigati forse dalla presenza, all’imbocco della piazza, della celebre pellicceria Annabella, la Las Vegas delle nebbie, il cantuccio dove le luminarie natalizie vengono accese a ottobre e spente verso marzo – portano con sé tutto lo sfarzo di cui sono capaci, piantandosi ai tavolini dei cinque bar dalla prima colazione all’ultimo aperitivo, sbraitando a scopo intimidatorio spropositi del tipo: “La mia compagna è appassionata di rimedi naturali”, e dando l’impressione che a Pavia non lavori nessuno, in orario d’ufficio. Attempate signore, che con ogni verosimiglianza hanno fatto in tempo a esprimere scetticismo al cospetto dell’invenzione della pila, traballano sotto gigantesche pellicce, sempre indipendentemente dalla stagione, e ognuna si lamenta della dura vita che il Signur le ha riservato.

Cameriere cinesi servono cornetti di plastica. Cameriere rumene servono tortellini precotti. Cameriere longobarde accompagnano l’Aperol con bordi bruciacchiati di pizza e, dietro esplicita richiesta (mia) di far bella figura con dei tramezzini o addirittura qualche fetta di crudo e scaglie di grana, reagiscono sbuffando e portando un ulteriore vassoietto traboccante di bordi ancora più bruciacchiati. Uno degli infiniti ambulanti maghrebini o centrafricani, che pian pianino hanno preso in ostaggio la santa pace di ognuno, tenta di vendermi un elefantino in falso avorio, e per risultare più convincente si siede al mio stesso tavolo e indaga se la signorina che mi accompagna sia o meno la mia legittima fidanzata. Se ne andrà al prezzo di due euro, col mio mistero chiuso in sé. Un ragazzetto zingaro chiede altri soldi, senza elefanti in cambio, e coglie occasione per gironzolare attorno a borse, cellulari e portafogli. Se oso protestare, si lamenta e invoca la carta dei diritti dell’uomo.

Caratteristica non trascurabile, nessuna chiesa si affaccia su piazza Vittoria. È presunzione? C’è se non altro una Madonnina candida, lungamente sparita per restauro e poi riapparsa nel sabato più nebbioso degli ultimi sette anni, che da una teca sulla facciata del Broletto un po’ guarda benevolmente i traffici sottostanti, un po’ finge di non vedere. Dietro il Broletto, che da essere palazzo del Comune è retrocesso a scenografia di un pub all’irlandese, s’intravede la cupola del Duomo, la terza più grande d’Italia (se ne vantano gli indigeni, ignari che le dimensioni non contano): una faccenda gigantesca e sproporzionata sulla quale è ormai un decennio che s’inerpicano impalcature permanenti. È trascuratezza? Dal lato opposto, dietro al Banco Popolare di Novara, spunta la torretta fascista del Palazzo della Provincia. Sul versante orientale della piazza c’erano le assicurazioni Generali; ora non è rimasta che l’impronta cubitale delle lettere dell’insegna, campeggianti sopra una gelateria. È nostalgia? Città di ombre e di resti, da qualche mese Pavia ama vantarsi, a mezzo cartellone installato dal Comune nel bel mezzo della piazza: “Una città, le sue radici, il suo futuro”. La città è Pavia. Le radici, spiega il cartellone, sono gli anfratti del mercato ipogeo nascosto sotto i sampietrini della piazza. Il futuro non è specificato.

Il mercato ipogeo spalanca le sue fauci in quattro diversi punti della piazza. Che piova a dirotto o splenda il sole malaticcio di queste parti, gli indigeni scendono i gradini che portano al piano inferiore allo scopo di passeggiare al buio fra tristi mercerie o passare dall’emporio e pagare uno sproposito generi misti per i quali litigheranno con la cassiera su mezzo centesimo di resto. Poi arriva l’ora di cena: chiudono gli uffici, chiudono i negozi, il mercatino sotterraneo vomita in superficie gli ultimi avventori e, intorno alle ore venti, passa l’ultimo bus. D’improvviso tutti svaniscono, compresi zingari e ambulanti; le impalcature del Duomo si trasformano in lugubri scalini verso il cielo nero e piazza Vittoria resta in mano agli studenti - i quali si riuniscono in plotoncini, fanno presenza, tentano timidamente di smuovere la situazione ma dopo un’oretta, rendendosi conto che a Pavia ogni battaglia è persa, lasciano già campo libero per le prime vecchiette impellicciate che al mattino inaugureranno la colazione. La piazza resta vuota, a eccezione della Madonnina candida che sembra sospesa nel nulla, sorretta dal buio.

