martedì 27 novembre 2007

L'esegeta sempre, costantemente incazzato

Buongiorno Giobbe, amico mio.
(Voltaire)

Evviva Gioele Dix! Perché mi ha salvato dall’ennesimo sabato sera trascorso a guardare impotente l’Inter che sconfigge avversari inadeguati come l’Atalanta (che palle, e poi dicono che alla fine il bene vince sempre…). Il bello dell’abbonamento a Sky, infatti, è che uno lo fa pensando di ammazzarsi di partite di calcio, poi va a finire che si annoia e cambia canale in continuazione; così gli capita di scoprire che su Canal Jimmy, invece della consueta marea di scemenze, sta andando in onda un’estrema difesa del patto fra uomo e Dio. E pure divertente.


La Bibbia ha (quasi) sempre ragione è il one man show con cui Gioele Dix (che quand’ero bambino faceva fortuna col personaggio dell’automobilista sempre, costantemente incazzato; e che qualche venerdì fa mi è capitato di sbirciare in Zelig nel personaggio dell’automobilista nuovamente, costantemente incazzato) si libera della maschera che il tempo e il pubblico gli hanno cucito addosso (l’imitazione di Alberto Tomba o di Fabrizio Ravanelli ai tempi di Mai Dire Gol) e dà briglia sciolta alla propria capacità di comico intelligente, colto, profondo, nella miglior tradizione (soprattutto ebraica) degli stand-up comedians.

“In principio”, inizia citando Genesi 1,1 – e lo fa pronunziandolo come un’unica parola, così come l’ebraico Bereshith, a sé stante e avulsa dal resto del testo biblico, la parola che segna l’inizio del tempo ed è quindi parola creatrice, unica, irripetibile – “In principio”, inizia Gioele Dix e il pubblico si aspetta, se non lo conosce, la solita parodia ritrita della Bibbia, della fede, della religione; una spruzzata di anticlericalismo, magari. Ma subito Gioele Dix spiazza, e inizia il commento alla Creazione spiegando che Dio gli è simpatico perché un po’ gli somiglia (ed è una cosa seria, poiché c’è scritto lì: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”). Se non che il pubblico non se ne accorge, parte l’applauso facile, si ride sguaiatamente, non si suppone nemmeno che in questa somiglianza originaria risieda il senso di due ore di spettacolo. E invece.

La parte su Giacobbe, ad esempio, è teatro immortale. Lo è dal versante comico, con Giacobbe che vede Rachele, se ne innamora e subito rimuove un gigantesco masso dalla bocca di un pozzo, “così, per fare il brillante con la cuginetta gnocca”. Dal versante umano, con Giacobbe costretto a scappare da Labano, con impermeabile e valige, che dorme scomodo come un attore in tournée con la pizza sullo stomaco, con un sasso come cuscino, ma in tutto ciò che cosa sogna? Una scala dalla quale salgono e scendono gli angeli, e lassù in cima il Signore in persona, luminoso, consolatore, fermo immobile e a portata di mano. Dal versante satirico, infine, quando lo show che il pubblico s’immagina rivolto contro la Bibbia all’improvviso si rivolta e si ritorce contro il pubblico stesso, portandolo a scegliere fra Giacobbe che attende sette anni più altri sette per avere in sposa Rachele e i giorni in cui dopo due ore del primo appuntamento, si chiede preoccupati a una ragazza: “Ti ho offerto la cena, perché non me la dai?”.

La dirompenza di Gioele Dix risiede nell’assoluta mancanza di moralismo e ipocrisia; presenta una Bibbia per uomini che vivono, mangiano, scopano, soffrono e inevitabilmente prima o poi contravvengono ai comandamenti. Il paradosso, nel quale risiede la grandezza della rivelazione giudaico-cristiana, è che non per questo la Bibbia è distante dagli uomini che più o meno volutamente si allontanano dai suoi precetti. Anzi. L’ultimo episodio, la lettura dal Qoelet, fa accapponare la pelle, travolge ogni confine prestabilito fra comicità, sacra rappresentazione, satira ed esegesi.

“Parola di Salomone, figlio di David, re di Gerusalemme”, ricomincia – e il pubblico tace assorto, non sa più se sia il caso di ridere come preventivava a inizio spettacolo. “Vanità delle vanità”, ripete, “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Racconta la storia del re potente, longevo, sapiente, pacifico, ricchissimo, mangione, amante del gentil sesso (settecento mogli e trecento amanti – frèchete!, direbbero a Pescara); che dopo quarant’anni di gloria e bagordi si chiede “quale utilità ricavi l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole”. E racconta, al contempo, il peso vuoto che ogni uomo si porta dentro, sia re o attore comico, la forza gravitazionale diretta verso il cielo che rende insufficiente il benché piacevole accumulo di beni materiali; perché insomma – e qui si chiude il cerchio con la Creazione – tutti quanti somigliamo a Dio, anche gli atei.

Grandioso, Gioele Dix prosegue e rincara. Si scopre incontestabilmente che la risata, la satira, l’incazzatura dell’esegeta non sono rivolte contro la Bibbia, ma contro chi se l’è dimenticata. Alla fine, sopraffatto da tanta incontestabile verità, il pubblico esita per un poco, lì per lì quasi non applaude: l’attimo di silenzio è la testimonianza che il pubblico è smarrito, che l’attore ha vinto la sua battaglia. Evviva Gioele Dix!

sabato 24 novembre 2007

Lo Stato dei Licei: 2, la classica professoressa

[Una delle etimologie più significative della storia è quella che risale al termine latino classis, che si riferisce alla rigida stratificazione sociale presso gli antichi Romani (non che presso i Romani moderni la stratificazione sia meno rigida, però si evita di parlarne) e che dovendo all’inizio indicare ogni singola (appunto) classe sociale ha finito per identificare tout court la prima, la più ricca e, cose che al tempo andavano a braccetto, la più colta e moralmente superiore. Donde l’aggettivo classico, che colorava tutto quanto si riferisse a questa prima classe (se mi si perdona la metafora ferroviaria), secondo due direttrici: una temporale, che rimandava nei secoli a un passato che si presumeva migliore e irrimediabilmente perduto (musica classica, un testo classico, un vestito classico, una ragazza classica); una spaziale, che sanciva la superiorità di questo o quello rispetto a un mondo che via via si adeguava volgarmente alle mode e alle esigenze dei tempi correnti. Ma classico, così come aggettivo sostantivato, ormai è rimasto a identificare soprattutto la scuola che guarda indietro (verso il tempo perduto) e che contemporaneamente guarda in basso (verso la bolgia di licei e istituti di rango inferiore, in cui si crede comunemente che la partenogenesi non abbia nulla a che vedere con la verginità delle parthenoi ma che sia detta così perché coinvolge solo parte dell’organismo – così ho sentito giurare una professoressa di scienze, dieci anni fa). E insomma, quale altra scuola poteva mai frequentare una come Silvia G?]

Gurrado, ogni scuola superiore ha le sue caratteristiche e le sue materie d’indirizzo: esistono i licei scientifici, che prediligono lo studio della matematica e delle scienze in generale, gli istituti tecnici, che invece focalizzano l’attenzione sulla prospettiva e sul disegno geometrico, i licei artistici, dove si studiano la pittura, le proporzioni e si impara a modellare la creta [nota di Gurrado: nella speranza di trovare un giorno lavoro come protagonista nel remake di Ghost]. Ogni materia acquista maggiore o minore importanza a seconda del tipo di scuola in cui è inserita, e così mutano le gerarchie fra i professori che la insegnano.

Il Liceo Voltaire essendo un classico, assoluta precedenza va data alla presentazione della docente di latino e greco, la professoressa Fiorello. Caratteristica principale di questa irrinunziabile insegnante è il suo radicato e viscerale amore per le materie che le competono: mai creatura umana viva provò probabilmente una così profonda adorazione per le lingue morte, mai ci si commosse tanto nello studiarle e nel tradurle [ndG: solo per ricordare le mie versioni di Greco, perigliosi viaggi che partivano senza una rotta e terminavano in un punto creativamente diverso da quello in cui Senofonte o Tucidide aveva intenzione di portarmi; o, più spesso, terminavano nel nulla, risucchiate da gorghi abissali che non mi avrebbero mai fatto rinunziare a una partita di calcio in tv per scoprire cosa fosse mai un ottativo], mai nessuno dedicò così larga parte del proprio tempo e delle proprie energie alla diffusione e alla salvaguardia della cultura classica ad esse legata.

Di origini calabresi, trasferitasi nell’estremo nord per studio e per lavoro, la professoressa Fiorello corre talvolta col pensiero alla patria lontana, ch’ella non chiama mai sud Italia, bensì Magna Grecia [ndG: come tutti i terroni, d’altronde]. La sua massima manifestazione d’affetto consiste nel tramandare al prossimo parte dell’eredità culturale acquisita con anni di sudati sacrifici, durante i quali la professoressa Fiorello si è consumata i polpastrelli componendo tesi, trattati, articoli e volumi intorno alle figure di Pericle, Tucidide, Cicerone e Seneca.
Come il Machiavelli, ogni sera questa donna straordinaria si immerge nel suo studio, coperta con una sontuosa vestaglia, cercando la compagnia e il conforto dei grandi classici
[ndG: Disney?]; e preferirebbe, in caso di incendio, bruciare in mezzo a tutte le sue carte, piuttosto che condurre una vita misera e infelice senza di esse, come ogni buon capitano di marina desidera colare a picco con la nave, qualora essa affondi. A suo parere, infatti, la specie umana avrebbe potuto tranquillamente estinguersi appena prima del medioevo, età sciagurata [ndG: che dura tuttora] in cui il latino perse la sua meravigliosa purezza e andò a mischiarsi con quelle barbare lingue germaniche e anglosassoni che tanto le disgusta sentir pronunciare oggidì. Se ammette, o per meglio dire tollera, l’idea che possano essere esistiti grandi letterati anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la professoressa Fiorello considera però degni della sua attenzione solo quegli autori che fanno uso di un volgare italiano il più possibile simile alla lingua latina [ndG: di’ la verità, Silvia G, fra questi pochi ci sei tu?]. Perciò i suoi studenti, che lei ama teneramente e che quindi tortura con impensabili pretese contenutistiche e puntigliosissime regole grammaticali, sono costretti a studiare le letterature latina e greca non su comuni libri di testo, bensì sopra enormi e antichissimi saggi, opera dei più grandi studiosi della materia. Ed è una fortuna che questi grandi studiosi, vissuti in un passato remoto, si siano ormai estinti da tempo, perché più di uno studente della professoressa Fiorello, in un delirio di disperazione, ha minacciato sanguinose vendette contro di loro, a causa del linguaggio pressoché incomprensibile che li caratterizza, e delle frasi prolisse e articolatissime che riempiono le pagine dei loro scritti.

Capita spesso di incontrare la professoressa Fiorello in giro per i corridoi [ndG: sempre in vestaglia?], intenta a trasferire da una classe all’altra svariate copie dei suoi amati “testi scolastici”, curva sotto il loro peso e oppressa dalla loro mole; non è raro che qualche giovanotto suo studente, un po’ per dare buona impressione, un po’ per autentica compassione, si offra di aiutare la povera donna (che va ormai per i cinquantatré [ndG: Silva G, Silvia G, prima di scrivere parentesi così cattive pensa che anche tu fra trentacinque anni avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti a spostare libri inutili]) nel trasporto di tutti quei volumi, ma ella non acconsente mai, perché ritiene che quello sforzo e quella sofferenza siano sacrifici indispensabili, e che l’estremo gesto non faccia che nobilitare ed elevare i suoi sentimenti d’amore sincero per la classicità. Ragion per cui la docente ha sviluppato con gli anni una notevole forma di cifosi.

La professoressa Fiorello, la quale afferma di non essere mai stata sposata, tuttavia possiede un figlio, un ottimo ragazzo sui venticinque anni, che però rappresenta il principale dei suoi tormenti, avendo egli scelto di specializzarsi, finito il liceo, in quella branchia dello scibile umano [ndG: presumibilmente “branca dello scibile” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto nuovamente per la lectio difficilior; tanto più che, trattandosi di sapere scientifico, è presumibile che Silvia G abbia voluto inserire un sagace ammicco al celebre “organo respiratorio, filamentoso o lamellare, ricco di vasi sanguigni di solito situato ai lati della testa di pesci e altri animali acquatici”, stando a quanto riporta nel suo dizionario Tullio De Mauro, noto comunista all’asciutto d’Italiano] che sono le scienze naturali, rinunciando alle lettere classiche. Capita spesso che la povera donna si lagni e si disperi coi suoi stessi alunni di questa terribile sciagura, affermando con la voce rotta dal pianto che mai si sarebbe aspettata una tale presa di posizione da parte del figliolo, avendolo ella introdotto sin dalla più tenera infanzia agli studi umanistici, alla poesia di Omero, all’epicureismo lucreziano, all’esametro, al giambo e al distico elegiaco, e avendogli insegnato prima il paradigma di fero che ad andare in bicicletta [ndG: non ho mai imparato nessuna delle due faccende, io]. Come il ragazzo possa aver maturato negli anni una repulsione per la classicità tale da spingerlo ad iscriversi a scienze naturali rimane, per la Fiorello, il più impenetrabile mistero.

