lunedì 28 luglio 2014

Riemergo dalle acque della Romagna per ricordarvi che domani sera parlo al Futura Festival di Civitanova Marche.

Se consultate il programma completo, anzitutto vi rendete conto che c'è un parterre mica da ridere: cito a caso Marc Augé, Silvia Ballestra, Zygmunt Bauman, Alessandro Bergonzoni, Maria Chiara Carrozza, Diego Fusaro, Ernesto Galli della Loggia, Giulio Giorello, Filippo La Porta, Loredana Lipperini, Valerio Magrelli, Marco Malvaldi, Armando Massarenti, Andrea Moro, Micaela Ramazzotti, Gian Antonio Stella e Paolo Virzì.

Il festival è iniziato giovedì scorso e va avanti fino al 3 agosto. La giornata di domani viene chiusa da Dopo i Mondiali: il calcio tra mito e futuro, dibattito fra Marco Marsullo, Giancarlo Liviano D'Arcangelo, Francesco Savio e me; interviene Maurizio Compagnoni, telecronista Sky ("Rete! Rete!"); modera Paolo Di Paolo. Il programma promette che sarà inoltre presente un campione di calcio ma non specifica se si tratti di Optì Pobà.

Appuntamento dunque domani martedì 29 luglio alle ore 23 in piazza della Libertà a Civitanova Alta. Poi andiamo a berci una cosa.

martedì 15 luglio 2014

Sul Foglio di oggi trovate la mia palinodia a Carlo Feltrinelli. Ricapitoliamo: il 5 settembre scorso avevo scritto un articolo facendo notare che la Feltrinelli aveva pubblicato la trilogia del lavoro (o trilogia della rabbia) di Luciano Bianciardi dimenticandosi il secondo volume, L'integrazione. Mi ero domandato se fosse una coincidenza, visto che L'integrazione è una satira dei primi passi della stessa casa editrice Feltrinelli. Il giorno dopo Carlo Feltrinelli aveva spedito al Foglio una lettera piccata dicendo che il libro era in uscita a breve. Diciamo quasi a breve perché L'integrazione è stata pubblicata qualche giorno fa, nove mesi dopo; se non che quando sono andato a comprarla ho trovato una sorpresa. Quale? Comprate il giornale.