Così è piazza Vittoria. Ci si trascorre tutti insieme una mezz’ora o una mezza giornata sapendo benissimo, gli indigeni, che senza Università né studenti sarebbero sì costretti ad abbassare gli affitti ma vivrebbero più tranquilli, e non dovrebbero più preoccuparsi di orde pronte a seminare i crocicchi di bottiglie rotte ovvero a mollare bisognini attraverso le sbarre dei cancelli altrui; e sapendo altrettanto bene, gli studenti, che se le mille sedi dell’Università e soprattutto il sistema virtuoso e benedetto dei vari Collegi storici (come il Ghislieri, 1567) e recenti (il Nuovo, appunto), pubblici (il Castiglioni) e privati (il Santa Caterina) fossero miracolosamente sollevati da una turba angelica e trasportati altrove, a Monza, a Campobasso, a Boston o nel deserto del Sahara, nulla cambierebbe nel corso delle loro vite, e Pavia verrebbe legittimamente riconsegnata alla sua placida, remota, inconsapevole inesistenza.

mercoledì 19 novembre 2008

Parole e immagini

Stasera alle 21

al Collegio Ghislieri
di Pavia

nuovo appuntamento

con la rassegna "Pavia città di Lettori"
organizzata dal Collegio Ghislieri
e dalla Libreria Il Delfino
(piazza Vittoria 11)

verrà presentato

il nuovo volume di Emilio Giannelli
Il Mago Merlino

edito da Marsilio (Padova)
Accorrete numerosi
io ci sarò in tutta la mia bellezza.

martedì 18 novembre 2008

La Guzzanti, Beckett e Berlusconi

Rido, la gente non capisce.
(Enzo Jannacci)

Fra i vari motivi che uno può avere per scandalizzarsi aggiungiamo anche il fatto che voto Berlusconi e mi piace Sabina Guzzanti. Io medesimo fino a non molto tempo fa ritenevo che fosse in fin dei conti il sintomo di una schizofrenia neanche tanto larvata, poi ho visto Anno Zero. O meglio, poiché io non guardo mai Anno Zero, poiché io non guardo mai Santoro e derivati (non lo guarderei neanche se ci fosse, per assurdo, che so io la Granbassi), mi sono limitato a guardare su youtube gli inserti comici della Guzzanti (o meglio, trattandosi di una trasmissione di Santoro, mi sono limitato a guardare su Youtube gli inserti seri della Guzzanti).

Così mi sono convinto che di Sabine Guzzanti ne esistono due Una è nota a tutti ed è la barricadera che da quando le hanno chiuso Raiot l'ha giurata al regime e investe tutto il suo talento infinito nella lotta verbale, fino ad arrivare a soperchierie come la rissa televisiva con Giuliano Ferrara da Gad Lerner (anni fa) o (più recentemente) all'antipapismo omofobico del carnevale di Di Pietro. Tuttavia essendo per fortuna tale suo talento appositamente infinito, per quanto lei si sforzi a investirlo tutto ne avanza ancora parecchio che anima l'altra Sabina Guzzanti, imitatrice indistinguibile dall'imitato e comica dalla nobile tradizione.

La puntata di Anno Zero del 30 ottobre (ah, Santoro va in onda di giovedì? Non lo sapevo, di solito guardo Provaci ancora Prof) è stata utile soltanto a mettere in mostra queste due anime differenti e contrapposte. Il secondo intermezzo della Guzzanti, con Berlusconi che suonava la cetra e cantava mentre Roma era in fiamme, rientrava nel consueto accanimento barricadero e ha fatto ridere fino a un certo punto, perché sotto sotto l'astio personale era palpabile. Il primo intervento invece, con Berlusconi seduto dietro la scrivania che si lanciava in un monologo inarrestabile, raggiungeva l'obiettivo di far ridere favorevoli e contrari senza distinzione.




Perché? Perché si trattava di un pezzo che arrivava dritto dal teatro dell'assurdo (caratterizzato anche da monologhi fiume irti di contraddizioni) e quindi nella circostanza la satira politica e la parodia particolare cedevano il passo alla generalissima arte retorica benché impazzita. In quel momento la Guzzanti stava facendo Berlusconi ma anche Lucky di Aspettando Godot (quello del tennis ricorrente e dell'Accacaccademia di Antropopopometria). Se invece di ascoltare provate a leggere il monologo ve ne rendete conto facilmente:

Io devo esprimerle la mia più più più più condanna per non aver fatto la puntata per esempio l'altra volta sulla scuola nella quale sembrava che io avevo detto istruzioni dettagliate perché la polizia intervenga a reprimere gli studenti mentre la cosa che ho detto era molto semplice e cioè questa istruzioni dettagliate perché la polizia picchi gli studenti ma non nel senso fraintendoso che ha detto lei il quale poi Cossiga ha risposto perché non fate come abbiamo sempre fatto cioè infiltrate una talpa in modo che poi sembra che gli studenti sono terroristi e mettono le bombe ma io qua mi scusi già mi sono perso lei mi deve spiegare perché io dovrei mettere una talpa fra gli studenti per cosa che poi li mando all'Isola dei Famosi la Talpa o che cosa non mi è chiaro il punto la talpa che cosa che poi devo candidare la talpa che anche quella si vuole candidare che già son pieno di talpe questi casini questi Bossi che li ho inventati io e mangiano pane a sbuffo e a tradimento Dio li fa e io me li accollo sono credente ma c'è un limite abbia pazienza mi scusi ma io se dico questo della polizia non voglio far sembrare che siano violenti io ci tengo a sembrare io quello violento questo io credo che sia il massimo del del della gratificazione di un premier il quale sa che nel momento in cui dice la polizia sono io che mando la polizia perché quando dico una cosa è quella se posso prendermi mi conceda Santoro un mezzo millimetro di vanto visto che sono la modestia fatta persona nonostante tutto io quando ho detto Milan l'ho fatto quando ho detto Governo sono stato ora partito sono stato quando ho fatto un giornale l'hanno chiamato Il Giornale Santoro non l'hanno chiamato pie' di pagina qualcosa vorrà dire allora io ci tengo a dire che se il premier dice una cosa la cosa è quella perché con tutte queste talpe io poi non ne posso più perché poi le devo candidare cosa ci faccio con tutte queste talpe con tutti questi politici che ho messo in giro che io personalmente guardi Santoro li odio i politici non li posso vedere e e e non vada in giro a dire che li odio perché io non ho mai detto che li odio ma se posso farli fuori tàtàtàtà e non vada in giro dicendo che ho fatto la mitraglietta perché io non ho fatto nessuna mitraglietta Santoro per favore si contenga Santoro l'uso criminoso che lei sta facendo del servizio pubblico attribuendo ancora una volta al sottoscritto cose che non ha mai detto si vergogni questo è il contraddittorio in un Paese nel quale non si vogliono accettare le normali le normali norme democratiche abbiamo un'opposizione signori che scende in piazza un'opposizione che seppur pro forma scende in piazza e si prende il merito di una piazza che ho riempito anch'io perché se non avessi detto quella cosa della polizia che non ho detto neanche si sarebbe riempita la piazza.

Durava meno di tre minuti, ma Sabina Guzzanti avrebbe potuto continuare all'infinito: perché Berlusconi è così e perché siamo così più o meno tutti, lei compresa.

lunedì 17 novembre 2008

Dodicesima giornata

Iniziamo dalle belle notizie, anzi, iniziamo dalla bella notizia (visto che generalmente sono le disgrazie a non arrivare mai sole). La bella notizia in questione risale a sabato e non è la vittoria del Bari (di nuovo!), non è la vittoria del Modena (finalmente! allora gli esorcismi funzionano anche nelle socialdemocrazie!), ma il fatto che abbiano vinto simultaneamente Bari e Modena senza che per questo mi sia venuto un ictus - ma per tutto il lungo crepuscolo del sabato, devo ammetterlo, l'ho temuto.

Sempre sabato, ma di sera, ho avuto la conferma della frase che ripeteva sovente il professor Scoglio buonanima. Il calcio è un metodo per coprire (con undici uomini e un pallone) il maggiore spazio nel minor tempo possibile. Infatti con leggero ma colpevole ritardo - stavo guardando i Simpson su Fox, e nella fattispecie la puntata che si conclude col maialino volante (chi sa parli, chi non sa non chieda) - mi sono sintonizzato sul secondo tempo di Palermo-Inter poco dopo il calcio d'inizio. Undicesimo secondo, il Palermo detiene palla sulla trequarti ambrosiana con, mi pare, Fabio Simplicio o Dio sa chi. Ventottesimo secondo, Ibrahimovic accarezza la palla coi tacchetti, la lascia scivolare di quel tanto che basta a convincerci tutti che l'abbia persa, poi approfittando della gentilezza dei difensori siciliani i quali invece di andargli incontro tendono a scansarsi esplode una mazzata che pare fatta per rimbalzare sulla bandierina del corner e invece si infila esattamente nell'ultimo millimetro disponibile di porta alla destra di Fontana. Madò.