Nel tentativo di sopire il grande dolore che il figlio le ha dato, la professoressa tenta in ogni modo di rifarsi su coloro che considera la sua seconda famiglia, gli studenti appunto, e di persuaderli a portare avanti la nobile causa delle lingue morte:
“Non disprezzate il passato, signori! Il latino, il greco sono genitori della vostra lingua madre, sono antenati dell’italiano, e noi dovremmo dimostrarci degni rappresentanti del connubio tra l’indubbia superiorità della civiltà romana
[ndG: rispetto, ad esempio, alla civiltà brianzola?] e la meravigliosa cultura dei greci antichi. Dare scorrette interpretazioni dei testi corrisponde ad una mancanza di rispetto nei confronti dei vostri stessi nonni! Ma cosa possono capire queste giovani generazioni? Cosa ne sapete del rispetto che noi tutti dobbiamo ai grandi classici? O tempora, o mores!”

Inutile dire che, almeno in Terzaddì, i semi del suo lavoro non hanno affatto attecchito, e la sezione rimane quella con le medie più basse della scuola sia in latino che in greco, con gran disperazione della povera professoressa Fiorello [ndG: Si noti come Silvia G ha il pregio, ormai rarissimo a trovarsi fra gli italiani d’età inferiore ai trentacinque, di chiamare i docenti per esteso, con tanto di suffisso femminile, e giammai prof, pro, pr, p] e, naturalmente, di tutti i [ndG: essendo suonata la campanella della ricreazione, il manoscritto si interrompe qui]

venerdì 23 novembre 2007

FF SS 2, ovvero: che viaggio a fare in regionale se poi mi costa più che andare in intercity?

La Lombardia è la regione più onesta d’Italia. Per andare da Pavia a Modena c’è un regionale che parte alle sette del mattino, con cambio a Voghera; per tornare da Modena a Pavia c’è un regionale che parte alle sette di sera, con cambio a Voghera. I restanti treni sono invece degli intercity e costano grossomodo il doppio (circa diciotto euro contro nove) pur impiegando grossomodo lo stesso lasso di tempo. Dovendo ieri andare a Modena, ho pianificato il mio viaggio secondo la rete di regionali, partendo con quello delle sette di mattino; il quale, comprensivo di cambio a Voghera, alle dieci mi ha scodellato puntuale a due passi dalla Ghirlandina con mia somma felicità. Dovendo altresì ieri tornare a Pavia, sono salito sul regionale delle sette di sera; il quale è arrivato in orario ma ha iniziato ad accumulare ritardo non appena posato il muso sul suolo lombardo.


Mi rendo conto che di questo la Lombardia non è colpevole, tutt’al più se ne può dedurre che è regione vagamente iettatoria. Risulta colpevole invece in quanto su territorio lombardo sale a bordo un controllore il quale, da me esplicitamente interrogato, mi illustra che nonostante le apparenze il treno viaggia in perfetto orario, così che io possa tranquillamente effettuare il cambio a Voghera nei dieci minuti di intervallo senza per questo essere un novello Ben Johnson. Risulta colpevole perché il regionale arriva invece a Voghera con undici minuti di ritardo (li ho cronometrati mentre in posa plastica attendevo di lanciarmi dal portellone); risulta colpevole perché alla stazione di Voghera i due treni che garantiscono la (non balzana, anzi frequentatissima) coincidenza per Pavia vengono fatti uno arrivare al primo binario e l’altro partire dall’ultimo; perché va a finire che il regionale Voghera-Pavia parte in orario nel momento in cui arriva in ritardo il regionale Modena-Voghera. Fin qui, tuttavia, si tratterebbe soltanto di sadismo o più probabilmente di un eccesso di ottusità e assoluta mancanza di senso comune, caratteristiche che impreziosiscono il soggiorno in Lombardia anche al di fuori delle sue stazioni ferroviarie.


Ma la Lombardia è la regione più onesta d’Italia – punto esclamativo – pertanto mentre io sono ancora fermo al binario con la faccia da persona che ha appena perduto una coincidenza per una combutta fra un controllore disposto a giurare il falso e un macchinista che aveva prescia di partire puntuale in un microcosmo di treni in ritardo, dal nulla (anzi dalla pioggia battente) si materializza un intercity; dal quale scende un cinghiale con il distintivo da controllore e senza frapporre indugio mi chiede se ho perso il regionale per Pavia. Rispondo di sì e lui dice di salire pure, perché Pavia è appunto la fermata successiva dell’intercity in questione. Mangio la foglia e gli chiedo se devo pagare la differenza. Il cinghiale teme che io non salga e mi risponde che posso pagarla a bordo. Mangio un’altra foglia e gli chiedo a quanto ammonti questa differenza. Si stringe nelle spalle dicendo che non sa con precisione, ma comunque mi invita a salire accennando a gesti a una cifra irrisoria.


Ragion per cui salgo e, nel momento in cui il treno si muove e io non posso più abbandonarlo se non a costo di morire (o di farmi molto male), il cinghiale mi raggiunge nello scompartimento vuoto e mi chiede di onorare il pagamento del supplemento rapido, che ammonta a undici euro e settanta centesimi. A differenza di lui e dei suoi colleghi corregionali, io sono una persona decente pertanto pago; non mancando però di fargli notare che:
- avevo viaggiato in regionale appositamente per evitare di pagare il doppio viaggiando in intercity;
- il regionale che mi conduceva da Modena a Voghera ha iniziato a rallentare in maniera sospetta non appena messa rotaia in Lombardia, accumulando alla fine il minimo ritardo utile a far saltare la coincidenza con il regionale successivo;
- a quel punto si è presentato un intercity che non era previsto nell’orario, e che viaggiava con un ritardo tale da arrivare non già prima del regionale per Pavia, ma subito dopo, come se fosse partito con l’intenzione di raccogliere a bordo chiunque fosse stato costretto a mancare la coincidenza fra i regionali;
- ho pagato undici euro e settanta centesimi di supplemento rapido per coprire una tratta che abitualmente ne costa due;
- grazie a questo giochetto di fortunate coincidenze, l’ammontare totale della spesa per un viaggio da Voghera a Pavia, indipendentemente dai giudizi estetici che si possono esprimere su sede di partenza e di arrivo, mi è costata all’incirca un euro a minuto (a Modena una puttana mi sarebbe costata di meno);
- ironia della sorte, l’esoso supplemento rapido per la tratta Voghera-Pavia mi è stato chiesto su un intercity che portava venti minuti di ritardo, a fronte di un viaggio di un quarto d’ora (in proporzione, è come se un treno da Milano a Bari portasse dodici ore di ritardo su dieci di tragitto).


Per fortuna la ben nota onestà istituzionale ed endemica dei Lombardi mi rassicura sul fatto che tal sospetto è infondato; e sono stato ben felice di pagare ventitremila lire di supplemento rapido al cinghiale travestito da controllore, augurandogli di spenderle quanto prima in onoranze funebri per sé e i suoi cari, per i quali auspico una morte lenta e atroce come un viaggio con Trenitalia.

mercoledì 21 novembre 2007

FF SS, ovvero: che vado a fare a una presentazione a Milano se i soldi per comprare il libro devo darli a un capotreno?

“Con la P: film del ’59 con Marlon Brando?”
“Pavia, stazione di Pavia.”
(Gerry Scotti e Damiano Latella a Passaparola)

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Poniamo che voi siate me e dobbiate andare a Milano per una presentazione (che si rivelerà spettacolare, peraltro, con Franco Loi che commenta e Sandro Bajini che legge con inflessione sorniona alcuni poemetti di Carlo Porta dall’antologia Hoepli appena curata da Gino Cervi – accattateville, c’è pure il cd!). Poniamo che la presentazione sia alle 18 e che possiate prendere comodamente il regionale delle 17:03 che vi consente di essere in Stazione Centrale alle 17:37 e dopo di che recarvi con tutto comodo in Duomo via metrò itterico e di lì arrivare passeggiando in via Ulrico Hoepli dopo che i tre passanti interpellati sull’ubicazione vi avranno dato ciascuno una risposta differente.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Poiché siete persone puntuali e fuggite il ritardo come nulla mai, vi presentate in stazione venti minuti, no, un quarto d’ora, no, diciassette minuti e mezzo prima della partenza del treno, così da poter fare con estremo comodo il biglietto. Civilmente, vi mettete in coda e attendete. Attendete. Attendete.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Attendete ma la fila non avanza di un metro. La stazione di Pavia è dotata di quattro sportelli umani per l’emissione di biglietti, a cui si aggiungono due macchinette automatiche. Essendo degli umanisti, optate per gli sportelli umani; ma due dei quattro sono chiusi, e i restanti sono in possesso a persone più calme di un barcaiolo morto e pagato a ore. Tuttavia attendete il vostro turno con fiducia, tanto alla partenza del treno mancano ancora diciassette minuti, no, dodici, no, sette, no, due. Iniziate ad accettare scommesse sul vostro destino e a controllare nervosamente gli orari dei treni successivi i quali hanno due caratteristiche: essendo degli Intercity costano il doppio (pur impiegando esattamente lo stesso tempo di percorrenza, mistero della fede) e vi consentono di arrivare alla presentazione con un ritardo compreso fra i la mezz’ora e i due giorni.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Quando alla partenza del treno delle 17:03 manca talmente poco che già è stata annunziata la sua incombenza, con mossa sparigliatrice e berlusconiana decidete di abbandonare la fila, alcuni componenti della quale sono nel frattempo morti di vecchiaia, e di precipitarvi alle macchinette automatiche, che per fortuna sono entrambe libere. Troppo libere. Sospettosamente libere.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Una delle due macchinette, infatti, reca l’avviso mortuario: “Sportello Chiuso”. Manca il corollario: “cazzi vostri” ma poco male, visto che c’è l’altra. Chi non le abbia mai provate dovrebbe quanto prima: si ha davanti uno schermo al plasma toccando reiteratamente il quale ottenete risultati contrari a quelli che vi prefiggete; è possibile pagare con carta di credito, bancomat, assegni, preziosi, oro a 24 carati, porzioni varie del corpo umano e vaghe promesse di saldare il conto sabato prossimo – tutto insomma che non sia denaro contante, che la macchina rifiuta con nobiltà sconosciuta all’umano genere.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Io ho un naturale pudore economico che mi rende scettico di fronte agli acquisti virtuali, ossia a comprare ciò che non posso toccare pagando con soldi che non posso vedere; ma in onore di Carlo Porta, di Franco Loi, di Sandro Bajini e di Gino Cervi decido di estrarre dal portafoglio la carta di credito. Palpando lo schermo a casaccio seleziono fortuitamente la destinazione, l’orario, la tariffa; dopo di che la macchinetta infernale torna alla schermata d’esordio chiedendomi in che lingua desidero che mi parli. È il tilt.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Ma poiché di fronte a Carlo Porta, e a tutti i signori citati in precedenza, non potrei fermarmi di fronte a nulla, con gesto eroico decido di salire sul treno senza biglietto; ma poiché si ha un bel dire che in Italia i servizi non funzionano se poi si viaggia nascosti per mezz’ora nei cessi onde evitare il controllore, dritto come un fulmine mentre la locomotiva si rimette in modo vago fra gli scompartimenti alla ricerca del capotreno, finché non trovo qualcuno che gli assomigli.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Al che gli spiego che sono appena salito, a Pavia, dove le persone in fila sono state trasformate in stalagmiti e dove le macchinette automatiche devono essere d’ascendenza francese poiché in sciopero generale. Il capotreno risponde che è evidentemente colpa mia. Protesto che io ho passato metà pomeriggio a tentare di comprare un biglietto per Milano, e che avendo fallito ciò nondimeno una volta sul treno sono corso a cercarlo immantinente per regolarizzare la mia posizione di fronte alla giustizia umana e divina. Pondero se infilare come captatio benevolentiae geografica pure un discorso d’elogio per Carlo Porta, Franco Loi, Sandro Bajini e Gino Cervi, ma scarto l’ipotesi in quanto mi suona ridondante.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Il capotreno come da regolamento emette il tagliando da Pavia a Milano al costo di due euro e novantacinque, ai quali aggiunge cinque euro di ricotta per il servizio di biglietteria sul vagone. Io pago e ammiro l’efficienza lombarda, che escogita il blocco delle file e lo scassamento delle macchinette per estorcere a chiunque abbia degli impegni (e quindi degli orari da rispettare, e quindi qualcosa da fare nella vita che non sia la coda agli sportelli della stazione di Pavia) il triplo di quello che avrebbero pagato se le file si fossero mosse, se le macchinette avessero funzionato. Dopo di che mi sistemo in prima classe e quando, due minuti dopo, il capotreno passa a mo’ di controllore e sta per dirmi che il biglietto da lui emesso è valido per la seconda classe e non per la lussuosissima in cui sono assiso, si trattiene dal farlo e resta con la bocca mezza aperta solo perché legge nel mio sguardo un bagliore luciferino: che con l’occhio destro rimugina come gli abbia appena dato sedicimila lire per un tragitto di trenta chilometri in una caffettiera sfrigolante, e con l’occhio sinistro gli augura vivamente che finiscano tutte spese in medicine.

