mercoledì 30 settembre 2009

Come catalogare Leopardi sotto la C

(Gurrado per Il Foglio)

La superiorità di una cultura si misura dal grado di reciprocità che riesce a imporre. Ad esempio qui è comune che al mattino venga offerta la scelta fra la tradizionale colazione inglese, uova e pancetta, e la sibaritica colazione continentale ossia cappuccino e cornetto. Poiché al contrario è molto raro che da noi si riesca a ottenere fagioli e porridge di prima mattina, deduciamo che la colazione continentale è superiore perché s’impone altrove e resiste in casa. Idem per il pallone. In Italia vengono trasmesse tutte le partite della Premier League mentre la tv inglese ha mosso un embargo al calcio italiano esattamente dal momento in cui l’Inter ha iniziato a vincere scudetti a raffica: ognuno tragga le sue conclusioni.

Applichiamo questo criterio ai libri. Mentre la pressoché totalità della narrativa anglofona viene tradotta in Italiano entro breve, ogni tanto sentiamo qualche editore italiano che stappa spumante perché ha venduto i diritti per la traduzione inglese di un suo romanzo – è successo ad esempio a minimum fax con Giorgio Vasta. Poi però non di rado se ne perdono le tracce: cosa accade nel frattempo? Dove finiscono i libri italiani tradotti in inglese? Chi sono i nostri autori noti al lettore medio britannico, ovvero quali prodotti dell’editoria italiana possono verosimilmente finire in mani inglesi? Per scoprirlo ho utilizzato un metodo stocastico: mimetizzarmi fingendo di cercare nelle tre principali librerie di Oxford qualche bel romanzo italiano tradotto. Ne sono uscito in lacrime.

Tutte le grandi librerie inglesi hanno un bar all’interno, ergo non c’è metodo migliore per giudicare della qualità di una libreria che assaggiare il caffè che vende. Borders è un bazar americano e quindi convenzionato con Starbucks: fra una pagina e l’altra si può sorseggiare il dark chocolate mocha frappuccino, ragion per cui intuisco che sarà difficile scovare libri decenti. I titoli italiani presenti nella narrativa di Borders sono 37; primeggia Calvino con 12 titoli seguito da Valerio Massimo Manfredi con 6. Umberto Eco e Primo Levi hanno 4 titoli ciascuno, curiosamente entrambi con una doppia edizione: ovviamente The name of rose per il primo, stranamente The wrench o The monkey’s wrench – ossia La chiave a stella – per l’altro. Lusinghiera la presenza di due titoli di Elena Ferrante, forse perché non si sa chi sia. Le altre fugaci apparizioni, con un titolo ciascuno, sono di Niccolò Ammaniti, Giorgio Bassani, Luther Blissett e Simonetta Agnello Hornby, nonché dei classici Carlo Levi e Lampedusa. Ben nascosti ci sono anche First Execution di Domenico Starnone e Margherita Dolce Vita di Stefano Benni, entrambi tradotti dall’americana Europa Editions – la quale nel primo caso esagera e riporta endorsement tratti dal Manifesto e dalla Gazzetta del Mezzogiorno; nel secondo si limita all’autorevole avallo del “Nobel laureate” Dario Fo, del quale però Borders ha a disposizione solo Francis the holy jester. E basta.

Waterstone’s è la libreria istituzionale britannica, dislocata in tutti gli incroci fra tutte le strade principali di tutte le città decenti. Serve caffè Costa, sedicente miscela italica selezionata chicco per chicco – relata refero – da un pingue signore di nome Gino che se la ride dai manifesti pubblicitari. Da ciò confortato entro sicuro di trovare scaffali interi di solida narrativa patria ma presto concludo che sarebbe stato meglio se invece dei chicchi il signor Gino avesse scelto i libri. Non è che i titoli italiani sono solo 22, né che 8 di loro sono di Valerio Massimo Manfredi, né che ci sono 9 copie del suo Pharaoh, manco dovessero volantinarlo (per dire, di The name of rose ce ne sono solo 4). Non è nemmeno che riappare Baricco con tre titoli, tanti quanti Eco, né che gli altri rappresentanti dell’Italia sono Ammanniti, Bassani e Benni, stavolta con Timeskipper. È che da Waterstone’s abbondano i romanzi “italian style” arrivati dritti dall’America: scritti da falsi italiani come Laura Santoro, Domenica De Rosa o l’orrendo Nicky Pellegrino, raccontano un’Italia fasulla fatta di vecchiette vestite di nero, sposalizi che durano tre giorni e marciapiedi su cui si spara all’impazzata. E basta.

Da Blackwell’s è facile incontrare fior di professori oxoniani; è convenzionata con Caffè Nero, compagnia che si vanta di produrre il miglior espresso a nord di Milano e per di più lo fa servire da una graziosa cameriera di Mosciano Sant’Angelo. Entrando già mi figuro pile di narrativa d’élite, l’opera omnia di Sandro Veronesi, il meglio del meglio di Tommaso Pincio, l’edizione extralusso di Alcide Pierantozzi. Invece siamo alle solite e anche peggio, con 17 titoli: Calvino, Eco, Ammanniti, Baricco, Luther Blissett, tutta roba già vista altrove. Valerio Massimo Manfredi è ridotto a una solinga copia de The lost army. Scorgo tre sorprese: quattro copie di The father and the foreigner di Giancarlo De Cataldo, Coppi’s Angel di Ugo Riccarelli (Middlesex university press, nientemeno) e Fists di Pietro Grossi per i tipi della Pushkin Press, editore coi controfiocchi che traduce anche Stefan Zweig e Julien Gracq. Camilleri è confinato nelle crime stories, settore da tre lire che non ho preso in considerazione perché qui le leggono solo camionisti e avvocati. E basta.

Saturo di caffè non sempre encomiabile, esco dalla terza libreria confidando nella lunga gittata dei nostri classici imperituri. Poi mi ricordo all’improvviso che da Borders il volume “Canti, Leopardi” era catalogato in ordine alfabetico d’autore sotto la lettera C.

martedì 29 settembre 2009

Il maresciallo von Franzeskiner

Sabato sera nel corso del Tg1 delle 20 è stato trasmesso per errore un estratto di una puntata di Sereno Variabile eccezionalmente condotta non già da Osvaldo Bevilacqua ma da Dario Franceschini. Questi, vestito per l'occasione di una camicia a quadri grassi, ha raggiunto la sorgente del Po per ribadire l'inscindibilità dell'Italia e per scandire fissando dritto la telecamera che la Padania non e-si-ste.