Di là dalla bellezza del tiro di Ibrahimovic, resta da capire cos'è successo al Palermo nei diciassette secondi che (data la continuità temporale del nostro comune sistema di riferimento fisico e universale) hanno collegato come se niente fosse l'attacco di, boh, Fabio Simplicio alla rete di, madò, Ibrahimovic. Sintetizzando, è accaduto ciò che il Palermo non è mai riuscito a fare nel primo tempo, in particolar modo per mezzo dello sciagurato Edison Cavani: ver-ti-ca-liz-za-re, evitare di emozionarsi quando si riesce a rubare la palla all'avversario (neanche tanto di rado, nello specifico) e correre felice verso la sua porta, tirando prima o poi.

In Roma-Lazio, ventiquattr'ore dopo, una cosa del genere l'ha tentata solo Zarate. Il quale sarà un ottimo giocatore (al quale forse sta andando meglio del solito, ma mi auguro che continui a questi livelli) ma da solo non può caricarsi il fardello di una partita che non è una partita, di un destino che coinvolge la statistica, la stocastica e pure la storia (tanto per mantenerci nel barocco recinto delle allitterazioni). La statistica dice che, tendenzialmente, il derby lo vince la Roma. La stocastica rivela che, tendenzialmente, il derby lo vince la squadra peggio combinata (per chi non l'avesse notato, quest'anno è la Roma). La storia - be', spero che nessun laziale passi di qui oggi, ma indipendentemente dalle alterne vicende la storia ha sempre detto Roma e basta. Quindi 1 fisso, come volevasi dimostrare.

La storia storiografica, fra l'altro, a noi che abbiamo la vista lunga (ma solo all'indietro) ha rivelato che il derby di ieri sera rotolava pericolosamente verso i consueti derby di fine anni '80-inizio anni '90, che finivano con degli stitici 0-0, 1-1, e così via. Il finale ha smentito i timori, ma non si può non notare che forse il calcio romano sta tornando a quei fasti infausti.

E ora vado a vedere i titoli dei giornali, anche se è tardi. Voglio vedere come reagiscono, nell'ordine:
- tutti quelli che dopo nove giornate impazzivano per il "campiomatto" con davanti Napoli, Udinese, Catania e Albalonga;
- tutti quelli che volevano far fare a Carletto Ancelotti la fine del maialino volante di cui sopra dopo l'inizio traumatico con due sconfitte una dietro l'altra;
- tutti quelli che dalla sconfitta contro il Milan continuano a chiedere a José Mourinho se ha la fobia del confronto con Mancini (sarebbe come se Salvador Dalì avesse avuto la fobia del confronto col Braghettone);
- tutti quelli che volevano rinchiudere Claudio Ranieri in ospizio;
- tutti quelli che blaterano del dopo-Calciopoli, del calcio onesto e dello spazio al vertice finalmente anche per le squadre di provincia;
ecco, voglio vedere come reagiscono tutti costoro di fronte alla lettura di una classifica che in cima a un terzo di campionato recita: Inter 27, Milan 26, Juventus 24.

venerdì 14 novembre 2008

Letterine letterarie (9)

Gurrado,
lei ammira la Palin per motivi puramente estetici, lo ammetta! Da mo il look da maestrina stuzzica l'immaginario erotico: Gelmini docet, no? Ma non è che ve le scegliete tutte a immagine e somiglianza delle starlette porno-soft?
Apple

La sinistra italiana dev'essere stata violentata da piccola: vuole le donne tutte brutte e i maschi tutti froci.


Ok Gurrado,
il pezzo di lunedì su Sky è bellissimo, ma il commento della giornata calcistica dov'è?
Mirko

Eh, dov'è. Il problema è più generale, e cioè che non si può insistere sulla retorica del sorpasso (del Milan sull'Inter) e controsorpasso (dell'Inter sul Milan) con un punto di differenza a ventisette giornate dalla fine. Ai quotidiani sportivi questo serve per vender copie, alle trasmissioni tv serve ad avere qualcosa su cui urlare. Piglia la Juventus, per esempio: tre settimane fa era candidata massimo a una salvezza risicata e Ranieri andava come minimo appeso per i piedi a piazza Crimea; ieri vincono in scioltezza 4-1 contro il Genoa, manco giocassero contro la Mestrina, e la Gazzetta si esalta col titolone sulla Juventus prima in classifica. Dimenticando che devono giocare altre diciotto squadre, prima di capire se la Juve è prima o seconda. In ciò ho apprezzato molto Mourinho, che domenica pomeriggio ha risposto a una domanda sull'Inter che era tornata prima rispondendo che a ben guardare l'Inter era seconda, perché mancava il posticipo del Milan. Che poi il Milan abbia pareggiato, confermando buona parte dei miei pensieri su Lecce, è un altro discorso. Fatto sta che questa prima parte di campionato somiglia alla prima metà delle corse ciclistiche: poiché è impossibile che qualcuno tiri dall'inizio alla fine, i ciclisti si danno il cambio in testa alla corsa ogni tot chilometri. Se un cronista di ciclismo dovesse comportarsi come un cronista di calcio, impazzirebbe urlando istericamente per sei ore: "Adesso in testa c'è Bettini! Ora Ballan! Ora Podenzana! Ora Balmamion! Ora Gosta Petterson! Ora Learco Guerra!", e così via finendo magari per non avere più voce all'arrivo. Quindi, visto che il contenuto è così così, preferisco concentrarmi sul contenitore, come un Marshall McLuhan delle murge.