domenica 13 luglio 2014

Maracanazo
da Pavia, Brasile-Olanda

Diciamoci la verità, della finale per il terzo posto non frega niente a nessuno e infatti io mi attardo a guardare fuori dalla finestra di camera mia: da uno squarcio triangolare delle nubi si è palesata la luna, la famigerata superluna di cui parlano i quotidiani estivi, la megaluna che francamente non mi sembra così tanto più grande del solito ma che comunque è grande e bella e viva: tiro giù, operazione altamente sconsigliata in questa stagione a Pavia, tiro giù la zanzariera per osservarla senza reticolo e penso che fra le mie braccia appese alla ringhiera e il cielo non c'è niente, in teoria se mi sforzassi indefinitamente potrei toccarla. "Che fai tu luna in ciel?" - "I cazzi miei"; risponderà pur evasivamente, questa luna pavese che già sta per scomparire fra le nubi più alte, ma sicuramente non guarda la finalina di cui non frega niente a nessuno, neanche al signor algerino Haimoudi a giudicare da come arbitra. Arrivo in ritardo di due minuti e già ha fischiato un rigore per l'Olanda con ammonizione per Thiago Silva, del tutto incurante del caso che si trattasse di espulsione per il difensore e punizione da fuori area. Il giapponese Nishimura, ridotto al rango di quarto uomo a bordo campo, non può intervenire a riparare il torto usando l'equilibrato metro di giudizio che lo aveva caratterizzato nella partita inaugurale contro la Croazia, nazione nella quale a titolo personale gli sconsiglio di mettere piede giammai. Frega solo ai brasiliani, che infatti si fanno prendere da nuove paturnie e perdono malamente mentre io mi metto a pensare ad Argentina-Germania. Gli amici in realtà sostengono che io dorma, che russi forse, ma sono tendenziosi: in realtà un po' chiudo gli occhi per meditare più profondamente, un po' do un'occhiata a chi mi scrive sul telefonino, un po' penso che prima guardando la luna ascoltavo la ballata di Kleinzack dai Racconti di Hoffmann musicati da Offenbach - sono un uomo sofisticato - e mi ricordavo del concerto dei tre tenori alle terme di Caracalla. Sera prima della finale dei Mondiali di Italia 90, clima migliore di oggi, abito scuro e luna in ciel: il giorno dopo, a torneo finito, sull'allora avveniristico maxischermo dell'Olimpico sarebbero apparsi come congedo il faccione di Pavarotti che cantava una romanza a caso, la luna, e la scritta "Ciao Italia 90 Welcome Usa 94", o cose del genere; avevo dieci anni e non ricordo più. Ricordo invece la partita. Maglie bellissime, luminose: la Germania in tenuta bianca solcata da un ghirigoro nero-rosso-giallo e mutande nere; l'Argentina in divisa blu da sera e mutande bianche. Il momento più interessante della partita fu una punizione per i tedeschi, che Littbarski batte non già verso la barriera e la difesa argentina schierata ma inventando un pallonetto laterale per Brehme, solo e trascurato, che tira di controbalzo e costringe Goycochea a parare con qualche affanno. Il momento più interessante della serata era stato l'inno argentino, con Maradona che mentre i connazionali cantavano scandiva "hijos de puta, hijos de puta" al pubblico italiano che fischiava l'albiceleste rea di avere estromesso gli azzurri in semifinale. La partita venne decisa dall'arbitro Codesal, messicano dal nome di ansiolitico, che estraeva teatralmente cartellini (rosso a Monzon, rosso a Dezotti, tre gialli) e assegnò ai tedeschi un rigore fantasioso forse in riparazione della sconfitta dell'Italia, chissà. Tira Brehme, che è mancino; Goycochea fin lì ha parato rigori a caterve e azzarda la mossa di saltellare dal lato destro, opposto rispetto a quello verso cui crede che l'avversario tirerà, per poi allungarsi sul sinistro: se non che Brehme viene colto dalla follia dell'irripetibilità e decide, per una volta, di tirare col destro davvero. Goycochea è costretto sull'istante a prolungare il saltello in disperata tensione verso la palla che entra e vince la Germania Federale. Non così quattro anni prima, nella finale del 1986. A Città del Messico niente luna (è il locale mezzogiorno) ma sempre maglie bellissime: le tradizionali strisce biancocelesti con mutande nere l'Argentina, in civettuola tinta unita verde (ma mutande bianche) la Germania. Non ci crederete ma con gli stessi protagonisti del '90 andò in onda una bella partita. I tedeschi commisero l'errore di sacrificare Matthaeus, che era il loro più forte, in marcatura su Maradona; così finì che a inizio secondo tempo erano sotto di due reti. Rimontarono con due goal uguali, metodici e caparbi. Calcio d'angolo, prolungamento di testa di un marcantonio a caso e deviazione vincente di un attaccante di rapina: prima Rummenigge, poi Voeller. Commisero quindi un secondo errore; credettero che le partite finissero all'ottantesimo minuto e, raggiunto il pareggio, si misero ad aspettare i supplementari la cui prospettiva venne invece sbaragliata da Burruchaga: il quale, lanciato in profondità da un passaggio dettato da Maradona con la canna da pesca, trova la forza di correre come se non ci fosse un domani e trafigge un disorientato Schumacher già reo, sulla prima rete, di essere uscito a farfalle, cogendo mariposas. Si precipita in campo a esultare Carlos Bilardo, allenatore dell'Argentina, detto el narigon per via del naso che lo rende un Pippo Franco meno scanzonato; corre tenendosi con la mano la giacchetta per timore che voli via finché l'arbitro lo riaccompagna oltre la linea laterale. Mi risveglia l'urlo per il terzo goal dell'Olanda, al novantesimo e passa; non è più il 1986 né il 1990 però due cose sono rimaste uguali: possiamo guardare un'altra Argentina-Germania e, quando finisce, guardare la luna; è gratis.