Così facendo, il temporaneo sostituto di Osvaldo Bevilacqua (nonché di Bersani) è riuscito con mossa geniale a massimizzare il dissenso dalla sorgente del Po in giù, mettendosi subitaneamente dalla parte dell'oppressore antipatico e poco dilettevole, una specie di maresciallo Radetzky in gita di diporto. A ben guardare è evidente come la Lega sia l'unico partito di ispirazione sinceramente risorgimentale, considerata la sua passione per le camicie di un colore sgargiante, per un leader carismatico che una ne fa e cento ne pensa e per bandiere e lingue tanto locali quanto lo erano il tricolore e l'Italiano prima del 1861. Se fosse vissuto centocinquant'anni fa, il maresciallo von Franzeskiner non avrebbe mancato di convocare Rai Unen durante una passeggiata salutare e ribadire l'inscindibilità dell'impero Austro-Ungarico e scandire fissando dritto la telecamera che l'Italia è un'espres-sio-ne ge-o-gra-fi-ca.

D'altra parte come lo si può spiegare a lui, ultimo erede del generale von Gasperen, il celebre trentino imprestato all'Italia?

lunedì 28 settembre 2009

(D')Avanzi

A furia di leggere Repubblica, gli Inglesi si sono convinti che è sempre il caso di fare domande sconvenienti ai primi ministri. La convention laburista di Brighton (era Brighton? non mi ricordo e non ho voglia di controllare: fate finta che sia comunque Brighton, tanto che vi cambia?) è stata rovinata dall'improvvido intervento di Andrew Marr, noto conduttore della BBC.

Andrew Marr è noto al grande pubblico perché conduce l'Andrew Marr Show (esattamente come Maurizio Costanzo), una specie di Porta a Porta che va in onda la domenica alle 9 del mattino, quando tutta l'Inghilterra dorme ubriaca salvo appunto Andrew Marr e i politici che ospita. Per farvi un'idea di chi sia Andrew Marr non trovo di meglio che rivelarne l'imbarazzante somiglianza con - avete presente Quattro Matrimoni e un Funerale? No, non Hugh Grant. Quello che dice a Hugh Grant che una tizia non è più la sua fidanzata, e allora Hugh Grant gli fa: "Meno male, si scopava questo e quello", e allora lui gli rivela piuttosto esterrefatto che in realtà non è più la sua fidanzata dappoiché è diventata sua moglie. L'avete presente? Ecco, Andrew Marr somiglia a quello, due gocce d'acqua. (Ho addirittura trovato forza e voglia di andare a controllare la lista completa del cast di Quattro Matrimoni e un Funerale per scoprire se Andrew Marr ne facesse parte. La risposta è no. E nemmeno Maurizio Costanzo).

Insomma ieri Andrew Marr si alza e chiede al povero Gordon Brown, il quale già da tempo ha tutta una serie di suoi problemi sintetizzabili nel generale problema di essere Gordon Brown, dicevo si alza e gli chiede quali sono le sue reali condizioni di salute. Giuro, manco fosse D'Avanzo che ripete ogni giorno la decima domanda a Berlusconi. Pari pari. "Signor premier, quali sono le sue reali condizioni di salute?". Roba che, se qualcuno lo avesse chiesto a me, dopo avrebbe dovuto preoccuparsi seriamente delle sue, di condizioni di salute.

Ora a me Gordon Brown non sta simpatico affatto, per via di tutta una serie di fattori sintetizzabili nel generale fattore di essere Gordon Brown, però ieri m'ha fatto un po' pena vederlo rispondere affannosamente a una domanda che non andava posta, dicendo ciò che era già noto a parecchi e cioè che ha perduto la vista da un occhio a seguito di una partita a rugby. Una partita a rugby lontana, immagino ai tempi dell'università, e presumo tanto movimentata quanto quella inscenata dai Monty Python ne Il senso della vita. (Questo spiegherebbe inoltre il recondito motivo per cui Gordon Brown ricordi così tanto Terry Jones, l'unico Monty Python che non faceva ridere. Un altro problema, Gordon). 

Questa roba delle reali condizioni di salute secondo me è un espediente da mascalzoni, lo dico con tutto il rispetto per Andrew Marr e senza alcun rispetto per D'Avanzo. Io penso che con uno o due occhi si possa indifferentemente servire la Patria (magari meglio di come sta facendo Gordon Brown al momento, mais passons); e la si può servire anche senza occhi affatto come ha dimostrato il già ministro britannico David Blunkett (il quale fu poi costretto a dimettersi perché aveva fatto zozzerie con  un paio di belle signore che poteva tutt'al più immaginarsi). E qui lo so che voi volete una conclusione comica, una battutina sapida o una chiosa brillante; solo che non c'è niente da ridere perché se si inizia a sindacare l'operato di un premier in base alle sue reali condizioni di salute va a finire che un domani Andrew Marr possa essere licenziato dalla BBC per manifesta calvizie.

venerdì 25 settembre 2009

Quando il 15 è in ritardo

Il problema degli Inglesi è che vogliono strafare. I pullman, ad esempio. Uno si accontenterebbe che fossero funzionanti ma loro no, li vogliono anche emozionanti. Faccio un esempio.

Io abito di fronte a una fermata, solo che fra le mie finestre ed essa c'è un folto boschetto ragion per cui anche se facessi la piccola vedetta lombarda dalla finestra del cesso non riuscirei mai a vedere quando un pullman s'avvicina. (Parentesi filologica: e io avrei ben ragione di fare qui la piccola vedetta lombarda, nonostante di lombardo in vita mia ci siano solo sette anni fra le risaie, in quanto i lombardi sono gli Italiani per definizione medievale, ossia i Longobardi; infatti a Londra la celebre Lombard Street va tradotta non come Via dei Lombardi ma Via dei Longobardi, ossia Via degli Italiani: un po' di orgoglio patrio per favore). Di conseguenza ogni volta che devo andare al centro di Oxford, tutti i giorni purtroppo, sono costretto a fare la lotteria e scoprire di volta in volta quanto manca al primo pullman sulla lavagna luminosa appesa alla fermata.