Gurrado,
ma a te le persone interessano solo prima di nascere e dopo essere state sgozzate dai mussulmani?
Silvia G

Sì.


Gurrado:
disoccupato? Non ci credo. Come minimo devi dedicare dieci ore al giorno ai libri, alla Gazzetta e a questo blog!
Giancarlo

Per certi versi, Giancarlo. In fin dei conti non ho ancora trovato il tempo di documentarmi adeguatamente sulla situazione politica scozzese, come avrai notato. Ma prometto di farcela prima della dichiarazione d'indipendenza.


Acqua
Eluana


giovedì 13 novembre 2008

Gurrado su Tempi

Sul nuovo numero del settimanale Tempi, in allegato solo oggi con Il Giornale, trovate due pagine scritte da me e intitolate "L'illusione di Pavia" (e sottotitolate: "Studenti e indigeni non sanno di vivere nella stessa città finché non si scontrano qui. Per mostrare gli uni agli altri il peggio di sé"). L'articolo rientra nel ciclo "Piazze d'Italia", ideato e diretto da Camillo Langone, e che da fine agosto a oggi ha visto avvicendarsi i seguenti autori: lo stesso Langone (Rimini), Rosa Matteucci (Orvieto), Luca Doninelli (Milano), Manuela Maddama (Roma), Paolo Bianchi (Biella), Elio Paoloni (Lecce), Carlo Melina (Padova), Davide Rondoni (Forlì), Claudio Damiani (Rignano Flaminio), Enrico Brizzi (Bologna) e Laura Bosio (Vercelli). Giovedì prossimo sarà la volta di Alessandro Zaccuri con Rozzano. Di conseguenza vi consiglio, se non l'avete già fatto, di assalire le edicole, minacciare i giornalai, dar fuoco a tutti i settimanali che non siano Tempi e comprarne come minimo sette copie ciascuno.

mercoledì 12 novembre 2008

Mi manda Langone

Domani vengono pubblicate sul settimanale Tempi le mie due prestigiose pagine nell'ambito del ciclo Piazze d'Italia. Per oggi, i gurradomani possono accontentarsi della breve ma sapida biografia scritta da Camillo Langone per spiegare (testualmente): ma chi è Antonio Gurrado?

Un papista erudito che si diletta con la Gazzetta dello Sport

Antonio Gurrado è nato a Santeramo in Colle (Bari) nel 1980, è cresciuto a Gravina in Puglia, ha studiato filosofia a Pavia, Cambridge, Napoli, Modena, Oxford. È un collezionista di prestigiosi collegi universitari: il Ghislieri, il Saint-John’s, il San Carlo, il Linacre, il Saint-Hugh’s. Nelle biblioteche frequentate in passato da Carlo Goldoni e Gianfranco Contini, William Wordsworth e Samuel Butler, ha scritto una tesi dal titolo preoccupante: Teocrazia e monarchia ebraiche: Voltaire fra esegesi e politica. Ha pubblicato un paio di romanzi un po’ più leggeri, di ambientazione murgiana, uno dei quali disponibile su Ibs: Il gatto che si morde la coda. Si definisce «papista, erudito, conservatore, milanista, monarchico, disoccupato e astigmatico». Disoccupato lo dice solo per vantarsi, in realtà collabora con varie case editrici, scrive di calcio e ciclismo sul blog della Gazzetta dello Sport, rappresenta il collegio Ghislieri nell’organizzazione della rassegna “Pavia città di lettori”.

martedì 11 novembre 2008

L'iperscherzo

(Gurrado per Books Brothers)

Sta a ffà tterra pe ccesci: ecco indov’èllo.
(Giuseppe Gioachino Belli)