giovedì 10 luglio 2014

Maracanazo
da Pavia, Olanda-Argentina

"Le donne", inizia a dire qualcuno mentre termina la semifinale, ma lì per lì non ascolto come va avanti e mi metto a pensare che avevo avuto questa brillante idea di proporre a Savio di scambiarci l'ordine delle ultime partite del Mondiale così da invertire la parte di tabellone della quale abitualmente parliamo, fermo restando che a lui toccherà comunque commentare la finale così come aveva commentato la partita inaugurale, in segno di rispetto visto che è più grande di me, è un padre di famiglia e ha pure la barba più lunga. E poi, mi ero detto fra me e me, così gli sbologno la partita noiosa, fra squadre che hanno sempre vinto col gollettino di scarto se non stentando a supplementari e rigori, e mi dedico a quella che sembra promettere più spettacolo, il derby del tiro a segno, la rivincita che gli olandesi attendono dal lontano '78 quando io non ero ancora nato ma Savio sì. I più attenti di voi avranno invece notato che la Germania ha vinto 7-1 e Savio ha commentato il Maracanazo assoluto e definitivo, la partita che resterà nella storia del Brasile e dell'universo quando suo figlio avrà un figlio a cui spiegare cos'è il Mondiale mentre io sarò ancora lì a limare la monografia su Voltaire che devo consegnare entro metà luglio, sive settimana prossima. "Le donne", dice quello, "sono come le insegne delle farmacie, che prima s'illuminano solo al centro, poi solo sul contorno, quindi metà sopra e metà sotto, infine tutte intere, lampeggiano due o tre volte, poi si spengono fino al buio completo e ricominciano quando già non ricordi più le tappe del ciclo precedente quindi non puoi determinare se seguano un ordine prestabilito o casuale, e tutto questo al solo scopo di dire: Guarda, sono una donna; esattamente come l'insegna della farmacia fa tutto quel casino al solo scopo di dire: Guarda, c'è una farmacia". Il mio machiavellismo mi si ritorce contro e mi ritrovo dunque a commentare Olanda e Argentina che per due ore piene si lasciano trasportare dall'equilibrio del terrore mentre noialtri restiamo inermi a fissare lo schermo facendo casual banter, chiacchiere vacanti, in attesa che accada qualcosa; e tale è la disperazione che quando verso il settantacinquesimo qualcuno finalmente tira in porta, benché svogliatamente e per onor di firma, noi esultiamo indipendentemente dalla nazionale perché quanto meno qualcuno ha tirato, riuscendo addirittura a svegliarmi di soprassalto. "Uomini e donne", continua quello, "giocano tutta una partita a scacchi, solo che le donne hanno i pezzi della dama e uno o si adegua o rimane disorientato". Olanda e Argentina potrebbero altrettanto non avere i pezzi e giocarsela passando di tanto in tanto una mano sulla scacchiera vuota, oppure potrebbero impostare la partita senza nemmeno portare il pallone, fronteggiarsi a oltranza morendo di tattica in attesa che arrivi lo sfinimento, o l'ordalia, o l'apocalisse. Sembrano due che si sono conosciuti e che magari si trovano anche interessanti ma poi eccedono in prudenti leziosismi e mostrano l'un l'altro quanto sono bravi, impeccabili, e fanno il passaggino indietro e fanno la triangolazione elegante e fanno la difesa in linea e fanno la diagonale equilibrata e fanno tutto quello che è prescritto di fare nel Manuale del calcio di Agostino Di Bartolomei salvo ricordarsi che a un certo punto lo scopo del gioco è che uno attacchi e segni, altrimenti tanto vale. Arrivano i calci di rigore, anziché l'apocatastasi, l'Argentina vince e quello conclude: "Con le donne invece si va avanti fino al golden goal".

martedì 8 luglio 2014

La verità, tutta la verità, nient'altro che la verità: ma che cos'è la verità? Ce lo spiegano, purtroppo, i trenta narratori italiani che hanno esordito dal 1999 al 2014 e che sono stati raccolti nell'antologia La terra della prosa curata da Andrea Cortellessa (L'Orma editore). Ne parlo sul Foglio in edicola oggi mostrando che ci sono due eccezioni: una è Roberto Saviano, evidentemente fuori concorso; l'altra è una sorpresa.

lunedì 7 luglio 2014

Se andate sul sito di Tempi, o se addirittura comprate il settimanale in edicola, trovate scritto quanto segue:

Una domenica mattina un anglicano abitudinario e un cattolico curioso si ritrovarono seduti di fianco durante una funzione nella cappella di una scuola di teologia allineata con le posizioni più conservatrici della Chiesa d’Inghilterra e non troppo distante dal centro di Oxford. Stavano sperimentando entrambi simultaneamente quel filo di noia e sonnolenza durante le prediche che lega le loro religioni così differenti quando entrambi furono scossi da un brivido sentendo il celebrante dichiarare con estrema chiarezza che, di tutti coloro che vivevano in Gran Bretagna, il novantacinque per cento sarebbe finito all’inferno. Per quanto l’Inghilterra vada considerata la patria della ragione, avendo dato i natali a John Locke, neanche lì si usa mettersi a questionare alzando la mano durante il sermone per chiedere al celebrante di ripetere o di spiegarsi meglio e nemmeno per esprimere una protesta più o meno composta. Il cattolico e l’anglicano dovettero dunque attendere l’uscita per iniziare a discutere fra loro sul senso da darsi alla sortita del reverendo, perché sono sempre le parole più inequivocabili a causare le diatribe più lunghe.

“Io mi reputo un liberale – esordì l’anglicano – e ritengo inaccettabile che si spiattelli così apertamente che sia sbagliato ciò che un’amplissima maggioranza di persone sta facendo. Questo per tre motivi: sia perché è da veri maleducati, sia perché se tutti si comportano allo stesso modo allora è compito di un’istituzione adeguarsi agli individui e non viceversa, sia perché il principio sul quale la nostra civiltà inglese si regge da secoli è quello del never explain, never complain: ossia che per non sentirsi in dovere di spiegare ciò che si sta facendo non ci si deve sentire in diritto di lamentarsi di ciò che fanno gli altri”. “Mi permetto di dissentire – rispose il cattolico – in quanto mi documento. Il pronostico del celebrante di oggi in realtà non è farina del suo sacco quindi non può essere ascritto alla sua maleducazione individuale o a un estemporaneo tralignamento dalla linea della Chiesa d’Inghilterra. Le stesse identiche parole erano state pronunciate nell’ottobre 2006 dal molto reverendo dottor Richard Turnbull, rettore della Wycliffe Hall di Oxford, più anglicano della Regina, leggendo in una occasione formale un discorso scritto e pertanto, si presume, meditato su dati di fatto concreti e sillogismi cogenti”.

“Non ritieni tuttavia – disse l’anglicano – che per quanto autorevole un teologo non abbia diritto di condannare quasi tutti gli inglesi all’inferno?” “Mica li condanna lui – rispose il cattolico – sono loro che a suo dire si condannano da soli. Mi sembra inoltre che sia infingardo suggerire l’idea che, se qualcuno fa del male, la colpa è di chi glielo fa notare. Infine ho accidentalmente in tasca il testo del discorso del reverendo Turnbull: lo leggiamo per capire cos’ha detto di preciso?” “Leggiamo” – disse l’anglicano rassegnato.

Il molto reverendo dottor Richard Turnbull, intervenendo al raduno annuale del gruppo anglicano conservatore nominato Reform, aveva dichiarato non mancando di destare un certo scandalo: “Il nostro impegno consiste nel recare la lieta novella del messaggio di Gesù Cristo a coloro che non lo conoscono, e costoro sono il novantacinque per cento delle persone: novantacinque persone su cento che rischiano di finire all’inferno se non portiamo loro il messaggio del Vangelo”.

“Vedi dunque”, continuò il cattolico riponendo le fotocopie, “che rispetto ai titoli dei giornali che sbraitano di un reverendo pazzo che vuole mandare gli inglesi all’inferno bisogna fare qualche distinguo. Anzitutto lui mira a evitarne la dannazione, non è che goda a immaginarli avvolti dalle fiamme eterne. Soprattutto però assume su di sé la responsabilità e dice che il proprio dovere, nonché quello dei suoi colleghi, è portare il Vangelo a coloro che stanno per essere dannati: lascia intendere che, se rinuncerà a evangelizzare l’Inghilterra, anche lui verrà posto di fronte alla propria colpa”. “Vedi però”, irruppe l’anglicano, “che stimare un novantacinque per cento di britannici pronto per la dannazione è eccessivo. Lo dimostrano i numeri: ho accidentalmente in tasca i risultati del censimento del 2011: li controlliamo per capire se il reverendo Turnbull ha esagerato?” “Controlliamo” – disse il cattolico rassegnato.

Nel 2011 il 26% dei britannici s’è dichiarato ateo, il 7 di religione indefinita, l’8 di religione varia (islamici, induisti, sikh, ebrei, buddisti e adepti della religione Yedi). Il restante 59% si è dichiarato cristiano. Secondo le statistiche, il rev. Turnbull condanna dunque all’inferno tutti gli atei, gli indifferenti, i non cristiani e grossomodo nove cristiani su dieci.