Io cerco ovviamente di avere orari regolari. Anche i pullman tentano di avere orari regolari, ma non sempre coincidono. La regola è che ne passa uno ogni dodici minuti al massimo. Infatti stamattina sono arrivato quando la lavagna luminosa segnalava che al prossimo 15 mancavano diciotto minuti (in realtà era appena passato l'U5 il quale rispetto al 15 gode di due differenze decisive: è blu invece che rosso e invece di andare dalla periferia al centro fa il giro in tondo dalla periferia alla periferia restando sempre nella periferia; è un pullman estremamente utile a restare esattamente dove si è e va preso esclusivamente se non si ha bisogno di andare da nessuna parte).

Nei diciotto minuti di attesa sono passati quattro 15 nel senso opposto, di quelli che conducono i giustificabili fuggitivi dal centro di Oxford verso periferie sempre più lontane. Due sono addirittura passati insieme, forse portavano una comitiva di deportati. Del mio 15 invece nessuna notizia se non la lavagna luminosa che via via diminuiva l'ammontare dei minuti di attesa: sedici, tredici, otto, quattro, quattro, quattro.

Dovete sapere che a quattro minuti da casa mia dev'esserci un posto di blocco, devono esserci le sabbie mobili, dev'esserci un cancello spaziotemporale: fatto sta che quando mancano quattro minuti per l'arrivo del 15 il 15 evidentemente si ferma in attesa di farsi raggiungere dai pullman successivi.

La corsa impazza e la lavagna luminosa ne riporta la cronaca. Il 15 successivo, che doveva arrivare dodici minuti dopo il 15 fermo non si sa perché, da essere atteso un quarto d'ora dopo inizia a rosicchiare minuti e si avvicina: ne mancano tredici, ne mancano undici, ne mancano sei. Il secondo 15 va così veloce, mentre il primo 15 è ancora atteso fra quattro minuti, da avvicinarsi pericolosamente all'U5 che aveva iniziato il suo giro della morte periferica con sei minuti di vantaggio (sette di distacco dal primo quindici). L'autista del secondo 15 dev'essere un tipo gagliardo, nel giro di pochissimo tempo la lavagna luminosa informa che il suo pullman rosso è a due, no, a un solo minuto di distanza da quello blu. Lo affianca! Entrambi viaggiano adesso sullo stesso ritardo, tre minuti dal primo quindici, il quale resta atteso fra quattro minuti. Si accettano scommesse. Me li immagino uno di fianco all'altro intenti a prendersi a sportellate nel breve tratto coincidente dei loro itinerari - rettilineo il rosso, circolare il blu. I passeggeri si staranno facendo le boccacce. I controllori si staranno lanciando monetine. Quand'ecco la lavagna luminosa dà il suo verdetto inappellabile: nella lista dei pullman attesi il secondo 15 ha superato l'U5, ora gli manca un minuto contro i due dell'altro. Curiosamente resiste in testa il primo 15, pur sempre atteso fra quattro minuti. Il secondo 15 è sulla linea del traguardo, riesco a vederlo dalla mia fermata, allungo il braccio sinistro nel classico gesto dell'Inglese che chiede di salire - ma è vuoto. Riporta la scritta "fuori servizio". L'autista mi fa segno che il 15 successivo segue a ruota, essendo atteso fra quattro minuti.

Intanto alla fermata di fronte un giovanotto malmesso seduto su un bidone dell'immondizia ha lasciato passare indifferente i quattro 15 in senso opposto. Forse aspetta che qualcuno lo butti via.

giovedì 24 settembre 2009

Liceo Condillac

(Gurrado per Il Foglio)

Ricomincia la scuola e Fandango rimette in circolazione Beata ignoranza, l’instant book che nello scorso autunno Cosimo Argentina dedicò alla “scuola che resiste nell’era Gelmini” – almeno stando al richiamo in bell’evidenza sulla copertina, ché poi all’interno le cose suonano un po’ diverse. Premesso che Argentina non trarrà immortalità letteraria da questo suo pur ragionevole sfogo in guisa di enciclica (ma la trarrà dal suo ultimo romanzo Maschio adulto solitario, scommettiamo? appuntamento fra cent’anni e poi vediamo se non ho ragione), mi preme piuttosto sottolineare che il suo libretto dimostra implicitamente come buona parte dei problemi della scuola italiana dipenda dalla scelta dei nomi degli istituti.

Argentina ha iniziato a insegnare, precario, quando io facevo le elementari e gli alunni protestavano contro “Craxi boia – Falcucci la sua troia”; continua a farlo, sempre da precario, ora che ho appena finito di vedere cortei di universitari pavesi argomentare che “la Gelmini mangia i bambini”. Nei vent’anni intercorsi Argentina ha cambiato venti scuole; le ha rigorosamente elencate in Beata ignoranza e non una, non una mi sembra avere un nome degno. Sono intitolate a scrittori (Primo Levi, Gadda) e poeti (Parini, Carducci); scienziati (Maiorana, Fermi) e inventori (Da Vinci); sacerdoti del XVIII secolo (Cavalleri) e del XX (Milani); partigiane romagnole (Versari), vittime della shoah (Frank), addirittura sediziosi indiani (Gandhi); hanno nomi difficilmente interpretabili (Nuova Europa?) e sigle impossibili a decrittarsi (Isa? Pacle?). Sono dedicate a espressioni geografiche (Parco Nord) ma su venti non una è intitolata a un bravo professore o a un preside onesto. Poi allora è facile lamentarsi che al Ministero dell’Istruzione finisce sempre qualcuno che non ha fatto la gavetta in cattedra. È la stessa nomenclatura degli istituti a fugare la minima eventualità.

Ad esempio mi fa specie che in Italia non ci sia mezzo liceo intitolato a Condillac – almeno a quanto ne so: se qualcuno ci insegna o ci studia, me lo faccia sapere e riceverà la mia eterna gratitudine. Per secoli e secoli di Abbagnani, Étienne Bonnot de Condillac è sempre stato “quello della statua”, ficcato nel minuscolo paragrafo su sensisti e materialisti fianco a fianco col barone d’Holbach nelle cinque pagine sull’Illuminismo francese. Gli alunni preferirebbero magari apprendere che Condillac è stato il maggior innovatore dell’istruzione italiana negli ultimi trecento anni. Nel 1758 viene chiamato alla corte di Parma dal duca Filippo come precettore del duchino Ferdinando: questi ha sette anni ed esprime perplessità nel vedersi piombare addosso il rinomato autore del Trattato sui sistemi, del Trattato sulle sensazioni e del Trattato sugli animali. Nelle sue letterine dell’epoca rivendica veementemente che avrebbe preferito studiare di meno e giocare molto di più.