(Nonostante l’enciclopedica cultura dell’amico Damiano, il film con Marlon Brando del 1959 è Pelle di Serpente.)

lunedì 19 novembre 2007

Restyling

Restyling, restyling! Il lato B dell’Osservatore Romano è stato svelato con rapidità napoleonica al momento del cambio di direzione in favore di Giovanni Maria Vian; di solito avviene che i nuovi direttori lascino passare un po’ d’acqua sotto le rotative prima di rivoluzionare grafica e contenuti, o al contrario che il rimaneggiamento più o meno scioccante costituisca la zampata che certifica l’autorità consolidata di un direttore storico che teme il logorio della vita postmoderna. Invece, da un giorno all’altro, la foliazione dell’Osservatore è stata dimezzata (da 16 a 8 pagine); le illustrazioni sono state pressoché eliminate, e le poche residue sono state decisamente ridimensionate; la tradizionale cronaca di Roma, incredibile dictu, è svanita nel nulla. In particolare, è evidente la prospettiva fondamentale di Vian (il quale, fra una cosa e l’altra, insegna Letteratura Cristiana Antica alla Sapienza): ciò che differenzia il Papa dagli altri capi di Stato è che non persegue il benessere o la ricchezza o il progresso contingente ma la salvezza eterna, e che la salvezza a differenza del benessere (o della ricchezza o del progresso) non può essere circoscritta a un’unica nazione ma deve essere partecipata a tutto il mondo. Da un versante giornalistico, questo cambia radicalmente la gerarchia e conseguentemente la disposizione delle notizie. Ho sotto gli occhi il numero dell’Osservatore dello scorso giovedì, che titola “La Sacra Scrittura ci offre la guida dell’educazione e del vero umanesimo” pubblicando in prima pagina, senza mezza parola di commento, la lezione tenuta dal Papa nell’udienza del giorno prima. Le pagine due e tre sono dedicate a varie notizie dal mondo intero, tutte in stile conciso e assolutamente britannico, dando una netta sensazione di equidistanza di ogni punto della Terra dalla Città del Vaticano. Non c’è traccia delle vicissitudini del governo italiano (mercoledì scorso doveva essere approvata la legge finanziaria), mentre le pagine quattro e cinque sono dedicate alla cultura: resoconto dell’incontro fra mons. Ravasi e Giuliano Ferrara (moderati dal card. Ruini) in San Giovanni Laterano, riproposizione di un intervento dell’allora card. Ratzinger su fede e ragione (“Il vero illuminismo è il cristianesimo”), lunghi saggi sulla liturgia latina e sulle radici celtiche del Dies Irae. Le pagine sei e sette sono dedicate alla cronaca ecclesiastica, di nuovo worldwide, e infine pagina otto chiude il circolo con gli interventi secondari del Papa e l’elenco dettagliato dei gruppi presenti ad ascoltarlo. Così concepito, l’Osservatore è mirabile: con la sua aria un po’ snob di bollettino d’altri tempi, costituisce la conferma cartacea e quotidiana che non a Roma, non all’Italia, non al particolare guarda il papato ma a riunire tutti i popoli in uno solo nella fede in Cristo: la prima e l’ultima pagina, dedicate al Papa, sono la cornice che racchiude (abbraccia anzi) da un lato le vicissitudini politiche del mondo (le pagine due e tre) e dall’altro le alterne fortune della Chiesa (le pagine sei e sette), il cui centro e fulcro è la riflessione razionale sul mistero della fede (le pagine quattro e cinque). Così concepito, l’Osservatore di Vian dà la misura della fiducia incrollabile che, comunque vada, non praevalebunt.


Restyling, restyling! Il lato B del Corriere della Sera, orgogliosamente mostrato da Paolo Mieli & co. a seguito di rutilante battage pubblicitario sul mondo che cambiando fa cambiare necessariamente anche il quotidiano più comprato d’Italia (quello più letto, invece, è la Gazzetta dello Sport), è sconvolgentemente simile a Leggo, oppure a Metro, oppure a City, insomma a uno dei tristi giornaletti tristemente gratuiti che i tristi milanesi leggono tristemente sui tristi treni che li conducono ai loro tristi uffici. Tempo ce ne vorrà, certo, ma la strada imboccata è quella: non solo per la colorata fascia superiore che fa rimpiangere il candido Corriere di Alberini anche a chi (come me) non è nato in tempo per comprarne mezzo, ma anche perché gli articoli sono improvvisamente diventati più corti, dando ragione in maniera preoccupante alla boutade di Ernesto Galli della Loggia il quale, dopo aver sottolineato con veemenza “il Corriere non sono io”, ha argomentato nel corso della sua conferenza sul Papa che i quotidiani ormai rincorrono un pubblico che vuole essere lasciato in pace a guardare la tv. Di bruttarello, inoltre, c’è che il nuovo Corriere della Sera nel corso del restyling s’è dimenticato di far finta di non trovare spazio per le imbarazzanti frasettine di Severgnini e Lina Sotis; imbarazzanti per motivi diversi anzi opposti: le prime perché Severgnini ha un’ironia che meglio funziona sulla pagina lunga, e quindi cercando la battuta fulminante si incarta anzi si accartoccia; quelle di Lina Sotis perché monotone, talvolta gratuitamente offensive e vagamente isteriche (si sa, l’età). Di bello, invece, c’è che il nuovo Corriere ha moltiplicato i pani e i pesci, pigliando la pagina delle recensioni domenicali e sestuplicandola in ciascuno degli altri giorni della settimana (esclusa, genialmente, la domenica stessa): di modo tale che, al paziente lettore che vorrà ritagliarla ogni giorno e conservarla in eterno, resteranno in mano sei pagine a settimana, ventisei a mese, circa trecento all’anno, per un totale di almeno novecento libri recensiti. Mica pochi, e recensiti per bene. Quanto al Corriere della Sera Magazine, anch’esso ristrutturato, m’è mancato il coraggio: il totem di Biagi sulla copertina del primo numero ha funto da deterrente insormontabile. Sarà per il prossimo numero, spero. Tuttavia continuo a rimpiangere (e non capisco perché ristrutturando ristrutturando Paolo Mieli non la restituisca) la Domenica del Corriere, inserto illustrato leggibile con calma, fruibile a tutti, godibile nei decenni. Da riconcepire con l’esplicito scopo di giocarsela alla pari, nell’immaginario collettivo, con la televisione e con internet, senza per questo rinunziare alla carta, il cui odore fresco di stampa è l’asso nella manica di ogni quotidiano.


Restyling, restyling! Il lato B di Berlusconi, abbiamo scoperto alla fine, è Berlusconi stesso.

sabato 17 novembre 2007

Lo Stato dei Licei: 1, la pecora nera

[“Io mi chiamo G”, esordiva Giorgio Gaber ai tempi del bianco e nero; al che un altro Giorgio Gaber, nella metà di schermo lasciata libera, repentinamente replicava rincarando: “Anch’io mi chiamo G” – e via allora con tutta una serie di differenze e dissonanze fra le vite dei due G speculari che avevano in comune tanto il nome quanto il sembiante.
Per certi versi, anch’io mi chiamo G, e per certi versi neanch’io sono l’unico. Me ne sono reso conto appieno nel momento in cui ho realizzato – con la nostalgia tipica di chi sta inevitabilmente, precocemente invecchiando – che sono trascorsi dieci anni esatti dall’inizio dell’anno scolastico che mi condusse alla maturità; e al contempo mi sono interrogato su cosa sia cambiato nella vita quotidiana (e cosa sia invece rimasto immutabile per saecula) nella repubblica dei registri, nel sotterraneo Stato dei Licei che accomuna gli adolescenti d’Italia da Vipiteno a Lampedusa.
Io mi chiamo G e mi sarei interrogato a vuoto in eterno, temo, se non fosse sorta nell’altra metà dello schermo immaginario un’altra vocina che mi ha risposto: “Anch’io mi chiamo G”. Di chi si tratta? Silvia G a quanto pare non fa parte della “generazione degenerata” della quale si torna periodicamente a parlare (vedi Panorama di ieri); non suole comparire ubriaca su YouTube né sniffa colla Bostik né compie esperienze sessuali estreme da sola o in compagnia; fa parte della maggioranza silenziosa di liceali che va a scuola tutti i giorni e non finisce mai in un telegiornale. Silvia G è la parte sommersa dell’iceberg; ciò nondimeno è convinta che anche quando non hanno niente di cui vergognarsi i licei d’Italia abbiano comunque adeguate storie da raccontare, pregevoli cubetti di ghiaccio. Ragion per cui Silvia G è la spia perfetta che ho intrufolato nello Stato dei Licei, dove io non potrò più mettere piede se non, auspicabilmente o malauguratamente, come professore prima o poi; e ora che l’anno scolastico ha ingranato, con il superamento delle occupazioni-autogestioni-cogestioni e l’avvicinarsi delle prime verifiche serie sotto Natale, mi spedisce regolari dispacci e l’accompagnerò commentando fra parentesi quadre da qui alla maturità. Silvia G ha diciott’anni e una dolce ironia; scrive bene, promette meglio e per questo merita di venire letta, a partire dal rigo qui sotto:]