“Ne consegue che condanna – concluse l’anglicano – ortodossi, pentecostali, battisti, metodisti, presbiteriani, i cattolici come te e anche una buona parte degli anglicani, me compreso probabilmente. Dunque ha sbagliato i suoi calcoli.” “Perché mai? – rispose il cattolico – Questo è il solito vizio di voi protestanti, se mi permetti, che tracciate una riga e decidete che chi sta da un lato sia sempre nel giusto e chi sta dall’altro sia sempre nel torto. Ti pare scandaloso che il reverendo Turnbull abbia lasciato intendere che anche i membri della Chiesa d’Inghilterra possano essere dannati; mi pare invece sorprendente che abbia lasciato intendere altre cose ben più gravi e meno evidenti a un occhio superficiale”.

Sintetizzando, il cattolico spiegò che prima ancora che con le diverse affiliazioni religiose il reverendo Turnbull ce l’aveva con una disposizione d’animo. Quando si parte per evangelizzare una nazione lontana non si va lì con l’intenzione di insegnare tutti i dettagli della dottrina ma di far capire che la vita ha un piano verticale oltre a quello orizzontale, e che oltre a una direzione ha un senso. Il caso voleva che l’Inghilterra fosse una nazione molto vicina a Wycliffe Hall; ma non per questo era meno da evangelizzare, in quanto non sono i chilometri da percorrere a fabbricare le periferie. Prendiamo Oxford i particolare: si sente e forse è il centro assoluto dell’istruzione e della cultura mondiale, tanto da averlo scritto con estrema modestia perfino sul cartello di benvenuto alla stazione. Per coltivare la propria centralità si è concentrata sul proprio ombelico al punto da diventare un mondo a sé stante, chiuso e impermeabile, tutto ripiegato nell’autoreferenzialità e per questo staccato dal senso: perché il senso delle cose arriva dall’interconnessione, dalla consapevolezza della relatività, non dall’assolutismo della presunzione. Per mancanza di una dimensione verticale ha voluto eccedere nell’appiattirsi sull’orizzontalità, credendo che una ben precisa direzione bastasse a dare un senso.

Ha mantenuto sul proprio stemma il motto cristiano Dominus illuminatio mea ma l’ha trasformato in un marchio commerciale. Ha imposto la neutralizzazione del calendario cristiano, trasformando gli auguri di Natale in un vago merry festivities, in modo tale da non offendere musulmani soprattutto e non cristiani in generale: sono pur sempre clienti, che pagano per andare a studiare lì e anzi pagano più degli altri. Si è venduta al principio che tutto debba essere indifferentemente in vendita e che tutto possa essere a disposizione di chi può permetterselo. Se da St Giles’ uno sale verso nord, nel cuore vittoriano della città uno trova una teoria di chiese le più disparate: quella dei domenicani, la casa di pietà anglo-cattolica intitolata a Edward Pusey, il centro d’incontro della Società Religiosa degli Amici che ha fatto incidere fra parentesi sulla targhetta d’ingresso la scritta “quaccheri”, il futuribile portone trasparente della Prima Chiesa di Cristo Scienziato e la parrocchia di St Aloysius dove ancora si segue il messale latino di Pio V; tutte frammiste a una caffetteria pseudofrancese, un giornalaio pakistano, un ceramista con vasca da bagno in vetrina e un ristorante dove un tè costa cinque sterline.

La perifericità di Oxford sta nel ritenere di non avere bisogno di null’altro e che basti trasformare una strada in un distributore automatico di chiese per mettersi la coscienza a posto in materia di religione. Come la vasca da bagno nella vetrina del ceramista, come il tè nel ristorante costoso, Dio è in vendita nelle sue molteplici accezioni, ciascuna col pacchetto preordinato per venire incontro alle esigenze di ciascun cliente; così tutti sono tranquilli perché convinti che se in Inghilterra ci fosse una sola religione sarebbe tirannica, se ce ne fossero due si scannerebbero a vicenda, mentre essendocene una trentina allora vivono in pace e felici. E come chi ordina il tè lo consuma e non ci pensa più, come una volta compratala non si passano le giornate a riflettere sulla vasca da bagno, così Dio sminuzzato e reso disponibile alla bisogna diventa merce e resta imprigionato in un mondo in cui formalmente non si può denunciarne l’assenza: perché c’è, si vede, ci sono le sue chiese, ci sono tre inglesi su quattro che si dichiarano fedeli di una qualche religione e perché gli atei, grazie ai barbini metodi di propaganda di un Richard Dawkins, non guadagnano tutto il terreno che la situazione di smottamento spirituale consentirebbe loro.

