[Una delle etimologie più significative della storia è quella che risale al termine latino classis, che si riferisce alla rigida stratificazione sociale presso gli antichi Romani (non che presso i Romani moderni la stratificazione sia meno rigida, però si evita di parlarne) e che dovendo all’inizio indicare ogni singola (appunto) classe sociale ha finito per identificare tout court la prima, la più ricca e, cose che al tempo andavano a braccetto, la più colta e moralmente superiore. Donde l’aggettivo classico, che colorava tutto quanto si riferisse a questa prima classe (se mi si perdona la metafora ferroviaria), secondo due direttrici: una temporale, che rimandava nei secoli a un passato che si presumeva migliore e irrimediabilmente perduto (musica classica, un testo classico, un vestito classico, una ragazza classica); una spaziale, che sanciva la superiorità di questo o quello rispetto a un mondo che via via si adeguava volgarmente alle mode e alle esigenze dei tempi correnti. Ma classico, così come aggettivo sostantivato, ormai è rimasto a identificare soprattutto la scuola che guarda indietro (verso il tempo perduto) e che contemporaneamente guarda in basso (verso la bolgia di licei e istituti di rango inferiore, in cui si crede comunemente che la partenogenesi non abbia nulla a che vedere con la verginità delle parthenoi ma che sia detta così perché coinvolge solo parte dell’organismo – così ho sentito giurare una professoressa di scienze, dieci anni fa). E insomma, quale altra scuola poteva mai frequentare una come Silvia G?]
Gurrado, ogni scuola superiore ha le sue caratteristiche e le sue materie d’indirizzo: esistono i licei scientifici, che prediligono lo studio della matematica e delle scienze in generale, gli istituti tecnici, che invece focalizzano l’attenzione sulla prospettiva e sul disegno geometrico, i licei artistici, dove si studiano la pittura, le proporzioni e si impara a modellare la creta [nota di Gurrado: nella speranza di trovare un giorno lavoro come protagonista nel remake di Ghost]. Ogni materia acquista maggiore o minore importanza a seconda del tipo di scuola in cui è inserita, e così mutano le gerarchie fra i professori che la insegnano.
Il Liceo Voltaire essendo un classico, assoluta precedenza va data alla presentazione della docente di latino e greco, la professoressa Fiorello. Caratteristica principale di questa irrinunziabile insegnante è il suo radicato e viscerale amore per le materie che le competono: mai creatura umana viva provò probabilmente una così profonda adorazione per le lingue morte, mai ci si commosse tanto nello studiarle e nel tradurle [ndG: solo per ricordare le mie versioni di Greco, perigliosi viaggi che partivano senza una rotta e terminavano in un punto creativamente diverso da quello in cui Senofonte o Tucidide aveva intenzione di portarmi; o, più spesso, terminavano nel nulla, risucchiate da gorghi abissali che non mi avrebbero mai fatto rinunziare a una partita di calcio in tv per scoprire cosa fosse mai un ottativo], mai nessuno dedicò così larga parte del proprio tempo e delle proprie energie alla diffusione e alla salvaguardia della cultura classica ad esse legata.
Di origini calabresi, trasferitasi nell’estremo nord per studio e per lavoro, la professoressa Fiorello corre talvolta col pensiero alla patria lontana, ch’ella non chiama mai sud Italia, bensì Magna Grecia [ndG: come tutti i terroni, d’altronde]. La sua massima manifestazione d’affetto consiste nel tramandare al prossimo parte dell’eredità culturale acquisita con anni di sudati sacrifici, durante i quali la professoressa Fiorello si è consumata i polpastrelli componendo tesi, trattati, articoli e volumi intorno alle figure di Pericle, Tucidide, Cicerone e Seneca.
Come il Machiavelli, ogni sera questa donna straordinaria si immerge nel suo studio, coperta con una sontuosa vestaglia, cercando la compagnia e il conforto dei grandi classici [ndG: Disney?]; e preferirebbe, in caso di incendio, bruciare in mezzo a tutte le sue carte, piuttosto che condurre una vita misera e infelice senza di esse, come ogni buon capitano di marina desidera colare a picco con la nave, qualora essa affondi. A suo parere, infatti, la specie umana avrebbe potuto tranquillamente estinguersi appena prima del medioevo, età sciagurata [ndG: che dura tuttora] in cui il latino perse la sua meravigliosa purezza e andò a mischiarsi con quelle barbare lingue germaniche e anglosassoni che tanto le disgusta sentir pronunciare oggidì. Se ammette, o per meglio dire tollera, l’idea che possano essere esistiti grandi letterati anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la professoressa Fiorello considera però degni della sua attenzione solo quegli autori che fanno uso di un volgare italiano il più possibile simile alla lingua latina [ndG: di’ la verità, Silvia G, fra questi pochi ci sei tu?]. Perciò i suoi studenti, che lei ama teneramente e che quindi tortura con impensabili pretese contenutistiche e puntigliosissime regole grammaticali, sono costretti a studiare le letterature latina e greca non su comuni libri di testo, bensì sopra enormi e antichissimi saggi, opera dei più grandi studiosi della materia. Ed è una fortuna che questi grandi studiosi, vissuti in un passato remoto, si siano ormai estinti da tempo, perché più di uno studente della professoressa Fiorello, in un delirio di disperazione, ha minacciato sanguinose vendette contro di loro, a causa del linguaggio pressoché incomprensibile che li caratterizza, e delle frasi prolisse e articolatissime che riempiono le pagine dei loro scritti.
