Una domenica mattina un anglicano abitudinario e un
cattolico curioso si ritrovarono seduti di fianco durante una funzione nella
cappella di una scuola di teologia allineata con le posizioni più conservatrici
della Chiesa d’Inghilterra e non troppo distante dal centro di Oxford. Stavano
sperimentando entrambi simultaneamente quel filo di noia e sonnolenza durante
le prediche che lega le loro religioni così differenti quando entrambi furono
scossi da un brivido sentendo il celebrante dichiarare con estrema chiarezza
che, di tutti coloro che vivevano in Gran Bretagna, il novantacinque per cento
sarebbe finito all’inferno. Per quanto l’Inghilterra vada considerata la patria
della ragione, avendo dato i natali a John Locke, neanche lì si usa mettersi a
questionare alzando la mano durante il sermone per chiedere al celebrante di
ripetere o di spiegarsi meglio e nemmeno per esprimere una protesta più o meno
composta. Il cattolico e l’anglicano dovettero dunque attendere l’uscita per
iniziare a discutere fra loro sul senso da darsi alla sortita del reverendo,
perché sono sempre le parole più inequivocabili a causare le diatribe più
lunghe.
“Io mi reputo un liberale – esordì l’anglicano – e ritengo
inaccettabile che si spiattelli così apertamente che sia sbagliato ciò che
un’amplissima maggioranza di persone sta facendo. Questo per tre motivi: sia
perché è da veri maleducati, sia perché se tutti si comportano allo stesso modo
allora è compito di un’istituzione adeguarsi agli individui e non viceversa,
sia perché il principio sul quale la nostra civiltà inglese si regge da secoli
è quello del never explain, never
complain: ossia che per non sentirsi in dovere di spiegare ciò che si sta
facendo non ci si deve sentire in diritto di lamentarsi di ciò che fanno gli altri”.
“Mi permetto di dissentire – rispose il cattolico – in quanto mi documento. Il
pronostico del celebrante di oggi in realtà non è farina del suo sacco quindi
non può essere ascritto alla sua maleducazione individuale o a un estemporaneo
tralignamento dalla linea della Chiesa d’Inghilterra. Le stesse identiche
parole erano state pronunciate nell’ottobre 2006 dal molto reverendo dottor
Richard Turnbull, rettore della Wycliffe Hall di Oxford, più anglicano della
Regina, leggendo in una occasione formale un discorso scritto e pertanto, si
presume, meditato su dati di fatto concreti e sillogismi cogenti”.
“Non ritieni tuttavia – disse l’anglicano – che per quanto
autorevole un teologo non abbia diritto di condannare quasi tutti gli inglesi
all’inferno?” “Mica li condanna lui – rispose il cattolico – sono loro che a
suo dire si condannano da soli. Mi sembra inoltre che sia infingardo suggerire
l’idea che, se qualcuno fa del male, la colpa è di chi glielo fa notare. Infine
ho accidentalmente in tasca il testo del discorso del reverendo Turnbull: lo
leggiamo per capire cos’ha detto di preciso?” “Leggiamo” – disse l’anglicano
rassegnato.
Il molto reverendo dottor Richard Turnbull, intervenendo al
raduno annuale del gruppo anglicano conservatore nominato Reform, aveva
dichiarato non mancando di destare un certo scandalo: “Il nostro impegno
consiste nel recare la lieta novella del messaggio di Gesù Cristo a coloro che
non lo conoscono, e costoro sono il novantacinque per cento delle persone:
novantacinque persone su cento che rischiano di finire all’inferno se non
portiamo loro il messaggio del Vangelo”.
“Vedi dunque”, continuò il cattolico riponendo le fotocopie,
“che rispetto ai titoli dei giornali che sbraitano di un reverendo pazzo che
vuole mandare gli inglesi all’inferno bisogna fare qualche distinguo. Anzitutto
lui mira a evitarne la dannazione, non è che goda a immaginarli avvolti dalle
fiamme eterne. Soprattutto però assume su di sé la responsabilità e dice che il
proprio dovere, nonché quello dei suoi colleghi, è portare il Vangelo a coloro
che stanno per essere dannati: lascia intendere che, se rinuncerà a
evangelizzare l’Inghilterra, anche lui verrà posto di fronte alla propria
colpa”. “Vedi però”, irruppe l’anglicano, “che stimare un novantacinque per cento
di britannici pronto per la dannazione è eccessivo. Lo dimostrano i numeri: ho
accidentalmente in tasca i risultati del censimento del 2011: li controlliamo
per capire se il reverendo Turnbull ha esagerato?” “Controlliamo” – disse il
cattolico rassegnato.
Nel 2011 il 26% dei britannici s’è dichiarato ateo, il 7 di
religione indefinita, l’8 di religione varia (islamici, induisti, sikh, ebrei,
buddisti e adepti della religione Yedi). Il restante 59% si è dichiarato
cristiano. Secondo le statistiche, il rev. Turnbull condanna dunque all’inferno
tutti gli atei, gli indifferenti, i non cristiani e grossomodo nove cristiani
su dieci.