Invece Condillac si rivela il più grande maestro unico della storia. Man mano che insegna scrive uno sterminato sussidiario, il Cours d’études, a esclusivo uso del suo pupillo: parte dalla grammatica e illustra la formazione dei concetti; dall’osservazione di oggetti comuni trae complesse spiegazioni geometriche; fa leggere all’allievo la Bibbia e Voltaire; gli regala dodici volumi di storia universale che ancora oggi stupiscono per modernità d’approccio, tutti orientati verso l’applicazione delle conoscenze teoriche nella pratica del buongoverno.

Soprattutto, lungi dal lamentarsi della paga o del posto sempre soggetto ai capricci della corte, Condillac preferisce esprimere scetticismo per il proprio ruolo dimostrando di aver capito i mali di oggi già a metà Settecento: “a che servono le scuole, se ci si istruisce davvero solo da adulti?”; “le università sono vecchie e hanno tutti i difetti dell’età”; “si può presumere che i professori rinunceranno a ciò che credono di sapere per iniziare ad apprendere ciò che ignorano? riconosceranno che dalle loro lezioni non si impara un bel niente? no ma, come gli allievi, continueranno ad andare a scuola per eseguire il compitino”; “un professore meritevole presto si disgusta, vedendosi associare a grigi pedanti nel disprezzo generale; e, capendo quanto gli costerebbe riuscire a distinguersi, finisce per ritenerlo imprudente”.

Dieci anni dopo Condillac lascia Parma per l’Académie Française. Il duca Filippo ha diciassette anni, è un altro uomo; sarà un buon governatore e finirà vittima degli eccessi della Rivoluzione Francese e del Napoleonismo. Sicuramente non avrà mai dimenticato le ultime parole del Cours d’études, che oggi nessun professore direbbe forse a un alunno: “Ormai sta a voi, monseigneur, istruirvi da solo. Io vi ho preparato, vi ho abituato. Ora dovete decidere ciò che sarete un giorno; perché la migliore istruzione non la dobbiamo ai nostri precettori ma a noi stessi. Voi forse credete di avere finito; ma sono io, monseigneur, che ho finito: voi dovete ricominciare da capo”.

mercoledì 16 settembre 2009

Chiuso per Festival

Avendo ricevuto svariate richieste di informazioni al riguardo, ci tengo a precisare che non sono morto ma per una settimana buona sarà come se, almeno limitandoci al blog. Da domani sarò a Modena per il Festival Filosofia, che inizia venerd
ì mattina alle 9 e finisce domenica verso mezzanotte e dove potrete ammirarmi in tutto il mio splendore - parlerò addirittura in Italiano. Chi non viene è [ognuno si senta libero di aggiungere l'appellativo che ritiene più umiliante]. Dopo di che devo fare il giro della Padania per faccende che non sto nemmeno a raccontarvi, altrimenti esaurisco lo spazio a disposizione di internet che come tutti sanno è più o meno infinito. Ovviamente da quando vivo in Inghilterra nelle poche trasferte in Italia devo concentrare una quantità assurda di impegni. Valga come lista di cose da fare il geniale riassunto de I Miserabili che lessi nel 2004 su Il Sole 24 Ore: "Uscì di galera e sistemò una cosetta". 


Il blog riapre giovedì 24 settembre.

martedì 15 settembre 2009

Beatles for saldi

(Gurrado per Il Foglio)

Ho invece il fondato sospetto che, se stamattina mi intrufolassi nella composta fila di adolescenti davanti al principale negozio di dischi nella strada centrale di Oxford e chiedessi a qualcuno i nomi dei Beatles, avrei buone possibilità di sentirmi rispondere: “Paul, Ringo, Alex e Allan”. E resterei sorpreso, forse perché i miei Beatles si sono fermati pressappoco quindici anni fa, ai tempi della voluminosa Anthology in formato cd-video-libro, quando Harrison non era ancora morto e il vuoto lasciato da Lennon veniva coperto su nastro dalla sua stessa voce diffusa postuma.

E ho anche l’impressione che oggi gli adolescenti inglesi non intendano tanto fare razzia della rimasterizzazione dell’opera omnia, ripulita da Allan Rouse e temporaneamente data via al prezzo quasi popolare di dieci sterline a disco, quanto piuttosto di The Beatles Rock Band, videogioco inventato dalla Harmonix di Alex Rigopulos che costa il quadruplo. Sarà che ho passato l’età del karaoke ma resto scettico di fronte a un videogioco che mi consentirebbe di sostituire a turno le immagini stilizzate John, Paul, George o Ringo per poi venire giudicato con un punteggio che misura percentualmente quanto sono riuscito ad allinearmi al modello originale dell’esibizione: “bravo Gurrado, hai perfettamente ribattuto Love Me Do sulla replica plastificata in scala della batteria di Ringo e la tua prestazione è valutabile in un 98%”; oppure: “imbarazzante Gurrado, cantando I Am The Walrus sembravi appunto un tricheco, la tua prestazione non vale più di un 28%”.

I Beatles hanno segnato la mia adolescenza venticinque anni dopo essersi sciolti, quindi figuriamoci se non sono contento che a nuovi ragazzini vengano messi in mano strumenti innovativi per usufruire del loro genio e magari tentare di riprodurlo. Oddio, i miei amici più talentuosi tentavano di riprodurlo con strumenti veri e non con una consolle e chitarrine di plastica: forse i tempi sono irrimediabilmente cambiati. Però mi chiedo se questo B-day, quest’operazione Beatles for (re)sale abbia un effettivo valore storiografico.