Potrebbe apparire trucido ma la prima fondamentale condizione che balza alla mente nel momento in cui si tratta di decidere se un testo sia un classico o meno risiede nel prerequisito che l’autore sia morto. Questo almeno ho pensato apprendendo, ormai più di un mese fa, del suicidio di David Foster Wallace. Parlo di là dalle ragioni personali che potrebbero averlo spinto a impiccarsi (a me interessano gli scrittori, non le persone): potrebbe darsi che la sua morte sia stata il sigillo definitivo per conferire con decorrenza immediata dignità di classico a Infinite Jest, che dal titolo stesso ha la valenza di scherzo senza fine. Io per primo, che istintivamente tendo a privilegiare i classici, ero da un lato incuriosito dalla mole e dall’ambizione del romanzo, dall’altro trovavo sempre degli aspetti contingenti che mi trattenevano dal leggerlo (non di rado la stessa mole, la stessa ambizione). Morto l’autore, tutti gli impedimenti contingenti sono venuti meno a un tratto e leggere Infinite Jest mi è parso un dovere immediato e indiscutibile così come leggere Joyce, Musil, Proust, Beckett, Mann. Non sono nomi che uso a caso.

Fino a immediatamente prima della morte di Wallace la ragion d’essere di Infinite Jest era da ricercarsi altrove. Usando l’accetta, la letteratura italiana si distingue da quella americana per due ragioni principali. La prima è che in America quasi tutti gli scrittori sentono impellente il bisogno di prodursi in un grande romanzo americano, talmente grande e talmente americano da garantirsi l’articolo determinativo e le maiuscole: il Grande Romanzo Americano. Noi siamo d’altra pasta e (per quanto recentemente abbiamo avuto Genna e Colombati) lasciamo ben sopita l’ambizione a comporre il Grande Romanzo Italiano, definitivo onnicomprensivo e indissolubilmente radicato sul territorio. In America, per limitarci agli estremi, basta pensare ai grandi affreschi postmoderni di Thomas Pynchon o anche soltanto a Via col Vento (senza contare che nel 1973 Philip Roth intitolò proprio The Great American Novel uno dei suoi romanzi meno celebri): è evidente una diffusa ambizione statunitense a narrare tutto per mezzo di un panopticon narrativo, a partire dal foglio bianco e a procedere non per levare (come voleva d’Annunzio) ma per mezzo di aggiunte e sostrati successivi. Le milletrecento pagine di Infinite Jest, con annesse trecentottantotto note esplicative di vario genere e misura, sono la ponderosa conferma del perdurare di quest’ambizione.

La seconda distinzione si infila più nelle pieghe del testo e si può riscontrare nel celebre ammonimento intarsiato sul portale di ogni scuola di scrittura creativa: don’t tell the story, show it - non raccontare la storia, mostrala. La classica narrativa italiana (ed europea) ha sempre teso a una narrazione mediata, in cui la voce dell’autore sia preponderante a fronte dell’agire dei personaggi. La narrativa americana, altrettanto classica, ha progressivamente privilegiato l’immediatezza dell’agire dei personaggi e la pervicace cancellazione delle impronte digitali dell’autore. Ovvio che le eccezioni non mancano (altrimenti la letteratura sarebbe roba noiosissima, letto un libro letti tutti); però la caratteristica di Infinite Jest che salta più a un occhio tecnico è che Wallace scelga di raccontare la sua sterminata, pirotecnica, tracotante storia piuttosto che di mostrarla. E, poiché si tratta di una storia letteralmente bigger than life - impossibile a essere contenuta entro i canonici confini di una quarta di copertina, di una trama, di una vita intera - è estremamente plausibile che la stessa vita dell’autore vada ritenuta compresa in, identificata con, fagocitata da Infinite Jest.

Alla scelta di raccontare con tutti i crismi della letteratura classica consegue che lo stile di Wallace è tutt’altro che naif, nonostante che all’atto della pubblicazione avesse poco più di trent’anni. Ci sono dentro così tanti trucchetti che non li si è ancora scoperti tutti, credo, e mi sembrano sovrabbondanti le citazioni implicite che si rifanno quasi ossessivamente al canone letterario europeo, quindi alle successive incarnazioni dell’idea stessa di classico. Tutto il romanzo anzi è incentrato sull’affannosa ricerca di un film, intitolato appunto Infinite Jest, che nessuno ha visto ma che è eternato nella condizione di classico esattamente dal fatto che il suo autore James O. Incandenza sia morto, suicidandosi con un microonde (non entro in dettagli ulteriori, so che ci sono delle signorine che leggono).