“Ne consegue che condanna – concluse l’anglicano –
ortodossi, pentecostali, battisti, metodisti, presbiteriani, i cattolici come
te e anche una buona parte degli anglicani, me compreso probabilmente. Dunque
ha sbagliato i suoi calcoli.” “Perché mai? – rispose il cattolico – Questo è il
solito vizio di voi protestanti, se mi permetti, che tracciate una riga e decidete
che chi sta da un lato sia sempre nel giusto e chi sta dall’altro sia sempre
nel torto. Ti pare scandaloso che il reverendo Turnbull abbia lasciato
intendere che anche i membri della Chiesa d’Inghilterra possano essere dannati;
mi pare invece sorprendente che abbia lasciato intendere altre cose ben più
gravi e meno evidenti a un occhio superficiale”.
Sintetizzando, il cattolico spiegò che prima ancora che con
le diverse affiliazioni religiose il reverendo Turnbull ce l’aveva con una
disposizione d’animo. Quando si parte per evangelizzare una nazione lontana non
si va lì con l’intenzione di insegnare tutti i dettagli della dottrina ma di
far capire che la vita ha un piano verticale oltre a quello orizzontale, e che
oltre a una direzione ha un senso. Il caso voleva che l’Inghilterra fosse una
nazione molto vicina a Wycliffe Hall; ma non per questo era meno da
evangelizzare, in quanto non sono i chilometri da percorrere a fabbricare le
periferie. Prendiamo Oxford i particolare: si sente e forse è il centro
assoluto dell’istruzione e della cultura mondiale, tanto da averlo scritto con
estrema modestia perfino sul cartello di benvenuto alla stazione. Per coltivare
la propria centralità si è concentrata sul proprio ombelico al punto da
diventare un mondo a sé stante, chiuso e impermeabile, tutto ripiegato
nell’autoreferenzialità e per questo staccato dal senso: perché il senso delle
cose arriva dall’interconnessione, dalla consapevolezza della relatività, non
dall’assolutismo della presunzione. Per mancanza di una dimensione verticale ha
voluto eccedere nell’appiattirsi sull’orizzontalità, credendo che una ben
precisa direzione bastasse a dare un senso.
Ha mantenuto sul proprio stemma il motto cristiano Dominus illuminatio mea ma l’ha
trasformato in un marchio commerciale. Ha imposto la neutralizzazione del
calendario cristiano, trasformando gli auguri di Natale in un vago merry festivities, in modo tale da non
offendere musulmani soprattutto e non cristiani in generale: sono pur sempre
clienti, che pagano per andare a studiare lì e anzi pagano più degli altri. Si
è venduta al principio che tutto debba essere indifferentemente in vendita e
che tutto possa essere a disposizione di chi può permetterselo. Se da St Giles’
uno sale verso nord, nel cuore vittoriano della città uno trova una teoria di
chiese le più disparate: quella dei domenicani, la casa di pietà
anglo-cattolica intitolata a Edward Pusey, il centro d’incontro della Società
Religiosa degli Amici che ha fatto incidere fra parentesi sulla targhetta
d’ingresso la scritta “quaccheri”, il futuribile portone trasparente della
Prima Chiesa di Cristo Scienziato e la parrocchia di St Aloysius dove ancora si
segue il messale latino di Pio V; tutte frammiste a una caffetteria pseudofrancese,
un giornalaio pakistano, un ceramista con vasca da bagno in vetrina e un
ristorante dove un tè costa cinque sterline.
La perifericità di Oxford sta nel ritenere di non avere
bisogno di null’altro e che basti trasformare una strada in un distributore
automatico di chiese per mettersi la coscienza a posto in materia di religione.
Come la vasca da bagno nella vetrina del ceramista, come il tè nel ristorante
costoso, Dio è in vendita nelle sue molteplici accezioni, ciascuna col
pacchetto preordinato per venire incontro alle esigenze di ciascun cliente;
così tutti sono tranquilli perché convinti che se in Inghilterra ci fosse una
sola religione sarebbe tirannica, se ce ne fossero due si scannerebbero a
vicenda, mentre essendocene una trentina allora vivono in pace e felici. E come
chi ordina il tè lo consuma e non ci pensa più, come una volta compratala non
si passano le giornate a riflettere sulla vasca da bagno, così Dio sminuzzato e
reso disponibile alla bisogna diventa merce e resta imprigionato in un mondo in
cui formalmente non si può denunciarne l’assenza: perché c’è, si vede, ci sono
le sue chiese, ci sono tre inglesi su quattro che si dichiarano fedeli di una
qualche religione e perché gli atei, grazie ai barbini metodi di propaganda di
un Richard Dawkins, non guadagnano tutto il terreno che la situazione di
smottamento spirituale consentirebbe loro.
Però in questo contesto completamente orizzontale, su cento
persone quante avranno conservato un senso vivo di Dio? Non cinquanta, non
venti, forse nemmeno dieci; magari saranno cinque, e allora non ha proprio
tutti i torti il molto reverendo dottor Richard Turnbull quando ammonisce che alle
altre novantacinque bisogna tornare a predicare il Vangelo affinché non
dimentichino di star precipitando all’inferno.
Alla fine del sermoncino l’anglicano diede ragione al
cattolico: non era affatto persuaso però era ben educato. Congedandosi volle
chiedergli un’ultima cosa: “Pensi dunque che sia il caso di andare a Wycliffe
Hall per parlarne con lo stesso rev. Turnbull?” “Oh – rispose il cattolico – lo
hanno silurato nel 2012. Adesso farà un altro mestiere”.