Però in questo contesto completamente orizzontale, su cento persone quante avranno conservato un senso vivo di Dio? Non cinquanta, non venti, forse nemmeno dieci; magari saranno cinque, e allora non ha proprio tutti i torti il molto reverendo dottor Richard Turnbull quando ammonisce che alle altre novantacinque bisogna tornare a predicare il Vangelo affinché non dimentichino di star precipitando all’inferno.

Alla fine del sermoncino l’anglicano diede ragione al cattolico: non era affatto persuaso però era ben educato. Congedandosi volle chiedergli un’ultima cosa: “Pensi dunque che sia il caso di andare a Wycliffe Hall per parlarne con lo stesso rev. Turnbull?” “Oh – rispose il cattolico – lo hanno silurato nel 2012. Adesso farà un altro mestiere”.

sabato 5 luglio 2014

Maracanazo
da Pavia, Brasile-Colombia

Io non sono esattamente sicuro di cos'ho visto e, quel che è peggio, non so se darne la colpa agli sbalzi di temperatura, alle tempeste elettromagnetiche, alle troppe partite viste una dietro l'altra o agli orari che inevitabilmente si sbalestrano con l'avanzare dell'estate. Fatto sta che ieri sera mi sono sistemato in poltrona per guardare Brasile-Colombia assieme ad alcuni amici ma, forse per un errore nel palinsesto di Sky, la partita di calcio non è stata trasmessa: ho invece visto la capriola, il salto mortale, il tuffo carpiato, la ginocchiata sulla schiena e il moto di rotazione dell'essere umano attorno al proprio asse alla disperata ricerca di un pallone di cuoio che accidentalmente si trovava a intersecare la propria traiettoria con i piedi di una ventina di passanti, alcuni dei quali pettinati in modo buffo. Ho molto apprezzato l'interpretazione di Neymar, pronto oramai per una luminosa carriera cinematografica, il quale venendo toccato da un avversario anche solo con la forza del pensiero casca subitaneamente sull'erba colto da convulsioni. Miglior attore non protagonista è però Gene Hackman, a Fortaleza sotto le mentite spoglie di Felipao Scolari, alla maestria del quale viene resa giustizia dalla slow motion che lo coglie mentre si passa una mano sulla faccia per celare l'espressione di sconforto quando Thiago Silva riesce a farsi ammonire e dunque squalificare per la successiva semifinale: accade infatti che su un rinvio del portiere colombiano Ospina il difensore brasiliano provi l'insopprimibile desiderio di sostituirsi al pallone spingendo di fianco l'avversario e piazzandoglisi davanti nel momento in cui è impegnato nel rilancio, ricavandone così oltre al cartellino giallo anche un calcio nel deretano. Cornuto e mazziato, anzi, mazziato e ammonito. "Mi hanno affidato", pensa Scolari, "una squadra di cretini", ed è in buona compagnia perché sulla panchina di fianco siede anzi si macera in piedi José Pekerman, sedicente discendente di Gregory Peck, sessantacinque anni di vita dignitosa sfociati quest'estate nella guida di una squadra anarchica in cui ognuno fa un po' ciò che gli pare e che lui può solo limitarsi a guardare atterrito da bordo campo. All'ultimo minuto, sotto di un goal, Ospina gli chiede il permesso di precipitarsi nell'area avversaria per sfruttare con una testa in più un calcio piazzato; Pekerman non glielo accorda e Ospina si precipita lo stesso. Le telecamere non inquadrano le panchine in quell'istante ma ritengo plausibile che Scolari gli si sia avvicinato in un moto di solidarietà e gli abbia chiesto: "Cosa dovrei dire io, che al quarantesimo del primo tempo avevo già il difensore centrale che faceva le sgroppate sulla fascia a cazzo di cane?". Mentre ci interrogavamo sul perché Sky, pur avendo pagato fior di quattrini per i diritti di trasmissione integrale dei Mondiali di calcio, avesse deciso all'ultimo di mandare in onda una videocassetta del Cirque du Soleil, abbiamo notato lievi discrepanze rispetto a Francia-Germania che è stata la prosecuzione di Sedan con altri mezzi e ci siamo domandati cosa mai avesse deciso di trasmettere nel frattempo la Rai; forse una puntata di Ballando con le Stelle.