Il primo riferimento che mi viene in mente è chiaramente Joyce, il padre di tutti i romanzi-mondo. L’identità fra i due Infinite Jest, film e romanzo, è pressoché totale e ricorda l’altrettanto affannosa ricerca di una fantomatica lettera in Finnegans Wake: questa lettera viene trovata in condizioni di illeggibilità, ciò nondimeno viene sottoposta a un accurato esame critico, marxista, strutturalista, e così via. Solamente grazie a un dettaglio, la prima parola della lettera, è possibile intuire che essa coincida di fatto col romanzo stesso, che inizia con la stessa parola, anzi con un omofono. Idem, se si volesse avanzare la ragionevole ipotesi che il misterioso film vada identificato col romanzo che ne parla, l’unico supporto effettivo sarebbe la coincidenza fra due parole, considerato che il titolo è lo stesso.

Wallace deve a Joyce vari altri elementi caratteristici del suo romanzo. La sovrabbondanza di note arriva dritta dritta dagli scòli dei giovani protagonisti di Finnegans Wake al testo che li contiene. Idem, il sensazionale e dettagliatissimo resoconto del gioco onnicomprensivo dei giovani protagonisti di Infinite Jest, che riproducono su alcuni campi da tennis i destini del mondo intero, deriva dalle messinscene casalinghe degli stessi giovani protagonisti di Finnegans Wake, che impersonano di volta in volta Papi e Imperatori, oppure angeli e diavoli, il tempo e lo spazio, e così via. Quando Wallace, dopo circa cinquecento pagine, decide di raccontare i futuribili anni di storia del Nordamerica che hanno condotto alla situazione politica da cui muove l’inizio di Infinite Jest, lo fa trascrivendo il copione di un cortometraggio che parodizza questa stessa storia di fronte a un pubblico noto; alla stessa maniera Joyce aveva scelto di mettere in forma di copione teatrale il capitolo fondamentale dell’Ulisse, in cui si verifica il dénouement della trama esile e complessa.

Da L’Uomo Senza Qualità di Musil, Wallace ha preso il continuo alternarsi ariostesco fra una storia e l’altra, l’inseguirsi fra i capitoli del livello individuale della trama e della sua portata politica o talvolta sovrumana, il ricercato gioco di specchi fra la seria meditazione sui destini umani e il suo continuo rovesciarsi in sberleffo poche pagine dopo. L’infinità alla quale fa riferimento il titolo di Wallace può essere intesa come incompiutezza, la stessa che caratterizza L’Uomo Senza Qualità e l’opera di James O. Incandenza, che resta come scoperchiata per l’impossibilità di sapere alcunché riguardo a quello che tutti ritengono, a torto o a ragione, il suo capolavoro insuperabile.

Come Proust, invece, Wallace ha voluto mettere su carta un romanzo che potesse essere effettivamente infinito, in cui la parola fine venisse apposta più per convenzione letteraria che per effettiva esigenza del testo o per teorica convinzione narrativa. Entrambi, Proust e Wallace, arrivano a quest’effetto passando per una destrutturazione narrativa del tempo: in Proust esso si fa liquido e perde la propria consistenza nei trapassi sentimentali da un quadro all’altro, sotto il fortunato nome di “intermittenze del cuore”; in Wallace il tempo perde la propria progressività vedendo la sostituzione del numero quantificatore (1996, 1997, 1998, etc.) con l’appellativo identificativo (Anno del Whopper, Anno di Glad, Anno del Pannolone per Adulti Depend): il quale ovviamente non identifica un bel nulla, visto che fa perdere il criterio di misurabilità e visto che la reale cronologia degli anni così rinominati viene fornita da Wallace solo dopo trecento pagine, quando il lettore è ormai aduso alla nuova terminologia temporale. E se l’ultima parola di Alla Ricerca del Tempo Perduto è, guardacaso, “tempo”, l’ultima riga di Infinite Jest contiene la vaga notazione di una marea molto lontana, che consiste nella presa di coscienza (estremamente meravigliata e per niente lucida) dell’apertura di uno spazio incomprensibile.