Gurrado, il mondo del lavoro, in quest’epoca sovraffollata, è sempre soggetto a una dura selezione più o meno naturale, che tende a scartare con discreta leggerezza tutti gli elementi deboli o sfortunati, e a mettere in dura competizione quegli individui che invece riescono a tenersi a galla e a sopravvivere. Ogni giovane volenteroso che decida di non accontentarsi del diploma di licenza media, e di iscriversi conseguentemente a una scuola superiore, è consapevole che più avanza più dovrà brillare per distinguersi dagli altri e ambire prima o poi a cariche di rilievo. Per questo motivo si ritiene che più una scuola dimostra scrupolo nella selezione dei suoi iscritti, miglio è [nota di Gurrado: presumibilmente “meglio è” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto regolarmente per la lectio difficilior]: disciplina, diligenza, metodo e amore per lo studio, ecco quali sono sempre state le qualità richieste a tutti i bravi studenti, in ogni liceo che si rispetti.
Nel liceo che frequento, l’istituto più selettivo (o presunto tale) di ***
[ndG: per evitare che Silvia G venga espulsa da tutti i licei del regno, ho ritenuto opportuno occultare il nome del luogo, ma sono pronto a rivelarlo a qualsiasi dirigente scolastico lo desideri dietro congruo pagamento in contanti], la presidenza e i docenti in generale tengono moltissimo a rimarcare questo concetto: senza sacrificio non c’è soddisfazione, senza impegno non ci sono risultati, e senza risultati, purtroppo, non si può andare avanti. Non per nulla il liceo Voltaire [ndG: sfido chiunque a trovare un Liceo Voltaire in Italia. Se esiste, sappia che non stiamo parlando di lui] vanta il più alto numero di ammissioni alle più prestigiose università d’Italia da parte degli studenti giudicati maturi, le più alte medie nei sondaggi a livello regionale, la più alta fama tra i mortali e tra gli immortali e, di conseguenza, il più basso numero di iscritti alle IV ginnasio (non tutta la gioventù locale, infatti, è del parere che si sia al mondo solo per soffrire, e finisce per far domanda altrove).
Varcando le porte del Liceo Voltaire, ogni visitatore avrà il piacere di incedere attraverso ampi e luminosi corridoi, di soffermarsi ad ammirare i busti in marmo dei più prestigiosi studenti del tempo che fu, di penetrare in aule spaziose
[NdG: rincresce riconoscere che Silvia G non abbia trovato un verbo meno ambiguo], colme di fresche e vivaci testoline ordinatamente disposte a coppie, in bancate regolari e allineate. Il clima è insomma armonioso e idilliaco, e nel respirare quest’aria impregnata di diligenza, erudizione e buoni sentimenti, il cuore del suddetto visitatore guizzerà nel petto dalla delizia, gli occhi gli si riempiranno di commosse lacrime, ed egli penserà che istituti come quello sono senz’altro l’orgoglio di tutta l’istruzione pubblica italiana.
Tuttavia, ogni famiglia ha la sua pecora nera, e così ogni liceo; la mela marcia del Voltaire è la sventurata Terzaddì
[ndG: si noti l’implicita citazione manzoniana, dal capitolo X dei Promessi, segno tangibile che finché si studia a scuola si riesce ancora a imparare qualcosa, magari senza accorgersene]. Sezione dal passato travagliato, ricco di ritiri, bocciature e fughe ardimentose, non ha mai mantenuto lo stesso numero di alunni per due anni di seguito: se in IV ginnasio se ne contavano ben venticinque membri, essi erano diventati già diciannove in V, diciotto in I, sedici in II, e il numero sarebbe disceso ancora se non fosse stato per l’aggiunta di tre studentesse provenienti da una classe parallela in III liceo. Sono dunque diciotto giovani virgulti; tuttavia, a detta degli insegnanti, procurano di sembrare molti di più. Per quanto l’intelligenza di alcuni tra loro superi di gran lunga la media dei coetanei [ndG: media invero bassina], la singolare predisposizione all’eccesso, allo sprezzo delle regole e del pericolo, all’umorismo sagace e impertinente, allo smodato amore per il vin brulé e il Passito di Pantelleria, alla mordacità e alla vita spericolata in generale che li caratterizza, fa di questi alunni una stonatura fastidiosa in un ambiente tanto ordinato ed etereo. La situazione è inoltre aggravata dal fatto che alla Terzaddì, a questo manipolo di debosciati, a questa manica di barbari rinciviliti, sia stato assegnato un cospicuo gruppetto di professoresse zitelle e discretamente bigotte, profondamente vergognose di aver macchiato la loro ordinaria carriera con una cattedra nella classe famigeratamente trascurabile e, quando non se ne lagnano tra di loro, tentano di nascondere ai colleghi e al resto del mondo gli inenarrabili scandali che avvengono tra le quattro mura dell’aula [ndG: noi, ai tempi, solevamo lanciare festosamente nell’aere i calzini rientrando dall’ora di educazione fisica; rinchiuderci segretamente in un armadio e periodicamente aprirlo per ruttare a mo’ di orologio a cucù, invero volgarotto; giocare a Shangai durante le ore di Greco; chiedere alla professoressa di Geografia Astronomica di spiegare a bassa voce perché stavamo studiando Filosofia; eccetera eccetera eccetera; le professoresse di Silvia G ne sarebbero morte, le nostre avevano senso dell’umorismo e pertanto le ricordo con piacere]. È quindi speranza del sommo dirigente scolastico che si salvaguardi l’apparente perfezione, e che l’ignaro visitatore del liceo Voltaire., tutto concentrato sulla maestosa bellezza architettonica dell’edificio e sul clima idilliaco che trasuda da ogni parete, non si accorga che oltre la seconda porta a destra del primo piano, sotto la luce intermittente di neon difettosi e sibilanti, si combatte ogni mattina una guerra di trincea tra giovanotti vispi ma annoiati e insegnanti ormai prive di speranza, ma certo non disposte a [ndG: la pagina è strappata, il manoscritto si interrompe qui]


(continua)

venerdì 16 novembre 2007

Ingoiare il rospo

Estragone: “Be’, ce ne andiamo?”
Vladimiro: “Sì, andiamocene.”
Non si muovono.

(Samuel Beckett)

Buongiorno, ieri sera il centrodestra ha perso le elezioni. Né gli è stato facile, visto che si è votato nell’aprile 2006 e il centrodestra è riuscito a perdere solo un anno e mezzo dopo – ma con un po’ di impegno si ottiene tutto.

Lì per lì, infatti, la sconfitta numerica del 2006 si era rivelata una triplice vittoria:
- vittoria morale, in quanto presentava un’inezia di voti di distacco (magari non frutto di brogli, ma quasi sicuramente di errori) alla Camera e duecentomila voti di vantaggio al Senato;
- vittoria psicologica, in quanto risultato ottenuto in forte rimonta (quando chiunque, dai sondaggi non berlusconiani agli exit poll pomeridiani, dava il centrosinistra vincente in scioltezza) grazie alla felice concomitanza negli ultimi giorni di campagna elettorale fra la geniale strategia di Berlusconi (che culminava nell’esenzione dall’ICI sulla prima casa) e la tremarella suicida di Prodi (il quale accusava di indebita ricchezza i possessori di case larghe ottanta metri quadri);
- vittoria politica, in quanto chiunque, fra tentare di governare sotto il continuo ricatto di qualsiasi decisivo paio di senatori e stare comodamente all’opposizione attendendo il tracollo psichico della maggioranza risicatissima, se sano di mente avrebbe optato per la seconda opzione.

Al mattino dell’11 aprile 2006, la situazione era tale che: l’Italia era spaccata a metà come una mela; mezza rappresentanza politica aveva il dovere di governare, essendosi proclamata vincitrice, e al contempo l’obbligo impossibile di non perdere nemmeno uno dei ventiquattromila consensi in più che avevano garantito i festeggiamenti sul tir giallo; l’altra mezza rappresentanza politica aveva la prospettiva di riorganizzarsi serrando le fila ed esercitandosi al tiro al piccione, dove il piccione siede tuttora a Palazzo Chigi.

Il centrodestra aveva tempo e modo di sbrigare due faccende necessarie:
- preparare sull’istante un governo ombra per far sentire il proprio fiato sul collo di ogni singolo ministro prodiano e far cadere il governo per sfinimento (e non l’ha fatto);
- dare il via al disbrigo delle faccende burocratiche per incanalare il montante disappunto del Paese nei confronti della maggioranza ballerina in un unico grande soggetto politico, non necessariamente partito unico ma anche federazione plurale, in maniera tale da poter affrontare le inevitabili nuove consultazioni elettorali con slancio rinnovato e frapponendo un nuovo progetto politico fra sé e il precedente quinquennio di governo, non del tutto soddisfacente vista la fuga di voti benché contenuta. E non l’ha fatto.

Alla stessa maniera, fatta salva una timida offerta di collaborazione a un governo di larghe intese (nemmeno dovuta, poiché è la coalizione vincitrice, anche se di poco, che deve riconoscere che non sempre la maggioranza può coincidere col governo e di conseguenza offrire le larghe intese all’opposizione), il centrodestra ha scelto il muro contro muro, quando invece avrebbe dovuto sparigliare. Ha avuto poco successo al Senato, quando ha esposto una venerabile personalità istituzionale come Andreotti a una poco dignitosa sconfitta nella corsa alla presidenza (tanto meno dignitosa vista la caratura del candidato, che con ogni probabilità porta tatuato sulla gobba l’ariostesco motto “fu il vincer sempremai laudabil cosa”). Ha avuto meno successo ancora alla Camera, quando invece di creare scompiglio votando in massa D’Alema presidente sin dalle prime tornate ha tergiversato su schede bianche e nulle lasciando che Bertinotti vincesse senza colpo ferire così che Prodi, in prospettiva, si ritrovasse con una poltrona in più disponibile per il governo e un grosso problema in meno per la maggioranza. Ha fallito completamente nell’elezione quirinalizia, culmine dell’ingorgo istituzionale, dapprima disperdendo le forze (otto voti per Giuliano Ferrara!) e poi consegnando le chiavi della Nazione a Napolitano col rifugiarsi nuovamente in schede bianche e nulle invece di insistere, insistere, insistere votando esponenti di sinistra la cui collocazione avrebbe creato seri problemi di gerarchia al costituendo governo Prodi (Amato, ad esempio, o meglio ancora D’Alema stesso), o per lo meno personalità di spessore vicine alla maggioranza benché in maniera critica (Emanuele Macaluso, tanto per dirne uno).

Quando, al mercoledì delle ceneri del 2007, la Via Crucis governativa ha incontrato la stazione Prodi cade per la prima volta, invece di approfittare della spacconata di D’Alema (“Se il Senato non approva, ce ne andiamo tutti a casa”) e dell’infantile sgambetto di Rossi e Turigliatto, il centrodestra ha commesso l’errore di credere che tanto poco bastasse a segnare la fine di Prodi, dimenticando che non tutte le malattie sono mortali; ha sbagliato a non elaborare una linea comune così che entrambe le istanze ragionevoli (andare al voto o fare questo benedetto governo di larghe intese) si rivelassero troppo debolmente sostenute per poter essere ragionevolmente perseguite; ha tuttavia emesso tanto fumo da ricompattare istantaneamente la maggioranza, che mai come allora se l’è vista brutta, contro Berlusconi prima ancora che intorno a Prodi; ha infine pagato l’errore di aver consentito ciecamente l’elezione di Napolitano il quale dopo rapide consultazioni ha provveduto ad attaccare il ciuccio (Prodi) dove desiderava il padrone (i DS).

Diceva Nietzsche che ogni grande vittoria costituisce un grande pericolo. In questo caso nemmeno la piccola vittoria ma la prospettiva che il margine infinitesimale della maggioranza al Senato potesse da un momento all’altro tornare a inabissare Prodi come avevano fatto i capricci di Rossi e Turigliatto ha perigliosamente portato il centrodestra a illudersi che per far cadere il governo sarebbe bastato riportarsi, come si fa in analisi matematica, al caso precedente. Da un lato, quindi, si è dato troppo credito all’ingenuità della squadra suicida scelta nella sinistra estrema: senza considerare che, avvezzi come sono da decenni alla disciplina di partito, i vari Rossi, Turigliatto, Franca Rame e compagni avrebbero trovato il modo di turarsi non solo il naso ma anche ogni altro immaginabile orifizio prodiforme pur di impedire una vittoria al centrodestra (è esattamente questo il coraggio falangista che manca storicamente ai partiti conservatori e liberali, e che invece abbonda sulle barricate paracomuniste). Dall’altro lato si è stati così ingenui da confidare che uno due tre senatori ragionevoli, pronti a costituire la destra del centrosnistra, avrebbero fatto il lavoro sporco consegnando il pallino nelle mani di Berlusconi accontentandosi della promessa, immagino, di un sottosegretariato prossimo venturo o della più generale riconoscenza dell’Italia liberata.

Rincresce concludere che Berlusconi non ricordi il 1994, o lo ricordi male. Lui è una persona solare quindi ha ritenuto che, come nel ’94 il suo Ministro del Tesoro Lamberto Dini si sfilò dalla maggioranza del centrodestra, allo stesso modo nel 2007 il senatore egocentrico Lamberto Dini potesse sfilarsi dalla maggioranza del centrosinistra. Io che sono una persona ombrosa mi permetto di leggere una versione differente della medesima storia: come nel ’94 il Ministro del Tesoro Lamberto Dini provvide a coglionare Berlusconi per garantirsi un consistente ritorno personale (divenne infatti Presidente del Consiglio, e poi Ministro degli Esteri nel primo governo Prodi), così nel 2007 il senatore lambertodiniano Lamberto Dini è tornato a coglionare Berlusconi per garantirsi un margine di crescita personale nell’apocalisse politica appena innescata dalla creazione del Partito Democratico.

Ieri il centrodestra ha iniziato a perdere le prossime elezioni, buonanotte. Per mesi ha fatto confusione fra governo e maggioranza e, concentrandosi nel muro contro muro contro Prodi (governo), ha dato tempo e spazio sufficienti al centrosinistra (maggioranza) per riorganizzarsi attorno a un simbolo nuovo con un segretario quasi nuovo: ed è abbastanza immediato che le intenzioni del PD sono quelle di far finta di non aver nulla a che fare con DS e Margherita; che le intenzioni di Veltroni sono quelle di presentarsi all’elettorato, quando sarà, sostenendo di essere passato di lì per caso e autonominandosi del tutto estraneo allo scempio di Prodi col tracciare una netta linea di demarcazione fra governo (marcio) e maggioranza (più forte e più superba che pria) – esattamente come qualche mese fa ha fatto Sarkozy, presentandosi come alternativa d’opposizione ai quattordici anni di presidenza Chirac che pure gli avevano fruttato il Ministero dell’Interno.