venerdì 4 luglio 2014

Papa Francesco ha coniato l'espressione "periferie esistenziali" parlando, durante la Pentecoste 2013, di crisi dell'uomo, ovvero di crisi dell'immagine di Dio; ha detto che "la Chiesa deve uscire da sé stessa, verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano". Luigi Amicone ha avuto l'idea di far intraprendere un viaggio settimanale fra le periferie esistenziali, alcune prevedibili, altre insospettabili, man mano che ci si avvicina al meeting di Cl. Adesso tocca a me. Su Tempi in edicola questa settimana, per il ciclo sulle periferie esistenziali, spiego urbi et orbi come evangelizzare Oxford.

mercoledì 2 luglio 2014

Ecco, un romanzo che parla di stalinismo e Democrazia Cristiana, sotto le mentite spoglie del Milan di Sacchi e del Napoli di Maradona, non poteva che essere recensito su Europa, il quotidiano rosé del PD. Potete leggere l'articolo di Luca G. Castellin su Ho visto Maradona cliccando qui.

martedì 1 luglio 2014

Maracanazo
da Pavia, Germania-Algeria

"Il sole batteva senza possibilità di alternative sul niente di nuovo": questo è Samuel Beckett citato sul Corriere di oggi da Raffaele La Capria che s'industria in un elzeviro travolgente, due colonne sulla routine, sulla noia, sul niente di nuovo appunto. Forse perché adesso mi arriva la tal telefonata, mi arriva il tal invito, mi saluta la tal persona di riguardo e intuisco che oramai sul ristretto bacino di Pavia ho scavallato un crinale e, volendo attenerci alla scansione proposta da Arbasino, sono passato dal rango di brillante promessa a quello di solito stronzo; forse perché il Mondiale con gli ottavi è arrivato alla fase in cui non brilla più della promessa iniziale e non ancora del fulgore decisivo della conclusione ma si barcamena in una via di mezzo che è sospesa fra la curiosità degli esordi e i brividi della fine; fatto sta che il sole batteva senza possibilità di alternative su Francia-Nigeria ma io ero fuori per delle commissioni e fuori restavo fino a fine partita, con la sensazione di non essermi perso questo gran che. Poi a tarda sera, guardando Germania-Algeria in mutande, mi veniva notificato che attenzione, negli unici due precedenti i tedeschi avevano sempre perso coi magrebini, chi l'avrebbe mai detto, una volta in amichevole nel lontano 1964 e una volta nel famoso rovescio ai Mondiali dell'82 poi neutralizzato dall'ancora più famosa pastetta con l'Austria per far passare le nazioni mitteleuropee a danno degli africani di Rabah Madjer, il tacco di Allah. Il lontano 1964: La Capria aveva quarantadue anni, aveva pubblicato da relativamente poco Ferito a morte e chissà se si annoiava già allora, anzi sicuramente perché se non si fosse annoiato non avrebbe scritto. Ecco, mentre tutti si entusiasmano perché l'Algeria attacca attacca e solo a stento la Germania resiste, mentre tutti si aspettano la novità incombente di un'africana che elimina la superpotenza economica e pedatoria, io mi annoio a priori mentre vedo il pareggio scivolare verso il novantesimo. Mi ricordo di quella volta a Mantova, in un bar in piazza, in cui io e gli altri avventori avevamo visto arrivare La Capria con la nobiltà dei suoi novant'anni e ci eravamo fermati tutti un attimo zitti a guardarlo, scrittori ed editori, correttori di bozze e uffici stampa, brillanti promesse e soliti stronzi. La partita si allunga, tutti la trovano entusiasmante ma io sbuffo, l'idea che ci siano anche i supplementari mi ricorda la battuta di Woody Allen: "Che schifo il mangiare in quest'ospizio, e che porzioni piccole". A Porto Alegre tuttavia non danno ascolto alle mie rimostranze - sarà perché in mutande sono meno autorevole - e decidono di continuare a giocare lo stesso anche se ne ho le palle piene. Tempo pochi minuti e i goal della Germania si abbattono, senza possibilità di alternative, sul niente di nuovo.