I Beatles avevano due caratteristiche che li distinguevano dagli altri gruppi. La prima era uno snobismo quasi offensivo con conseguente fuga dal pubblico, che Lennon odiava particolarmente. Quando esordirono nei night di Amburgo lui dava dei nazisti agli ascoltatori. Alla Royal Albert Hall invitò il pubblico upperclass a portare il tempo facendo tintinnare i gioielli. Fu il grande motore della scelta di smettere di dare concerti dal vivo, nel 1966, dichiarando che i loro fan si sarebbero accontentati di strillare istericamente di fronte a quattro manichini di cera. Durante le ultime esibizioni si sforzava di suonare malissimo e raggiunse il culmine nel loro concerto più mastodontico, quello allo Shea Stadium. Pestò sulla pianola coi gomiti, produsse note a caso, stonò a ripetizione. In quella circostanza il videogioco di Alex Rigopulos gli avrebbe assegnato una valutazione intorno al 15%. Quanto gli piacerebbe oggi l’idea che uno qualsiasi dei suoi fan possa sostituirsi a lui – anzi, alla versione tecnologica del suo manichino di cera – e magari suonare meglio?

La seconda era un’estenuante ricerca dell’imperfezione acustica. Il loro primo LP venne registrato in tredici ore filate, tanto che alla fine la voce di Lennon venne meno nel bel mezzo di Twist and Shout. La leggenda vuole che appena finito di registrare Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band ne offrissero un’anteprima londinese in bassa, bassissima definizione accostando le casse acustiche alle finestre della casa di una zia di Ringo Starr. Nei loro anni di studio incisero ed eternarono nelle loro canzoni una ridda di colpi di tosse, frasi smozzicate, rumori accidentali. La loro ultima esibizione dal vivo si tenne sul terrazzo della EMI e la gente sul marciapiede di sotto riusciva a sentirli meno bene di quanto riuscisse a vederli.

In tutti questi casi i Beatles hanno sempre chiesto al pubblico uno sforzo per riuscire a scorgere la loro musica fra i rumori, che finivano per venire inclusi nel loro sound pur restandone estranei – come il nocciolo è necessario al completamento di una pesca anche se non si mangia. Senza contare che per chi li ha scoperti ai tempi del vinile i Beatles gracchiano, per chi li ha conosciti quando andavano di moda le audiocassette i Beatles scrosciano. Quindi qualcosa non mi torna nella frase di Allan Rouse appena riportata dall’Observer Music Monthly: “vogliamo far suonare i Beatles as good as they can, quanto meglio possono”.

I Beatles hanno incarnato per decenni il talento nell’imperfezione. Scegliere di far allineare i loro fan a una performance ideale esprimibile percentualmente o, peggio ancora, intervenire sui reperti del loro genio e della nostra memoria per migliorarne l’acustica e la fruibilità mi sembra ragionevole come l’idea che l’emmenthal sarebbe più buono senza buchi.

lunedì 14 settembre 2009

Leggere nuoce all'ambiente

(Gurrado per Il Foglio)

Ultime notizie: i libri inquinano. A parità di contenuti un volume cartaceo nuoce all’ambiente 78 volte di più del suo omologo in formato iBook, stando a una ricerca compiuta nel 2003 da un lunatico americano e che in Inghilterra è stata del tutto ignorata fino alla settimana scorsa. Per un caso fortuito l’hanno ripescata esattamente nei giorni in cui infuria il dibattito sull’istituzione della superbiblioteca virtuale Google Books, capace in teoria di contenere ogni volume stampato sulla faccia della terra e in pratica di sfaldare l’oggetto-libro squacquerandolo in infinite copie disponibili ovunque ma di fatto inesistenti.

Mezzo milione dei libri finora scannerizzati (scansiti? scannati?) da Google proviene dalla Bodleian Library, biblioteca centrale dell’università di Oxford che col tempo ha preso il sopravvento e di fatto coordina tutte le altre, che siano delle varie facoltà o dei college. Sarah E. Thomas, la nuova direttrice della Bodleian chiamata appositamente dal Massachusets, ha prodotto un piano di sviluppo a breve termine che culmina in questo finale travolgente: “Google, digitisation and e-resources”. Nella propria pagina web la Thomas ci tiene a specificare che la quasi totalità dei volumi digitalizzati risale al Settecento e all’Ottocento, ma è facile prevedere l’andazzo generale.

Lo conferma quanto recita il secolare giuramento bodleiano, oggi ricopiato su ogni postazione delle sale di lettura e perfino acquistabile in formato-asciugamano: “M’impegno solennemente a non trafugare dalla biblioteca, a non sottolineare, a non danneggiare, etc., alcun tipo di volume; e a non introdurre nella biblioteca alcun tipo di fuoco o fiamma, etc.”. Ancor oggi ogni volta che entro o esco nella Bodleian la mia borsa viene superficialmente perquisita dall’usciere. Quando esco posso capire: vuole evitare che io mi porti distrattamente a casa l’Hypnerotomachia Poliphili. Ma all’entrata? Si accerta che nella mia borsa non si celi una fiaccola o un archibugio? Per quanto il giuramento non proibisca di inghiottire i volumi né di impiccare i bibliotecari, è plausibile che la tradizionale considerazione dei lettori quale costante minaccia per le biblioteche porti alla progressiva sottrazione dei libri dalle loro zampe, travestita da diffusione universale dei loro omologhi virtuali: fino a ottenere il risultato ideale che tutti possano usufruire della biblioteca stando fermi a casa propria, con o senza fuoco e fiamme.

Io studio l’Illuminismo quindi ammetto che mi torna comodo poter cercare una citazione da, che so, il Recueil Nécessaire stampato ad Amsterdam nel 1768 senza dover muovere le mie pregiate terga dalla scrivania dell’ufficio. Infatti ho causato degli svenimenti quando mi sono presentato alla biblioteca di lingue e letterature straniere chiedendo imperiosamente di portarmi il volume consultabile online. Al bancone dei prestiti non ci si capacitava del fatto che uno potesse lasciarsi andare a simili eccessi, ovvero dover camminare invece di star seduto e voler toccare ciò che potrebbe limitarsi a guardare. Senza calcolare, presumo, l’impatto ambientale della smania di aprire un libro che inquina 78 volte di più del suo omologo virtuale.