Poiché nonostante le apparenze Prodi non è scemo e (avendo capito questo giochetto meglio del centrodestra) mirerà a durare il più possibile con espedienti e mezzucci evitando di governare e rimandando di mezz’ora in mezz’ora l’incombente gloria veltroniana, il centrodestra ora ha probabilmente ancora un po’ di tempo per cercare di incunearsi in extremis fra il Prodi governativo e il Veltroni maggioritario. Sarebbe bene non presentarsi agli elettori, quando sarà, rivendicando il merito di aver fatto opposizione nell’attesa del rinsavimento di Dini, o dell’ira funesta di Mastella, o di una telefonata di Pallaro, o della morte di Rita Levi Montalcini, o della mai troppo rimandata rivoluzione comunista. Sarebbe bene convocare un vertice già per stamattina e iniziare a lavorare insieme ai seguenti obiettivi immediati e comuni:
- costituire un governo ombra, con ruoli chiari e precisi per tutti, in maniera tale da tenersi pronti all’evenienza che Prodi caschi lunedì prossimo come anche nel 2011;
- elaborare una proposta unitaria di riforma elettorale, in maniera tale da avere un’idea coerente da opporre al veltronellum, che è fatto su misura per far vincere il PD a fronte dei due grandi partiti di centrodestra, e non far la fine di quelli che non volevano Napolitano al Quirinale, e che per non voler scendere a più miti consigli si ritrovano esattamente Napolitano al Quirinale;
- dare al presidente del più forte partito di centrodestra, cioè Berlusconi, il mandato di confrontarsi periodicamente col segretario del più forte partito di centrosinistra, cioè Veltroni, dimenticando Prodi e lasciandolo a macerare nelle sue acque torbide, in attesa che qualche alligatore di passaggio (Willer Bordon? ma vi pare?) se lo inghiotta una volta per tutte;
- una volta rispedito Prodi dove merita (cosa che accadrà cinque minuti dopo che Berlusconi telefona a Veltroni per dirgli che è disponibile a soluzioni che non prevedano l’immediato e terrificante ricorso alle urne), dare piena disponibilità per ogni possibile uscita dalla crisi di governo, siano le elezioni come un governo istituzionale o le larghe intese per le riforme o un ardimentoso tentativo di governo Veltroni, se proprio ha voglia di bruciarsi così. Tanta disponibilità non parrà vera al centrosinistra e ne determinerà l’impazzimento per troppa grazia, nonché il conseguente squacqueramento di una maggioranza, a ben vedere, finora compattissima.

In quel momento il centrodestra avrà vinto le elezioni del 2006, che oggi sono perse, e probabilmente anche le prossime, quando capiteranno. Oggi, di questa vittoria non sarei così sicuro (ma poiché non si sa mai, la firmetta contro Prodi entro domenica andrò a metterla).

giovedì 15 novembre 2007

La religione del laico

Ieri sera sono andato a sentire Ernesto Galli della Loggia e Giovanni Maria Vian che presentavano il libro del Papa su Gesù. Non era presente l’autore. E nemmeno l’argomento.


Io ho problemi con le feste comandate. Carnevale mi dà gli eritemi. Quando arriva Capodanno, il mio più ardente desiderio è coricarmi alla sera del 30 dicembre e miracolosamente svegliarmi al mattino del 2 gennaio. Quest’anno gli Inglesi sono riusciti a rovinarmi perfino la Pasqua sostituendo alla figura del Cristo morto e risorto quella di un coniglietto che zompa felice fra le uova variopinte. Gli stessi Inglesi hanno da tempo abolito gli auguri di Natale sostituendoli con i più generici (e meno islamofobici) Merry Festivities (è da questi dettagli che si distingue una religione vera da un’eresia divertente). In Italia il nome di Natale dovrebbe resistere ancora per una decina d’anni, con la sua etimologia che rimanda ineludibilmente alla nascita di Cristo e con l’iniziale maiuscola che ne sancisce l’unicità; ma sin d’ora stiamo facendo il possibile per rinsecchirlo, a furia di esagerare. Per dire, le vetrine della Upim mi fanno gli auguri di buon Natale e buon anno già dal giorno dei morti. Solo il permanente scintillio di Annabella mi impedisce di notare se hanno sistemato gli addobbi a fine ottobre, come suole, o se le vetrine stanno ancora brillando di luce propria, come sempre. Avantieri mi sono trattenuto dal malmenare un Babbo Natale camuffo costretto a distribuire flaconcini per strada – il 13 novembre, sottolineo, quarantadue giorni prima – solo considerando che forse come me era laureato in filosofia e quello era l’unico lavoro che gli era riuscito di trovare, miserello (e considerando che, essendo più grosso di me, avrebbe vinto e il combattimento si sarebbe rivelato controproducente). Nonostante che io bazzichi brume lombarde da quasi dieci anni ormai, ancora non mi rassegno all’esistenza del Calendario dell’Avvento, perversa tradizione longobarda (e tedesca, aggettivo che quasi mai è complimentoso). A beneficio di mia madre spiego che il Calendario dell’Avvento consiste in un pannello con ventiquattro finestrelle, una per ogni giorno dicembrino precedente il Natale; aprendo ogni giorno la finestrella corrispondente si trova all’interno un cioccolatino, che si provvede a scartare e quindi a inghiottire. A beneficio dei lombardi, ormai completamente estranei alla prima crociata, ricordo che l’Avvento è la Quaresima d’autunno e come tale dovrebbe servire a preparare le vie (interiori) per la venuta di Gesù Bambino, non per mangiare cioccolatini a sbafo e con puntualità sibaritica. Pertanto quest’anno il mio augurio, anticipato oltremodo come quelli dell’Upim, è che chiunque possieda un calendario dell’Avvento trovi dietro ogni finestrella una piccola ghigliottina che gli mozzi un dito al giorno, costringendolo a fermarsi il 10 dicembre – o il 20, se ha i piedi prensili.


Si avvicina la fine dell’anno (liturgico) e in preda all’angoscia sono corso alle Edizioni Paoline, a Pavia accuratamente nascoste in una stradina buia (nonostante che a Pavia tutte le strade siano stradine e tutte le stradine siano buie; questa era più stradina e più buia delle altre), al solo scopo di acquistare un calendario (liturgico) del prossimo anno (liturgico). Si apre la porta a vetri, incedo nello stabile, vengo accolto da due suore libraie una delle quali mi chiede cosa desideri. “Vorrei un calendario (liturgico) dell’anno nuovo (liturgico)”, le notifico con dovizia di parentesi orali. Me lo porge e mi fa i complimenti: “Ma che bravo! Vuol dire che segue la liturgia.” E io, delle infinite risposte che potevo darle, non trovo niente di meglio che: “Be’, almeno quella.”


Giova ricordare alle masse che il calendario liturgico costa quarantacinque centesimi di euro, equivalenti grossomodo a novecento lire, e dura tutto l’anno (un quotidiano che conta frottole costa un euro, più del doppio, e dura trecentosessantacinque volte di meno). Il calendario liturgico non è ingombrante, come potrebbe far supporre l’aggettivo, ma non va appeso al muro, come potrebbe far supporre il nome. Ogni pagina del calendario liturgico contiene una settimana che inizia alla domenica e finisce al sabato successivo; ogni riga contiene l’identificativo del giorno (esempio di oggi: 15 novembre), il colore della pianeta del celebrante (oggi verde: è tempo ordinario), i Santi del calendario romano (Sant’Alberto Magno, memoria facoltativa), i Santi del martirologio (Santa Vittoria, Leopoldo il Pio), le letture dalla Bibbia della Liturgia della Parola (libro, capitolo e versetti: Sapienza 7, 22 – 8,1; Salmo 118, 89-91.130.135.175; Luca 17, 20-25), infine il responsorio del Salmo (“Luce di gioia, Signore, è la tua parola”). Anche se uno non va a Messa tutti i giorni, leggere in privato i passi della Bibbia indicati dal calendario liturgico può servire a farlo vergognare di meno. Quanto meno ciò gli ricorda che tutti i giorni passati e futuri sono stati creati dal Signore, e che per ogni giorno c’è una parola da ascoltare e almeno un Santo che lo guarda (vi pare poco?). Il calendario liturgico è il libretto rosso (davvero, la copertina è così) di ogni cattolico e serve a orientare il fedele, o se non altro a fargli capire che i preti non scelgono il colore dei paramenti a seconda dell’umore o della moda dei calzoni che indossano di sotto. Anzi, dovrebbe servire a questo: l’evenienza che la suora libraia si sia complimentata all’atto dell’acquisto suggerisce che non se ne vendano più di tanti. Sicuramente meno dei Calendari dell’Avvento, da queste parti.


Ma il nuovo anno liturgico inizia domenica 2 dicembre e quindi, se pure possedete un Calendario dell’Avvento, fate in tempo a comperare anche il calendario liturgico con un solo dito in meno.


(Il titolo di questo pezzo traduce quello ben più dignitoso di un classico della letteratura inglese: la Religio Laici di John Dryden, 1682.)

mercoledì 14 novembre 2007

Ma va'?

Avete presente la puntata di Desperate Housewives in cui Bree Van De Kamp, la perfetta mamma bianca-anglosassone-protestante, per rifarsi delle tristezze quotidiane si concede un bicchierino di tanto in tanto, e non ammette di essere alcolizzata finché la vicina di casa Lynnette Scavo le riempie il giardino con un’infinita teoria di vuoti di bottiglia trafugati dalla raccolta differenziata? Bene: la raccolta differenziata dell’Italia sono i giornali. Venerdì scorso Panorama titolava “Indifesi”, sbattendo in copertina la residua scarpa della signora brutalizzata a Roma da un rumeno. Ieri il Guerin Sportivo mostrava un agente tutto intento a sparare lacrimogeni contro gli ultrà e titolava “Siamo in guerra”. La Gazzetta dello Sport, che un anno e mezzo fa titolava “Tutto vero”, ieri titolava “Ora basta”. E così via: virulenti caratteri cubitali oggi, carta straccia domani.

Una volta tanto, credo che non sia mancanza di sobrietà giornalistica ma endemico accumulo di vuoti inevitabili. Da un lato abbiamo un singolo immigrato che compie un delitto orribile, e ne deriva un’azione squadrista indiscriminatamente rivolta verso rumeni a casaccio e contenuta a stento. Dall’altro lato abbiamo un singolo poliziotto che commette un errore per il quale è giusto che paghi, e ne derivano rivolte ottocentesche in più città d’Italia non contenute affatto. Nell’un caso e nell’altro, la reazione è violenza di massa (come ha spiegato perfettamente in questi giorni il blog di Spangly Princess, dimostrando che per capire al volo l’Italia alle volte è necessario essere inglesi); ed è bene ricordare che la violenza di massa – sia volta a menare un rumeno di passaggio piuttosto che a far sospendere una partita di calcio o ad assaltare il Coni – è un reato punto e basta.

Gli esempi precedenti non mancano: non penso solo alla guerriglia di Catania che ha ucciso Raciti, ma anche ai quattro fessacchiotti che un mesetto fa hanno tentato di assaltare i pellegrini spagnoli accorsi in Vaticano per la beatificazione dei martiri franchisti. Ancora più impressionante è il dato di fatto che in tutti i casi la violenza di massa è esplosa con rapidità estrema, segno evidente che la pentola ribolliva già da tempo e che il rumeno Barbablù o il poliziotto Billy The Kid sono stati biechi pretesti.

Ragion per cui stavolta il calcio non c’entrava nulla e, mentre alla morte di Raciti bisognava dare un segnale fermando il campionato per mesi e mesi, stavolta il segnale più forte sarebbe stato continuare a giocare fino allo sfinimento. Non ho mezzo dubbio che, qualora ai tempi gli inglesi non si fossero macchiati di importazione footballistica entro i nostri patri confini, domenica scorsa la violenza di massa sarebbe esplosa in occasione di un concerto di Mahler o di una conferenza sulla fissione nucleare o di un torneo di scopone scientifico.

Seconda considerazione degna di nota, una notevole percentuale di questa violenza mira o a sostituirsi alla polizia (come nel caso del farsi giustizia da soli contro i rumeni) o, peggio ancora, a inveire contro la polizia stessa (come in tutti gli altri casi): di conseguenza si tratta di violenza di massa diretta contro lo Stato e che al contempo mira a sostituirlo. Ne consegue che è terrorismo.

Questo avviene anche perché, sant’Iddio, non abbiamo un governo adeguatamente forte, anzi, a dire il vero non abbiamo proprio un governo: sia dal punto di vista teorico ed eterno - nel senso che in Italia la Costituzione è architettata apposta per evitare che chi governa comandi, e per far sì che le sue buone intenzioni muoiano vittime di una serie di lacci e lacciuoli - sia dal punto di vista storico: nel senso che il governo in carica presumibilmente fino a stasera e malauguratamente anche oltre è atavicamente ostaggio di un’ampia percentuale di sinistra estrema alla quale è sempre convenuto girarsi dall’altra parte quando passavano cortei violenti e paraterroristici, con macchine bruciate, vetrine rotte e bandiere rosse; la cui principale preoccupazione negli ultimi anni è stata di provvedere alla santificazione di un tizio che, se non fosse stato sparato, avrebbe ucciso un poliziotto con un estintore; nonché simboleggiata da un suo autorevole esponente che, attualmente ministro della Repubblica, quattro anni fa se la rideva beatamente in chiesa durante i funerali dei militari uccisi a Nassirya.