Beckett fu il primo autore a presentare nei suoi romanzi personaggi oggettivamente repellenti, deformi all’inverosimile e privi delle principali funzioni vitali, senza che ciò impedisse loro di continuare a vivere soffrendo; Wallace carica di queste deformità non solo buona parte dei personaggi nella centuria di Infinite Jest ma addirittura Mario, il terzogenito di James O. Incandenza. In Beckett, il protagonista eponimo de L’Innominabile è una specie di sfera che piange e non ha nemmeno le palpebre per asciugarsi le lacrime, esattamente come Mario Incandenza, il quale ha una testa gigantesca montata su un corpo informe, con la bocca sempre aperta in un sorriso insensato. Il compiacimento nella descrizione di dettagli urtanti, preponderante in Beckett come in Wallace, è spia di un iperrealismo narrativo che porta allo stremo l’utilizzo morboso e faceto della terminologia scientifica: Beckett, ad esempio in Murphy, descrive gli esseri umani per corpi fisici, sottoposti anzitutto alle leggi della meccanica e della gravitazione universale; Wallace dà pieno sfogo alle proprie conoscenze nel campo della farmacia, ma anche della trigonometria, dilettandosi nel tradurre in formule chimiche o in algoritmi le sbavature narrative della sua pletora di personaggi. Quest’attenzione tecnicissima viene tradotta su carta mediante i lunghissimi capoversi, foss’anche per pagine e pagine, di cui fanno uso sia Wallace sia Beckett (ad esempio in Malone Muore, ma anche in testi più sintetici e spiazzanti tipo Bing), allo scopo di trascinare il lettore secondo il ritmo narrativo che scelgono di imporgli fino a ipnotizzarlo del tutto.

La prosa ipnotica non è casuale, in un romanzo sulla dipendenza. Infinite Jest, il film, è una pellicola che a quanto pare impedisce di fare altro che continuare a guardare a oltranza sempre le stesse immagini. Infinite Jest, il romanzo, è un libro esigente e capriccioso che non ti lascia mai andare via, e pretende un ulteriore sforzo mnemonico e intellettivo anche nei momenti della giornata in cui non si sta più leggendo il libro ma ci si continua a interrogare al riguardo - in questo Wallace ricalca ancora Joyce, quando per gli arzigogoli di Finnegans Wake auspicava “un lettore ideale che soffra di un’insonnia ideale”. I personaggi di Infinite Jest sono tutti dipendenti da qualcosa: molti dalla droga, alcuni dall’ideologia politica, altri dai farmaci o dal fumo, uno addirittura dalla sitcom M.A.S.H. (con Alan Alda, se ricordate), che viene scomposta nei dettagli e rimontata fantasiosamente come se si trattasse di un’opera aperta della più estrema avanguardia postmoderna, o come se si trattasse del romanzo stesso che abbiamo per le mani.

Per rendere narrativamente l’effetto della dipendenza, Wallace ricorre allo stesso espediente di Thomas Mann ne La Montagna Incantata: rinchiudere i personaggi in un luogo fisico dal quale non possono fuggire. In Mann si trattava del sanatorio di Davos con le sue sette tavole bianche (e le tovaglie un po’ ingiallite), in cui la minima unità di tempo è la settimana, dove ogni mese è uguale al precedente, dal quale tutti vogliono scappare e nessuno se ne va, nel quale tutti sono di passaggio e si cristallizzano in eterno. In Wallace sono la Enfield Tennis Academy, una scuola tennistica per ragazzini di talento, e la Ennet House, una casa di recupero per tutte le dipendenze. Ma penso che si possa risalire a Mann soprattutto per mezzo di un indizio sotterraneo, quasi nascosto, che è la chiave di volta del senso stesso di Infinite Jest e forse della vita intera di Wallace. In Altezza Reale, Mann presenta la figura di Axel Martini, un poeta divorato dalla propria fama che, per timore di perderla, è costretto a sottoporsi a un regime rigidissimo per garantirsi la continua produzione di versi di alto livello che gli garantiranno a loro volta una gloria sempre maggiore che lui non potrà mai godersi, nemmeno concedendosi un sigaro o un bicchiere di vino. Allo stesso modo la principale e sottaciuta dipendenza dei membri della Enfield Tennis Academy è la graduatoria mediante la quale sono classificati nel ranking dei tennisti juniores secondo punteggi stabiliti su criteri oggettivi e ineluttabili, e il conseguente tentativo di scalare sempre un’ulteriore posizione fino al punto in cui non ci sono più posizioni da scalare e ci si dispera. Il giovane Clipperton, ad esempio, minaccia di uccidersi se non diventa n.1 nella graduatoria; finché, venendogli date vinte tutte le partite, diventa davvero il n.1 e non può fare altro che suicidarsi davvero.

Questo è, pari pari, il paradosso di Axel Martini, il martirio dell’autore nella sua stessa gloria. Wallace scrive dell’ambizione del tennista, e sembra parlare di sé definendola “devota autotrascendenza fanatica e tener duro e duro lavoro quotidiano per raggiungere una meta distante con la quale, se ci arriverai, un giorno potrai forse convivere”. O forse no, sesto fra cotanto senno.

[Nota bene: è altamente plausibile che, stante la sua formazione americana, David Foster Wallace non abbia mai letto nessuno dei classici che ho citato, e che si sia limitato a farvi riferimento per prendersi gioco dei lettori troppo eruditi.]