Per avere ragione ho dovuto brandire la tessera magica di cui sono stato dotato, che reca scritto “University staff” e mi consente di transitare gratuitamente sui prati dei college, quindi figuriamoci far apparire un libro raro. Mentre una stagista viene mandata a recuperarlo dal caveau, cerco di spiegare il problema ai bibliotecari senior: lo stampatore del Recueil, Marc-Michel Rey, ha concepito il suo prodotto come volume e non come online resource. Doveva circolare di mano in mano e non di occhio in occhio. Per fare un lavoro che garantisca la filologia minima è bene che io guardi il volume come un oggetto tridimensionale per capire com’è stato materialmente composto. Trattandosi di un Recueil non è neanche peregrino immaginare che raccolga sotto un’unica rilegatura più o meno raffazzonata pezzi di libri diversi, magari clandestini. Indubbiamente potrei compulsare ogni singola pagina virtuale della versione online per scoprire eventuali discrepanze grafiche ma così, oltre a rovinarmi gli occhi 78 volte di più che col suo omologo cartaceo, non capirei la qualità della carta né il suo effettivo stato di conservazione. Non si può ridurre un libro a ciò che c’è scritto dentro.

Al giorno d’oggi Marc-Michel Rey si trova in avanzato stato di decomposizione, essendo morto nel 1780. Quando ha stampato e rilegato il Recueil Nécessaire intendeva produrre qualcosa che gli sopravvivesse e costringesse la gente a spostarsi fino a Oxford o a Parigi o dove necessario per poter prendere in mano il risultato della sua perizia tecnica, del suo sudore e della sua pazienza. Non voleva finire su internet, voleva che duecentocinquant’anni dopo le mie mani toccassero le sue.

domenica 13 settembre 2009

La moglie di Lippi, le mogli di Capello e il Pippero disvelato

(Gurrado per Quasi Rete)

Nessuno sano di mente che segua il calcio inglese quest’anno può rifiutarsi di tifare per il Manchester City, a meno che il suo nuovo pecunioso e oleoso emiro proprietario non decida di rivoltare le sorprendenti vittorie dei celestini a maggior gloria di Allah. Che poi le vittorie siano sorprendenti fino a un certo punto per una squadra che quest’estate ha comprato Adebayor e Tévez con gli ultimi petrolspiccioli che le restavano è fuori discussione; ma ammetterete che un 4-2 sull’Arsenal come quello di ieri pomeriggio avrebbe fatto gola a molte squadre che in passato hanno speso e speso senza mai cavare mezzo ragno dal buco (chiedete a un tale petroliere Moratti, il quale notoriamente perdeva perché la Juventus rubava anche quando lo scudetto lo vincevano la Roma o il Milan).

Le quattro vittorie su quattro del Manchester City, che gli negano il primo posto in classifica solo per via di una gara in meno, fanno tirare un sospirone a chiunque come me credeva che la Premier League sarebbe rimasta faccenda per le quattro grandi squadre da qui all’eternità; anzi, considerati i risultati dell’Arsenal nell’ultimo paio d’anni, diciamo per le tre grandi e mezza. Ieri ad esempio è rotolata la testa del Tottenham, altra compagine che finora s’era difesa gran bene vincendole tutte a fronte di un campionato scandaloso come quello scorso (sarà contento Andrea Aloi, l’ex direttore del Guerin Sportivo, che non ha mai fatto mistero della sua fede d’oltremanica). Il Manchester United ha vinto con ampio margine, 1-3 che alfine risulta perfino piuttosto tirchio, sul venerabile terreno di White Hart Lane: e per quanto non abbia segnato il più decisivo in campo è risultato Dimitar Berbatov, ciò che dovrebbe far ricredere i sostenitori dell’incommensurabile ritardo accumulato dalla Serie A rispetto ai Granbritannici.

Ora, in tempi non sospetti Elio e le Storie Tese stornellavano: “Evviva l’Italia evviva la Bulgaria, che ci ha fatto dono del Pippero”. E chi è questo Pippero, eroe eponimo del ballo che lo omaggiava unendo le dita e ruotando le falangi? Mercoledì scorso, per subitanea illuminazione, l’ho capito io: Dimitar Berbatov appunto, che si aggirava per l’Olimpico di Torino tentando tiri più grandi di lui ma ricusando nobilmente gli appoggi semplici, ignorando i compagni di squadra se non al momento di mandarli affanplodviv, sputacchiando qua e là, ripassandosi le mani nel caschetto unto e visibilmente rimpiangendo di essere nato bulgaro. Punta avanzata di una nazionale di incapaci, denunziavano gli sguardi da salice piangente che ogni tanto lanciava alla telecamera; incapace sarai tu, bulgaro d’un Pippero, che invece di fingere di giocare a calcio dovresti studiarti un po’ di storia. Impara dalla tua nazionale che ai Mondiali del 1966 finì in un girone impossibile e le prese da Brasile, Ungheria e Portogallo in stretto ordine cronologico, ma almeno alla fase finale c’era arrivata estromettendo il Belgio. Impara della tua nazionale che inchiodò sul pareggio sopraelevato gli azzurri campioni del mondo all’inaugurazione di Mexico ’86. Impara della tua nazionale che in America fu presa per mano da Hristo Stoichkov e portata fino alle semifinali dove si arrese al codino apostata di Roberto Baggio nonostante la strenua opposizione di Sacchi, l’Arrigo Furioso dei tempi andati? Altro che incapaci quelli; saresti capace di farlo tu? Con Stoichkov sembrarono campioni anche Trifon Ivanov dalla palpebra perpetuamente a mezz’asta e Yordan “Famiglia Addams” Lechkov, quello con la faccia di Lerch innestata sul cranio dello Zio Fester. Se Berbatov è decisivo in Premier League, la distanza tecnica della Serie A non può essere così distante: in fin dei conti noi abbiamo Eto’o e Langella che funzionano entrambi meglio.

Invece si riempiono la bocca, loro, i Granbritannici: e una volta scoperto che si sono qualificati al Mondiale grazie al decisivo apporto di un tecnico italiano non digeriscono che costui fosse il medesimo che tempo addietro lasciò che Peter Shilton carponasse inutilmente alla rincorsa della palla del primo successo maccarone sul sacro suolo di Wembley (altri ne verranno). Allora s’inventano, come Barbara Ellen sull’Observer di oggi, che don Fabio è un maschilista perché ha gentilmente richiesto alle Wags di restare a calzetta per tutto il tempo del Mondiale, ché la trasferta in Sudafrica sarà lavoro e non gita di piacere. Negli stessi giorni, su Facebook, gli Italiani hanno fatto circolate illazioni sulla frequentazione fra il giovine Cassano e la signora Lippi dalle quali mi dissocio e che non mi sembrano degne di una nazione evoluta come la nostra, almeno calcisticamente.