Capita spesso di incontrare la professoressa Fiorello in giro per i corridoi [ndG: sempre in vestaglia?], intenta a trasferire da una classe all’altra svariate copie dei suoi amati “testi scolastici”, curva sotto il loro peso e oppressa dalla loro mole; non è raro che qualche giovanotto suo studente, un po’ per dare buona impressione, un po’ per autentica compassione, si offra di aiutare la povera donna (che va ormai per i cinquantatré [ndG: Silva G, Silvia G, prima di scrivere parentesi così cattive pensa che anche tu fra trentacinque anni avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti a spostare libri inutili]) nel trasporto di tutti quei volumi, ma ella non acconsente mai, perché ritiene che quello sforzo e quella sofferenza siano sacrifici indispensabili, e che l’estremo gesto non faccia che nobilitare ed elevare i suoi sentimenti d’amore sincero per la classicità. Ragion per cui la docente ha sviluppato con gli anni una notevole forma di cifosi.
La professoressa Fiorello, la quale afferma di non essere mai stata sposata, tuttavia possiede un figlio, un ottimo ragazzo sui venticinque anni, che però rappresenta il principale dei suoi tormenti, avendo egli scelto di specializzarsi, finito il liceo, in quella branchia dello scibile umano [ndG: presumibilmente “branca dello scibile” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto nuovamente per la lectio difficilior; tanto più che, trattandosi di sapere scientifico, è presumibile che Silvia G abbia voluto inserire un sagace ammicco al celebre “organo respiratorio, filamentoso o lamellare, ricco di vasi sanguigni di solito situato ai lati della testa di pesci e altri animali acquatici”, stando a quanto riporta nel suo dizionario Tullio De Mauro, noto comunista all’asciutto d’Italiano] che sono le scienze naturali, rinunciando alle lettere classiche. Capita spesso che la povera donna si lagni e si disperi coi suoi stessi alunni di questa terribile sciagura, affermando con la voce rotta dal pianto che mai si sarebbe aspettata una tale presa di posizione da parte del figliolo, avendolo ella introdotto sin dalla più tenera infanzia agli studi umanistici, alla poesia di Omero, all’epicureismo lucreziano, all’esametro, al giambo e al distico elegiaco, e avendogli insegnato prima il paradigma di fero che ad andare in bicicletta [ndG: non ho mai imparato nessuna delle due faccende, io]. Come il ragazzo possa aver maturato negli anni una repulsione per la classicità tale da spingerlo ad iscriversi a scienze naturali rimane, per la Fiorello, il più impenetrabile mistero.
Nel tentativo di sopire il grande dolore che il figlio le ha dato, la professoressa tenta in ogni modo di rifarsi su coloro che considera la sua seconda famiglia, gli studenti appunto, e di persuaderli a portare avanti la nobile causa delle lingue morte:
“Non disprezzate il passato, signori! Il latino, il greco sono genitori della vostra lingua madre, sono antenati dell’italiano, e noi dovremmo dimostrarci degni rappresentanti del connubio tra l’indubbia superiorità della civiltà romana [ndG: rispetto, ad esempio, alla civiltà brianzola?] e la meravigliosa cultura dei greci antichi. Dare scorrette interpretazioni dei testi corrisponde ad una mancanza di rispetto nei confronti dei vostri stessi nonni! Ma cosa possono capire queste giovani generazioni? Cosa ne sapete del rispetto che noi tutti dobbiamo ai grandi classici? O tempora, o mores!”
Inutile dire che, almeno in Terzaddì, i semi del suo lavoro non hanno affatto attecchito, e la sezione rimane quella con le medie più basse della scuola sia in latino che in greco, con gran disperazione della povera professoressa Fiorello [ndG: Si noti come Silvia G ha il pregio, ormai rarissimo a trovarsi fra gli italiani d’età inferiore ai trentacinque, di chiamare i docenti per esteso, con tanto di suffisso femminile, e giammai prof, pro, pr, p] e, naturalmente, di tutti i [ndG: essendo suonata la campanella della ricreazione, il manoscritto si interrompe qui]
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