È evidente che cambiare governo non basta a risolvere la situazione, però aiuta. Se non che convocare una crisi, che non sia frutto dei capricci di Dini ma della situazione potenzialmente insostenibile che si sta creando, significherebbe ammettere che la casalinga perfetta è alcolizzata, ossia che la bella Italia ha un oggettivo problema di reiterata violenza di massa. Ammetterlo significherebbe iniziare a risolverlo: pertanto non lo si ammetterà mai, anche se non ci sarebbe nulla di male a dimettersi per dar vita a un governo più forte che sia in grado di fronteggiare questa situazione riunendo i quattro o cinque partiti principali d’Italia in maniera tale da non dare a nessuno la scusa di sfilarsi dalle responsabilità in nome di alleanze politico-elettorali, e chiarire una volta per tutte quali sono i partiti che giovano allo Stato (alle Istituzioni, alla Polizia, all’Esercito, etc.) e quali invece lo avversano sorridendogli fasulli come monete da trecento lire.

Prodi dovrebbe pensarci: la situazione è talmente grave che l’Unità, organo ufficiale delle magnifiche sorti e progressive, stamattina s’è sentita in dovere di titolare “C’è un clima di tensione”. Perbacco: le è sembrato di vedere un gatto.

martedì 13 novembre 2007

Il nome della cosa

A te che ascolti il mio disco, forse sorridendo,
giuro che la stessa rabbia sto vivendo:
siamo sulla stessa barca, io e te –
ti ti ti ti…

(Rino Gaetano)


Rovistando nel cestino del bagno, cimitero dei giornali letti facendo altro, ho ricuperato un vecchio articolo di Panorama (pagine 271 e 272 del numero 45, otto novembre scorso) con la notiziona che non una ma ben tre scrittrici italiane hanno scritto, anzi peggio ancora, stanno scrivendo le sceneggiature per altrettante graphic novel, i postmodernissimi romanzi visuali che sono fuggiti dalle edicole e stanno invadendo le librerie.

Internet, che è il male assoluto, è la fonte migliore per orientarsi fra queste signorine libresche ma fino a un certo punto. Wikipedia sinteticamente definisce Pulsatilla “scrittrice italiana contemporanea” e nulla più; Melissa P. assume già una dimensione maggiormente sovratemporale in quanto “scrittrice italiana” e basta; Carolina Cutolo, invece, non esiste nemmeno come Pornoromantica. Pulsatilla ha un blog; Melissa P. ha un blog (in cui rivendica di essere Melissa Panarello ossia “ciò che fu P.”, ma temo che ormai sia troppo tardi per dichiarare le generalità all’universo mondo); Pornoromantica ha un blog. E in libreria? Pornoromantica ha una pubblicazione; Pulsatilla altrettanta; Melissa P. ha scritto due romanzi e una lettera a Ruini, il suo blog c’informa che sta scrivendo il terzo romanzo ma che per ora non sembra particolarmente interessata all’email del cardinal Bertone.

Ora, io non ho tanto in uggia che sul servizio di Panorama Melissa P. si lasci fotografare apparentemente vestita soltanto di un costume da canarino, oppure che Pornoromantica dichiari che “Guido Crepax o Milo Manara mi hanno dato un brivido lungo la schiena e tra le gambe”, o che l’unico riferimento a Pulsatilla sia una foto a mezza figura e non una dichiarazione o una frase tratta dalla sua sceneggiatura o anche un’ideuzza al riguardo, segno che molto probabilmente (come gran parte degli scrittori su commissione) ancora non ha iniziato tanto c’è tempo.

Né tampoco mi scandalizza che le signorine in questione trattino del sesso con una certa disinvoltura (ce ne fossero) e che quindi l’articolista di Panorama si senta in dovere di parlare di “scrittrici birichine”, de “le tre giovanissime più trasgressive”, con tanto di didascalia che ammicca a “cuginette omosessuali” mentre in alto campeggia il titolo: “100 colpi di matita e la graphic novel diventa a luci rosse”.

Piuttosto mi lascia perplesso che, delle tre scrittrici in questione, una per rendersi riconoscibile abbia dovuto mozzarsi il cognome alla sola iniziale puntata (come se io diventassi Antonio G.); l’altra si sia trasfigurata in una pianta verde e acida nella quale non resta alcun residuo anagrafico della signorina Di Napoli Valeria (come se io mi trasformassi in Cactus); l’ultima abbia firmato il proprio libro (romanzo?) con nome e cognome ma continui a essere nota e identificata tout court col titolo del volume (romanzo?) e del suo blog, appunto Pornoromantica (e io? Pornocattolico?).

Non ho nulla contro di loro ma vorrei chiamare le cose col loro nome. Mettiamo gli anarello dietro le P e restituiamo a Pulsatilla la carta d’identità perduta; evitiamo imbarazzanti scene in libreria alla prossima uscita (romanzo?) di Carolina Cutolo, quando per ricordarci chi è dapprima balbetteremo sillabe incongrue davanti alla commessa accigliata per poi esplodere in un “insomma, Pornoromantica, cacchio!”. Chiamiamo le cose col loro nome e spieghiamo che le graphic novel hanno molto a che fare con la grafica e molto poco col romanzo, in quanto si tratta di fumetti; e che una scrittrice che si dà alle sceneggiature di fumetti, anche se mi auguro che venga pagata profumatamente, di fatto sentenzia implicitamente che l’immagine è più importante della prosa, che la trama è più importante della parola e che quindi non vale la pena di leggere per intero i libri che ha prodotto, bastano la copertina e il riassunto in quarta. O un’occhiata al blog.

D’altra parte è noto che la ragione è sempre dalla parte di chi vince, per cui onore al merito e sana invidia.

lunedì 12 novembre 2007

La partita col buco

(Con questo pezzo ha inizio la collaborazione, che ci auguriamo sempiterna, di Gurrado con Quasi Rete / Em Bycicleta, il blog della Gazzetta dello Sport.)

Notazione per gli acalcistici: da mesi e mesi ormai ce la stavano menando con la litania di Ronaldo. Ronaldo sta benino, Ronaldo sta benone, Ronaldo è dimagrito, Ronaldo corre piano, Ronaldo si infortuna, Ronaldo torna a settembre, Ronaldo torna a ottobre, Ronaldo prima o poi torna di sicuro: finché non arriva la notizia ufficiale che, sant’Iddio, Ronaldo torna domenica 11 novembre contro l’Atalanta. E allora tutti ad aspettare il dénouement: il Milan, a cui un attaccante in più non avrebbe fatto male, Ancelotti, che al ritorno di Ronaldo aveva legato più fiducia di quanta l’Islam sciita riponga nel Mahdi occulto, i giornalisti, i tifosi (me compreso), gli iettatori interisti e i bambini.

Ronaldo, per quanto soprappeso, per quanto ridicolmente pettinato, una cosa ha di bello: la faccia da bambinone montata sul corpo da calciatore quasi ex. È pertanto presumibile che, quando lo vedono, i bambini lo percepiscano come uno di loro, uno squarcio di fantasia infante (sempre più affannata, ma non per questo cresciuta né invecchiata) nella noia immane di una partita tattica. Ronaldo per un bambino è un disegno sul muro, un dito nel naso, una linguaccia a tavola. È la speranza di poter essere amati e ammirati da tutto il mondo (o da tutto il cortile, per i bambini non fa differenza) nonostante la pipì a letto.

Significativamente dunque ieri pomeriggio la regia di Sky indugiava su decine e decine di bambini con la bandiera dell’Atalanta, con la sciarpa del Milan, con i genitori che non erano in grado di spiegare perché ci si era fermati dopo mezzo quarto d’ora e ciò nondimeno con la muta fiducia che da un momento all’altro riemergessero dagli spogliatoi calciatori e arbitro per restituire gli ottantatre minuti più recupero indebitamente sottratti da un tombino contro il plexiglas. Ai bambini interessava poco che Seedorf indossasse o meno il lutto al braccio; ai bambini non sembra verosimile che dei tifosi possano cantare “sospendete la partita”: i bambini erano allo stadio o davanti alla tv per assistere al ritorno di Ronaldo, punto e basta.

Io amo il calcio e trovo estremamente consolante che una o due volte alla settimana della gente corra in mutande appositamente per farmi divertire; per questo sarò sempre grato ai calciatori, e in particolare alla teoria di nomi e volti e figurine che affollano i miei ricordi d’infanzia: Van Basten, Maradona, Vialli ma anche Claudio Bergodi, Alvise Zago, Egidio Nicolini. Per questo se avessi avuto vent’anni di meno, se fossi stato un bambino allo stadio di Bergamo, ieri sarei andato da Ronaldo perché lui solo avrebbe potuto capire le mie intenzioni; l’avrei preso per mano e l’avrei portato insieme alle due squadre lontano dalla scempiaggine dei tifosi; gli avrei chiesto di tornare come promesso e di giocare Atalanta-Milan nel cortile sotto casa, guardato da ventimila bambini non accompagnati.

Oggi, Nassirya

sabato 10 novembre 2007

L'evangelizzazione delle neopagane

(Gurrado per Ore Piccole)

Di chi fidarsi, se non del Papa?
e, se cedeva quella pietra angolare
su cui poggiava la Chiesa,
più nulla meritava di esser vero.
(André Gide)

È evidente che lo Spirito soffia dove vuole, e non soltanto in diretta tv sfogliando in varia guisa l’evangelario posato sulla bara di Giovanni Paolo II, per poi richiuderlo platealmente al termine dell’omelia di Ratzinger allora cardinale. Era il vento, si dirà; ma non ci credo. Così come non ritengo che sia vento e basta (il solito vento, aerofagia letteraria, che gonfia una buona percentuale dei libri nostrani, basti entrare in una qualsiasi libreria – meglio se Feltrinelli) a spirare dalle pagine dell’ultima raccolta di articoli di Camillo Langone, edita da Marsilio: La Vera Religione spiegata alle ragazze. Anzi: nonostante già avessi letto questi dodici articoli in forma epistolare sulle pagine del Foglio nei mesi scorsi, a rileggerli tutti in fila è aumentata la sorpresa; pur sapendo perfettamente cos’era scritto in ciascuna lettera, l’organicità con la quale si susseguono in un’ora e mezza di lettura continuativa è a dir poco emozionante, e mi rende (caso raro) oggettivamente difficile parlarne. Non l’avrei mai creduto.



Già le parole del titolo, abitualmente macroscopico negli Specchi della Marsilio, pesano ciascuna come macigni. La Vera Religione, innanzitutto: a fugare ogni dubbio che ve ne possano essere altre che non siano il Cattolicesimo e nello stesso tempo a lasciare sottintesa la sua identità, senza bisogno di specificarla in un tempo in cui perfino le chiese sembrano nutrire dei dubbi, se ogni venerdì si trasformano in moschee, e in cui l’obiezione più ritrita che può essere avanzata da caterve di persone che si credono particolarmente intelligenti (senza esserlo, nella maggior parte dei casi) è che la vera religione è sì il Cattolicesimo per i cattolici, ma lo è anche il protestantesimo per i protestanti, l’induismo per gli induisti, l’animismo per gli animisti e lo scientologismo per Tom Cruise. Fregnaccia immane che ripugna tanto all’istinto quanto alla retta ragione: una religione è vera mentre le altre sono posticce come una Ferrari cinese, e in questo variopinto panorama il Cattolicesimo spicca come la Settimana Enigmistica, che vanta innumerevoli tentativi (falliti) di imitazione.



Quindi spiegata: termine che rende l’idea del costante atteggiamento di apertura, partecipazione e condivisione che è proprio del Cattolicesimo (in ragione del quale chi possiede un bel dono ha l’obbligo di moltiplicarlo dividendolo) ma che travolge anche, crudelmente, il muro di superiorità intellettuale di chi non crede, di chi crede solo fino a un certo punto, di chi crede a Sai Baba ma non a Ratzinger: muro eretto con mattoni e mattoni di istruzione distorta, falsa cultura, e tenuto insieme con chili di calce indebitamente presuntuosa. Le spiegazioni di Langone, semplici, veementi, cristalline e tendenzialmente inconfutabili – rivolte a signorine combattive che non hanno intenzione di farsi spiegare un bel niente – abbattono questo muro eretto sulla sabbia con la facilità irrisoria del lupo che soffia via la casa dei tre porcellini.