Come il miglior Churchill, si parva licet, mi sembra che Capello si sia limitato a promettere sangue, sudore, lacrime e calci d’angolo. Invece a Barbara Ellen pare che l’ostracismo nei confronti delle Wags – per chi non masticasse acronimi, Wives And GirlfriendS, mogli e fidanzate – sia il sintomo del maschilismo italico: rivendica infatti che gli Inglesi abbiano perso lo scorso Mondiale non per i troppi servigi resi dalle proprie dame o perché Beckham giocasse indossando le mutande della moglie, macché; bensì per manifesta incapacità da calciatori (Gerrard? Lampard? Terry? la nazionale più forte degli ultimi quarant’anni?), per manifesta incapacità da Inglesi (che popolo masochista) e per manifesta capacità da maschi (perché dovete sapere che in Inghilterra il femminismo è dittatura; ieri il Guardian ospitava un’intervista alla scrittrice che questa settimana vincerà il Booker Prize ma della quale ciò nondimeno non ricordo il nome già ora, e dichiarava giuliva che “a chi non è femminista manca il cervello” – si potrebbe ribadirle che a chi è troppo femminista manca avec toute évidence qualcos’altro, ma sorvoliamo).

D’altra parte lo dice Matteo 7, 18 che un albero cattivo non può fare frutti buoni; e infatti poche pagine dopo lo stesso Observer ospita un resoconto accuratamente offensivo nei confronti di Mike Bongiorno. Il responsabile, caso mai voleste infilargli uno stecchino nel citofono alle due di notte, si chiama John Hooper. La mezza pagina consiste in un enorme foto di Berlusconi che parla di fronte alla bara davanti a Fiorello, Fabio Fazio, Alba Parietti e gli stendardi della Juventus e della Scuola di sci del Cervino. Molto più piccola, una foto di Mike Bongiorno evidentemente fuori scena con il Gabibbo, una bonazza in bikini e un’altra tale vestita da robot. L’argomentazione dell’articolo era che gli Italiani sono un popolo di teledipendenti rintontiti visto che consentono i funerali di Stato per qualcuno che non è morto in una disgrazia o da eroe – il raffronto citato è Nicola Calipari – ma che era stato il principale presentatore delle reti di Berlusconi.

Non ci credete? Nemmeno io, ho dovuto rileggerlo tre volte. C’è scritto: “Only perhaps in Berlusconi’s Videocracy could a state funeral be accorded to a TV quizmaster”. Non traduco perché se no mi viene da prendere a pedate il quotidiano e non è una maniera santa di passare la domenica. E giuro, non è che stavolta sia in questione Berlusconi o il fatto che per John Hooper il funerale di Mike Bongiorno sia un’arma di distrazione di massa per stornare lo sguardo dalla querelle con Fini – il quale, intanto, con le sue ultime sortite ha guadagnato la fiducia della stampa internazionale: prima era nudo e crudo the post-fascist speaker at the lower house, il presidente della Camera bassa, ora è stato promosso al rango di “post-fascist” speaker at the lower house con le virgolette, che è tutt’altra cosa.

Altrove ho spiegato che Mike Bongiorno non è un personaggio televisivo ma l’ultimo eroe risorgimentale, colui che ha concluso a livello cultural-popolare l’Unità d’Italia fatta geograficamente da Garibaldi e linguisticamente dalla Prima Guerra Mondiale. Sperare che i Granbritannici lo capiscano sarebbe troppa grazia. Da Italiano all’estero desidererei soltanto che gli Italiani capiscano loro che quando da queste parti si colpisce Berlusconi non lo si fa perché è lui ma perché per antico pregiudizio si vuole svilire tutto ciò che sia tricolore, bello o brutto che sia: sul Guardian a luglio Alexander Chancellor auspicava un nuovo terremoto a L’Aquila durante il G8, a settembre Tanya Gold si augurava che Cacciari annegasse con tutta Venezia. Mike Bongiorno per noi è il rimpianto di un’Italia migliore, capace di essere unita indipendentemente da Berlusconi o dalla Juventus (o da Alba Parietti); per i Granbritannici è solo un’altra tacca sul fucile in un’interminabile faida razzista. Se non lo capiamo facciamo la fine di Berbatov: qui siamo ancora ai tempi di Chinaglia, all’armi!

giovedì 10 settembre 2009

Chiacchiere vacanti: Michela Murgia

(Gurrado per Books Brothers)

Gurrado
: Ho qui sulla scrivania (be', sul tavolo del salotto) la mia copia di Accabadora, che poi è la tua in quanto me l'avevi spedita con dedica rallegrando il mio soggiorno inglese. Poiché non ho fissa dimora e ho dovuto darti l'indirizzo del lavoro, Accabadora mi è stato portato da una collega direttamente nel mio angolo di ufficio, il che ha reso l'omaggio ancora più gradito: visto il contesto straniero, ho reagito percependo istintivamente Accabadora come romanzo italiano e come tale ho preso a leggerlo (beninteso, una volta uscito dall'ufficio) mentre forse tu volevi che venisse percepito come romanzo sardo in contesto italiano. Lo fai pure dire a Maria a pagina 24: "Non è vero che è in Italia, siamo staccati! L'ho visto sulla cartina". Dici che sono partito da una prospettiva sbagliata?

Murgia: Se il punto di partenza è scovarci ambizioni etniche, allora sì, è di sicuro la prospettiva sbagliata. Ma siccome spesso da punti di partenza falsi si arriva in luoghi insospettabilmente ameni, la tengo buona e replico che Accabadora per tutto il tempo della sua stesura è appartenuto a me, che indubbiamente appartengo alla Sardegna, che però appartiene al mare. Quindi questo libro è un libro marino, anche se il mare ci compare solo nel sogno in cui Nicola teme di morirci dentro. Come in tutte le identità, del resto.