Delle tre porcelline, anzi, visto che la spiegazione è diretta esclusivamente alle ragazze: specificazione figlia di Algarotti (Il Neutonianesimo per le Dame, 1737) che al contempo è soavemente maschilista, lievemente paterna e perpetuamente innamorata (presumo che né Langone né altri vorrebbero mai convertire barbosi professori soprappeso). Introduce infatti un’asimmetria argomentativa che è la cifra di tutto il volume; basti citare la dimostrazione inoppugnabile che ognuno, e di conseguenza ogni ragazza, dovrebbe portare la croce al collo: l’autorità di San Paolo (“Non vi sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”, Galati 6, 14), la certezza che la croce non serve tanto ai santi quanto ai peccatori (Angelo Scola, patriarca di Venezia: “Se io dovessi aspettare di essere perfetto per testimoniare, non testimonierei mai. Invece paradossalmente anche il più grande peccatore può testimoniare. Non si comunica sé stessi, ma il grande dono ricevuto da Gesù”), infine l’annosa questione del crocifisso infilato in una zona erogena (che Langone risolve brillantemente in prima persona: “Credo che parecchie volte si intreccino le due motivazioni: l’orgoglio per le tette e l’affidamento a Cristo; ne hanno bisogno, le tette durano poco”). D’altra parte lo stesso cardinal Lambertini, due secoli e mezzo fa, scorgendo una croce di zaffiri su un panorama altrettanto prezioso espresse il desiderio di poter spirare su quel calvario; il che non gli impedì di diventare l’ottimo papa Benedetto XIV.



Questo della croce al collo è solo uno dei dodici temi che Langone affronta, uno per lettera. Gli altri – la necessità di battezzarsi, i Dieci Comandamenti, il valore del presepe, la presenza alla Messa, l’ascolto del Papa, la fede nella Santissima Trinità, l’amore fisico e quello cristiano, la natura della preghiera, la preminenza della musica sacra, la santificazione delle feste e la venerazione della Madonna – corrispondono informalmente alle quattro sezioni del Catechismo: la lex credendi, che illustra i pilastri della dottrina; la lex orandi, che relaziona l’uomo con Dio; la lex celebrandi, che testimonia la presenza di Dio fra gli uomini; infine la lex vivendi, che regola l’esistenza quotidiana mostrando cosa distingue un Cattolico dal resto del mondo.



Lo Spirito soffia proprio dove gli pare, e non deve stupire che un libro del genere, saldamente ancorato sulla Bibbia, sul Catechismo, sulla parola del Papa e sugli studi teologici (ossia testi sui quali tutti berciano senz’averli mai letti, soprattutto le persone istruite e troppo intelligenti per dirsi cattoliche) – nonché su un disarmante buon senso e su limpide considerazioni altamente spiazzanti – sia frutto della stessa mano che qualche anno fa produsse Scambio Coppie con Uso di Cucina. La chiave de La Vera Religione è la caduta di ogni velo di ipocrisia, e la testimonianza consapevole che non sarà un Negroni troppo carico o una signorina troppo scosciata, per quanto piacevoli entrambi, a far perdere di vista la netta distinzione fra bene e male.



La saldezza dottrinale del volume (non mi risulta che qualche vescovo abbia protestato) e la sua schiettezza argomentativa sono sufficienti a non lasciarlo lettera morta. Bisognerebbe che ogni maschio cattolico italiano decidesse di stanziare centoquarantaquattro euro per acquistare dodici copie (a dodici euro ciascuna) da regalare a dodici amiche variamente refrattarie. Bisognerebbe anzi che ogni maschio cattolico italiano alfabetizzato prendesse carta e penna o accendesse il computer per scrivere dodici lettere su temi residui ad altrettante signorine riottose, non importa se già cattoliche o non ancora, poiché la testimonianza non è mai troppa né la fede è mai abbastanza, come testimonia il gran traffico epistolare che conclude il Nuovo Testamento. Non importa quanto si sia bravi nella bella prosa o quanto ci si senta portati all’argomentazione: in più passi della Bibbia è scritto di non temere e di non stare a prepararsi gran discorsi, quando serve lo Spirito provvede a trovare le parole giuste sull’istante. L’importante è che non pretendiate di pubblicarle.



Di là dal soccorso innegabile dall’alto, senza il quale la lettura filata delle dodici lettere non tramortirebbe gli animi, Langone ha dalla sua l’ottima prosa e la virulenza argomentativa, la cura formale che rende un testo degno di essere stampato rispetto ad altri di contenuto simile. A voler anticipare il senno di poi, è molto probabile che La Vera Religione segni il salto di qualità che può condurlo nel ristretto novero di grandi apologeti postmoderni celebri per la qualità della loro scrittura, nonché (specularmente) dei grandi scrittori meglio valorizzati dalla carica apologetica, come G.K. Chesterton o C.S. Lewis per intenderci. La totale assenza (o quanto meno l’ardimentosa reperibilità) de La Vera Religione dagli scaffali della Feltrinelli di Pavia è un’ulteriore conferma, fra i fumi di Satana, che si tratta di un libro bello e saggio, tanto edificante per i fedeli quanto pericoloso per gli avversari. E io devo ancora andare a comperare un crocifisso da mettermi al collo indegno.

giovedì 8 novembre 2007

La nebbia agli irti colli

A Pavia, o meglio a San Martino Siccomario, c’è un centro commerciale nel quale sono stato spinto da insopprimibili bisogni; nel quale inoltre, esso distando abbondanti chilometri dal luogo in cui alloggio e io non detenendo regolari patente né tampoco automobile, ho avuto l’obbligo di recarmi in autobus. Il tragitto è elementare, Watson: si parte da strada Nuova all’altezza di piazza Vittoria (esattamente al centro di Pavia, incrocio di cardo e decumano reso maggiormente visibile dalla discreta presenza delle seicentosessantasei vetrine della pellicceria Annabella) e si procede in discesa verso il Ticino, lo si oltrepassa (non già guadandolo ma grazie a un apposito ponte), si esce dall’abitato di Pavia e prima ancora di entrare nell’abitato di San Martino Siccomario (sempre che vi abiti davvero qualcuno, a San Martino Siccomario) l’autobus si ferma esattamente di fronte al centro commerciale in questione. Nulla di più facile; se non che tanta facilità nel percorso contrasta con l’estrema difficoltà di acquisire il diritto a compierlo.

All’andata, è sufficiente entrare in una qualsiasi tabaccheria su Strada Nuova (ce n’è a bizzeffe), chiedere un biglietto, farselo consegnare, pagare un euro, chiedere conferma riguardo al punto di partenza dell’autobus per San Martino Siccomario, sentirsi rispondere che il biglietto appena acquistato non è valido per andare a San Martino Siccomario, chiedere con sorpresa se il l’autobus per San Martino Siccomario è differente dagli altri autobus urbani e suburbani, sentirsi rispondere che l’autobus è uguale ma che il biglietto è diverso, restituire quindi il biglietto appena acquistato richiedendone in cambio uno valido, sentirsi rispondere dal tabaccaio che lui ha solo biglietti per non andare a San Martino Siccomario, sottrarre rapidamente al tabaccaio l’euro precedentemente consegnatogli che lui vi porge titubante, uscire dalla tabaccheria, precipitarsi alla fermata, notare che nei dintorni c’è un’edicola, supporre che l’edicola potrebbe addirittura vendere dei biglietti d’autobus, avvicinarsi all’edicolante, con fare sospetto chiedergli se vende biglietti d’autobus o solo rotocalchi femminili, sentirsi rispondere che ne vende e come, chiedergli se detiene addirittura biglietti per chi abbia l’uzzolo di andare a San Martino Siccomario, sentirsi rispondere che lo spaccio di biglietti per San Martino Siccomario è la sua specialità nonché il suo principale titolo di merito, porgergli l’euro in cambio del biglietto per San Martino Siccomario, sentirsi rispondere che il biglietto per San Martino Siccomario costa invero un euro e venticinque, cercare i restanti venticinque centesimi, vedere con la coda dell’occhio che nel frattempo sta giungendo in gran fretta l’autobus per San Martino Siccomario, apprendere dall’edicolante che il medesimo biglietto può essere acquistato sull’autobus, scusarsi con l’edicolante e salire al volo sull’autobus prima che levi gli ormeggi per San Martino Siccomario, chiedere un biglietto al conducente, sentirgli chiedere se si vuole un biglietto per San Martino Siccomario, replicare che a bordo dell’autobus per San Martino Siccomario è piuttosto usuale munirsi di biglietto per San Martino Siccomario, sentirsi rispondere che il biglietto costa di più, replicare senza perdersi in dettagli inutili che è già esperito (nella tabaccheria e in edicola) che il biglietto per San Martino Siccomario è differente e costa di più del biglietto urbano ordinario, sentirsi rispondere che ciò nondimeno il biglietto per San Martino Siccomario emesso all’interno dell’autobus costa più del biglietto per San Martino Siccomario emesso all’esterno dell’autobus, replicare che giocoforza il biglietto va fatto tanto più che l’autobus s’è già messo in moto e procede indefesso verso San Martino Siccomario, pagare un euro e venticinque di biglietto per San Martino Siccomario più la sovrattassa di centesimi cinque, ottenere il biglietto per San Martino Siccomario, obliterarlo, sedersi, aspettare.

Al termine di questa funzionale procedura, si raggiunge San Martino Siccomario in men che non si dica e si può procedere all’espletamento degli insopprimibili bisogni, che nel mio caso consistono nell’acquisto di un paio di maglioni di lana per difendersi alla bell’e meglio dall’avanzare del freddo (il pianeta si va surriscaldando, eh?) e non già – ci tengo a sottolineare – nell’accoppiarsi a casaccio con donne uomini e animali com’è universalmente risaputo che avvenga nottetempo nel parcheggio del medesimo centro commerciale di San Martino Siccomario.

Per il ritorno le cose si complicano. Innanzitutto, sono passate le sette di sera e questo, a Pavia e provincia, crea a priori terrore e scompiglio fra gli indigeni. Cosa piuttosto preoccupante, l’autobus è ancora fermo nella piazzola in cui era arrivato, dal lato destro della strada e quindi presumibilmente in senso di marcia opposto rispetto alla direzione di ritorno a Pavia. Se non che l’intervento salvifico di una signora mi assicura che curiosamente l’autobus provvederà miracolosamente a immettersi nuovamente sulla strada per Pavia e quindi mi trattiene dal recarmi alla banchina opposta e salire sull’autobus che procede apparentemente nel senso giusto ma effettivamente (desumo) in senso contrario, come invece hanno prontamente fatto degli studenti spagnoli in Erasmus a Pavia dei quali a tutt’oggi si sono perse le tracce. Dopo un’attesa superiore al tempo trascorso nel centro commerciale provando ogni singolo maglione di lana, si palesa il conducente, il quale sale a bordo e mette in moto. Lo raggiungo chiedendogli di emettere un biglietto per Pavia. Risponde di no. Gli assicuro che non pretenderò di pagarlo un euro e venticinque ma che sarò ben lieto di aggiungervi cinque centesimi di sovrattassa. Risponde che manco a parlarne. Gliene chiedo ragione. Argomenta che non si può fare il biglietto sugli autobus. Gli faccio notare che sulla fiancata del medesimo autobus del quale ha acceso il motore c’è scritto a caratteri cubitali Da Oggi Puoi Fare Il Tuo Biglietto Anche Sull’Autobus. Mi risponde che non conta ciò che c’è scritto a caratteri cubitali, ma ciò che è specificato a caratteri minuscoli. Lo rendo partecipe della mia ignoranza al riguardo. Mi illustra che sotto l’enorme scritta con le iniziali maiuscole viene messo in chiaro che l’emissione dei biglietti sull’autobus è consentita nella fascia oraria di chiusura delle edicole. Protesto che sono trascorse le diciannove pertanto le edicole sono chiuse. Risponde che le edicole chiudono alle diciannove e trenta. Descrivo un ampio gesto della mano col quale gli illustro che nell’enorme parcheggio circostante non è possibile rinvenire nessuna edicola, aperta o chiusa che sia, così come anche nel raggio dei due o tre chilometri circostanti. Conferma di esserne consapevole, ma ribadisce che non gli è consentito emettere un biglietto per Pavia nemmeno se glielo pagassi, toh, un euro e trentacinque. Con mossa disperata cerco di convincerlo spiegandogli che un suo collega aveva emesso il biglietto per il percorso inverso alle cinque e mezza, quando le edicole sono ancora aperte persino a Pavia e presumibilmente anche a San Martino Siccomario (sempre ammesso che vi siano delle edicole, a San Martino Siccomario). Rimarca il torto del collega e gli dà del fuorilegge accusandolo di aver avidamente voluto appropriarsi dei miei cinque centesimi in più, quando era invece evidente che il suo dovere consisteva nel mollarmi al centro di Pavia a lacrimare sul mancato acquisto dei maglioni di lana. Gli chiedo allora se gli è possibile attendermi per il tempo necessario a cercare un altro luogo nei dintorni dove acquistare un biglietto d’autobus per Pavia. Mi risponde che non c’è nessun altro luogo nei dintorni dove acquistare un biglietto d’autobus per Pavia. Avanzo l’ipotesi che sia suo dovere emetterlo, in tal caso, a bordo del medesimo autobus in questione. Sdegnato, fermamente ribadisce che gli è proibito infrangere le direttive dei superiori. Indago timoroso allora sul da farsi, paventando in cuor mio che il suo recondito scopo consista nel farmi trascorrere la notte nel parcheggio del centro commerciale di San Martino Siccomario per poi avere agio di abusare a piacimento delle mie stanche membra, col favore delle tenebre incombenti. A sorpresa risponde che non sono fatti suoi e che posso viaggiare senza biglietto, con tutti i rischi del caso. Protesto che non ho intenzione alcuna di viaggiare senza biglietto e, anzi, che nutro un sincero desiderio di pagare per il breve viaggio che ci accingiamo a compiere. Con un pulsante chiude le porte a soffietto, quindi preme sull’acceleratore ripetendo che lui non può trasgredire la legge emettendo un biglietto dietro mia richiesta, e che se il bigliettaio si accorge del fatto che sono a tradimento sull’autobus senza regolare titolo di viaggio sono affari miei e cazzi amari. Conclude la querelle il nuovo intervento salvifico della signora la quale mette a disposizione una tacca del suo abbonamento mensile, privandosi di un viaggio da o per San Martino Siccomario che sull’istante le pago in contanti. Le porgo un euro e cinquanta e non mi dà il resto.

mercoledì 7 novembre 2007

L'ira di Dio

In tutto il mondo civile The Economist esce di venerdì, ma a Pavia arriva al martedì successivo. A ciò si aggiunga che costa (metaforicamente) l’ira di Dio, essendo ormai arrivato a cinque euro e venti (un tempo ne costava soltanto quattro e cinquanta). Ragion per cui ci si ritrova non solo a sentirsi sempre considerevolmente più poveri dopo averlo acquistato (evento che fortunatamente capita di rado), ma soprattutto ad affannarsi a leggere in ritardo e nei ritagli di tempo pagine fitte che il mondo intero ha già comodamente digerito durante il weekend precedente.


Questa settimana, cioè ancora oggi e domani, The Economist va assolutamente comprato in quanto costa anche letteralmente l’ira di Dio: prende infatti spunto dalla ricorrenza britannica della congiura delle polveri di Guy Fawkes (remember remember the fifth of November) per un inserto speciale di diciotto pagine sui rapporti di forza fra religione e politica in tutto il mondo, sulla scorta di un’affermazione sorprendentemente ragionevole di Ahmadinejad: “Il mondo sta tornando a gravitare intorno alla fede nell’Onnipotente”.


Come sempre le inchieste speciali dell’Economist sono magistrali per completezza e lungimiranti per competenza (si pensi a quella sulla politica italiana, uscita un paio d’anni fa, che prevedeva l’ascesa parallela di due nuovi astri: Fini e Veltroni). Per prima cosa, nell’editoriale di John Micklethwait, viene posto il problema generale con un esempio particolare: in Nigeria la popolazione tende a definirsi non tanto in base alla comune nazionalità, quanto alla religione privata, scindendosi di fatto fra cristiana e mussulmana. Segue un resoconto delle nuove tendenze di espansione religiosa: se nel 1966 Time dedicava una copertina alla morte di Dio (e nel 2000 lo stesso Economist pubblicava il Suo necrologio), progressivamente ci si è venuti convincendo che una religione, per sopravvivere, non ha bisogno di mostrarsi accondiscendente né ragionevole né diafana, ma vibrante e trascendente (in una sola paroletta inglese, “hot”, calda). A ciò valga l’esempio delle chiese pentecostali in Corea del Sud, nonché la consolante considerazione che il 58% dei pentecostali filippini (così come il 54% di quelli statunitensi, e il 64% dei brasiliani) ha ricevuto dirette rivelazioni dalla voce del Signore. Il malizioso passaggio successivo riguarda le guerre di religione, presumibilmente tanto più verosimili quanto più la religione che le sostiene è “calda”: nonostante un iniziale parallelo fra Ahmadinejad e Cromwell, entrambi piuttosto risoluti nell’idea di contrapporre “chiunque scelga di servire la gloria di Dio” a “tutti gli uomini malvagi che sono al mondo”, viene tuttavia riconosciuta la decisiva differenza che oggigiorno la religione non è più tanto il casus belli quanto il mezzo per cristallizzare definitivamente il conflitto, impedendo alle parti in causa di scendere a più miti consigli (o, meglio ancora, fungendo da scusante alle parti in causa che non vogliano cercare un compromesso): esempio pratico, l’articoletto specifico sugli inconciliabili sceicco Yazid Khader e rabbino Yaacov Medan, che vivono fianco a fianco nella striscia di Gaza e si guardano in cagnesco perché entrambi ritengono di aver ricevuto il proprio fazzoletto di terra (e l’altrui) direttamente dal Signore.


Lette con distrazione due pagine sull’India che in fin dei conti non ci interessano più di tanto, è decisamente più interessante l’articolo riguardante il piede che la Turchia di Erdogan sta cercando di tenere in due scarpe: l’Europa laica e l’Islam inamovibile. Ancora una volta, esempio pratico: il fatto che le mogli (due in tutto, una ciascuno) del presidente della Turchia e del suo primo ministro portino entrambe il velo è segno di mentalità avanzata e tollerante o insopportabilmente retrograda? La risposta arriva dal pezzo successivo, riguardante i rapporti in senso lato fra religione e modernità. Più che fra una religione e l’altra, suggerisce The Economist, il vero (inedito) scontro in atto sembra essere fra credenti d’ogni risma e progressisti: come dire, Ratzinger e Al Sistani da una parte, dall’altra Dawkins e Hitchens. Gli articoli dell’Economist sono per tradizione non firmati, e quindi espressione del comune pensiero di editore, direttore e redazione: questo ha sempre consentito una maggior libertà nel prendere posizioni forti o se non altro nette. In questo caso la posizione, espressa a priori, è che “i politici debbano imparare a prendere in considerazione i sentimenti religiosi privati ma anche a tracciare una linea invalicabile fra la chiesa e lo stato”.


Altrettanto brutalmente, l’editoriale d’apertura di John Micklethwait si conclude sull’avvertimento che le sedici pagine seguenti “possono offendervi”. Ora, è da sette anni che studio l’esegesi biblica degli illuministi iconoclasti, quindi per offendermi ci vuole ben altro; piuttosto mi sento di muovere un appunto, anzi tre. La forsennata lettura tardopomeridiana dell’Economist, con l’angoscia nevrotica che il nuovo numero uscisse prima che io finissi, non mi ha liberato dall’impressione che a furia di elencare percentuali e tabelline si finisse per guardare il dito indice piuttosto che la luna indicata. Indubbiamente The Economist è un settimanale di economia politica e non di teologia mistica (altrimenti si chiamerebbe The Devine Polemic, forse), pertanto è giusto che si concentri sulle cose terrene; ma il problema è che trattare la religione esclusivamente come fenomeno di massa o allucinazione collettiva è sempre limitante.
Per prima cosa, la citazione dalla lettera di Ahmadinejad va ricalibrata in quanto l’Onnipotente di cui si parla è decisamente diverso (e molto più incazzoso) dall’Onnipotente di riferimento del rabbino di Gaza, e ancora di più da quelli dell’Arcivescovo di Canterbury, dei pescicoli indiani e del Papa. Ognuno ha un Dio suo e, nonostante le pretese ecumeniche di tizio o caio, non tutti gli dèi sono uguali e non basta chiacchierare di un’idea generica di Dio per renderla immediatamente vera.


Questo spezza decisamente il fronte comune dei credenti che The Economist sembra tracciare con un po’ di sufficienza jovanottiana (“Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa / che parta da Che Guevara e arrivi fino a Madre Teresa” - col cazzo). Specularmente, questa distinzione può creare scompiglio nel fronte degli atei e miscredenti, i quali hanno tutto l’interesse a buttare nella raccolta indifferenziata in un sol colpo Cristo, Buddha, Maometto e Manitù. Dawkins e compagnia sono una specie di Beppe Grillo teologici e sopranazionali, pronti a dire che le religioni (o i politici) sono tutte uguali e che quindi non valga la pena di credere in (o di votare per) nessuna di loro; ragion per cui, concludono dawkinsiani e grillisti, credete in noi che non crediamo in nulla, votate per noi che non votiamo per nessuno.


In secondo luogo, The Economist commette un clamoroso errore di valutazione (in buona fede? in cattiva fede?). Quando a un mio amico di pericolose tendenze francescane venne chiesto: “Pensi che Dio esista?”, lui ingenuamente rispose: “Penso di sì.” Io, che ho virulente tendenze domenicane e inquisitorie, avrei risposto: “Sì, esiste e come”, trasportando il discorso dal soggettivismo e dal relativismo sorridente offerto a tradimento a un più imbronciato, ma credibile, oggettivismo. D’altra parte è sempre bene ricordare, anche ai francescani, che ogni domenica a Messa si recita: “Credo in un solo Dio”, e non “Mi pare che ci sia un solo Dio”, o “È largamente auspicabile che esista un solo Dio”.


Quest’assertività, lungi dall’essere violenta (non ho mai picchiato nessuno, io, nemmeno se se lo meritava), è il fondamento di ogni religione e come tale è esclusiva. Tradotto in termini non filosofici: ogni religione crede che il suo Dio sia vero; se ci sono tante religioni, o ci sono tanti dèi o tutti credono nello stesso Dio chiamandolo con nomi diversi; la prima ipotesi è da scartarsi in quanto renderebbe ogni religione un politeismo molle; la seconda è altrettanto da scartarsi perché farebbe venir meno la ragion d’essere di ogni singola religione, ovvero: “Perché siamo cattolici (o scintoisti, o quaccheri) se alla fine crediamo allo stesso Dio di mussulmani e induisti (o anglicani, o scientology)?”.




La terza obiezione all’Economist entra nel merito, piuttosto che nel metodo. Ogni religione crede che il proprio Dio sia l’unico e vero. L’esistenza di tante religioni, dovendo necessariamente escludere che esistano altrettanti dèi che non potrebbero essere né unici né veri, non porta logicamente (ahi ahi ahi signor Economist) alla sentenza che nessun Dio è unico e vero. Sia io sia tutti i miei vicini di casa possiamo sostenere di abitare in Via dei Matti numero 0; ciò non porta alla conclusione che il civico in questione non esista, né esclude che uno di noi ci abiti veramente e gli altri no.




In assenza di rivelazioni dirette (fatta esclusione per i pentecostali, che chiacchierano con Dio prima e dopo i pasti), The Economist protesterà che non è possibile stabilire razionalmente qual è il Dio unico e vero né, di conseguenza, quale sia la religione vincente. Balle. L’errore dell’Economist consiste nell’aver presentato esclusivamente la tensione orizzontale (tutta umana e di conseguenza conflittuale) del mondo delle religioni, trascurando completamente la tensione verticale (un po’ come fa il nuovo libro del teologo eretico Vito Mancuso, che non per niente ha ricevuto il plauso congiunto di Umberto Galimberti e del Cardinal Martini, motivo più che sufficiente a non azzardarmi mai a comprarlo). Nella sua critica razionale all’idea religiosa, il vaglio dell’Economist trascura il dettaglio che una religione può essere più ragionevole di altre, pur mantenendosi “calda”. Cambia il tipo di calore, però: non tanto quello delle bombe mussulmane o dell’epilessia evangelica, quanto quello sereno e confortevole del Cristianesimo, che accondiscende alla retta ragione (compiuta in sé stessa e al contempo limitata) in quanto insufflata dallo stesso Dio creatore, nonché caso unico in cui fede e pensiero vanno di pari passo sostenendosi a vicenda. Si tratta pari pari del discorso pronunziato a Ratisbona da Benedetto XVI, testo intellettualmente coraggioso e concettualmente inespugnabile al quale The Economist dedica quasi mezza riga, impegnato com’è a specificare che nel mondo cristiano i sacerdoti non hanno la minima intenzione di governare nessuno, “fatta salva la lieve eccezione del Vaticano”.