G: E infatti nello stesso punto della stessa pagina Maria spiega che la Sardegna è staccata perché "c'è il mare", dunque tutto torna. Questo mi conferma l'impressione che in Accabadora tu abbia pesato ogni singola parola, magari a costo di apparire se non forzata quanto meno molto discosta dalla tipologia di prosa - più fluida e scanzonata - alla quale sono abituati i tuoi lettori più fedeli. Un romanzo marino o marittimo, dunque: interessante definizione che m'era sfuggita dal novero delle possibili. Senza scomodare Moby Dick che è di tutt'altre latitudini e tempi, mi viene in mente un solo romanzo di mare però grande e grandissimo: Horcynus Orca di Stefano d'Arrigo. Ma forse sto di nuovo sbagliando prospettiva, e farei meglio a cambiar mestiere.

M: Demone, non mi farai cadere nella trappola di giocare a "trova la differenza" con Horcynus Orca, sapendo che morirei schiacciata dalla mia pochezza alla terza riga di sinossi. Certo, anche se non me la sono raffinata per vent'anni come D'Arrigo, indubbiamente la prosa di Accabadora è molto diversa da quella mia che l'ha preceduta, ma questo dipende dal fatto che non ne è l'evoluzione. Ho la fortuna di possedere più registri, e certo questa storia non poteva essere raccontata con il linguaggio spurio de Il mondo deve sapere, che comunque, checché ne dicano i miei editori, non ho mai considerato un esordio letterario. La scelta della lingua era determinante per più motivi; gli scrittori sardi hanno un handicap di partenza notevole nelle aspettative di esotico di una certa fascia di lettori. Io non sono minimamente interessata ad intercettare quelle, e volevo si capisse.

G: Bene, dunque sintetizzando potremmo dire che il tuo target non è Briatore – e tu sai quanto mi costi un’affermazione del genere nei confronti di colui che considero il mio ideale modello di uomo. Ma invece di coinvolgerti in animate discussioni su eventuali biondone vorrei parlarti del ministro Brunetta: sai che quando, qualche settimana fa, ha lamentato la glorificazione letteraria e cinematografica del precario ho pensato a te? Nota che avrei potuto anche pensare ad Aldo Nove, Mi chiamo Roberta ho quarant’anni e guadagno 250 euro al mese, o a Mario Desiati, Vita precaria e amore eterno. Insomma, mi ero detto, se il secondo romanzo di Michela parlasse ancora del mondo del lavoro, avremmo una romanziera prigioniera dei suoi lettori e soprattutto dei suoi recensori.

M: Con questa citazione Brunetta mi si conferma primatista italiano di occasioni perse per tacere. Sono convinta che dei costi umani e sociali della precarietà non si sia invece parlato abbastanza. Non nego che qualche furbetteria editoriale appresso al trend ci sia stata, ma è difficile identificarla proprio nell'unico libro sul tema che era una testimonianza diretta. Dopo Il mondo deve sapere non ho mai smesso di avere attenzione sociale per la questione, anche continuando a scriverne, ma il rammarico è che il parlarne, anziché condurre al dibattito pubblico, sembra aver legittimato il precario come nuova categoria dello spirito, più che come condizione sociale da contrastare. Se pensi che l'indimenticato Padoa Schioppa dei "bamboccioni" a suo tempo si definì precario anche lui, tanto per dire che le minchiate non distinguono tra destra e sinistra...

G: Io sono invece per una letteratura più disimpegnata, disancorata, anzi disarcionata dalla facile tigre dell'attualità. Non so se fosse il retropensiero del ministro Brunetta, ma ho notato che molta letteratura italiana patisce la sindrome dei lupini, come i Malavoglia: perde un'occasione di fare della letteratura alta - senza data di scadenza - per concentrarsi sulla contabilità spiccia e immediata. Eppure basterebbe studiare la storia della letteratura, beninteso senza esagerare: i libri che restano nei secoli (ma anche negli anni) sono quelli che non hanno la loro ragion d'essere nel tempo corrente. Un romanzo contro Berlusconi (o in sua lode) poco verosimilmente gli sopravviverà. Uno sul lento scorrere del tempo in una singola giornata, come l'Ulisse, non perde d'attualità a 105 anni dalla sua ambientazione. Quando leggo la nuova narrativa italiana - intendo dopo il secondo dopoguerra - come lettore e autore in divenire mi sento scoraggiato dalla pavidità di quasi tutti gli scrittori, che sembrano cercare apposta di non scrivere per durare.

M: Credo che il fatto che in alcune penne italiane ci sia l'angoscia di descrivere l'attimo fuggente non possa essere contrapposto in linea di principio alla questione della letteratura che sopravvive. Dal Vangelo a Gente di Dublino, passando per Anna Karenina fino al Pasticciaccio gaddiano, ci sono biblioteche intere a dimostrare storie che, pur fotografando cronologicamente un frammento del loro presente, offrono chiavi più che valide anche al nostro. È lo sguardo di chi narra che fa la differenza, e in Italia in questo momento la prospettiva autoriale più in voga è quella sancita da New Italian Epic, di cui Gomorra è archetipo e sintesi. Ho la sensazione che il tempo attuale sia talmente privo di contorni, percepito come breve, che l'ansia di starlo attraversando senza traccia spinga a porsi nella narrazione in modo collaterale, come testimoni non tanto dei fatti, ma dell'averli veduti. È come se fossimo incastrati nella parte alta della clessidra nel tentativo disperato di arrestare la discesa dell'ultimo filo di sabbia, con le mani, con i piedi e anche con la parole. Non c'è bisogno di dirti che Accabadora non è per nulla in questa scia, ma non escludo di esserlo io.

G: Perché, vogliamo parlare dell’Italia De Profundis di Giuseppe Genna? No, non parliamone. Io però non mi trattengo al sentirti nominare Gomorra - che qui hanno tradotto Gomorrah con la mutina in coda, come Deborah. Io non l'ho nemmeno letto perché è come la marmite, un barattolo di cibo inglese che puzza da così distante che non c'è bisogno d'assaggiarlo; l'ho sfogliato in libreria vedendo che era scritto come un reportage di Repubblica e non l'ho comprato perché mi sembrava un'operazione di sciacallaggio fatta non tanto dalla Mondadori, che per carità ha fatto il proprio mestiere ed è stata brillante nell'operazione, quanto da Saviano in persona che non solo s'è autoeletto a martire, e vabbe', ma che ha fatto passare scientemente l'idea criminale che i metri di giudizio per la grandezza di uno scrittore fossero la sua vocazione a un martirio più o meno preconfezionato, la quantità di minacce che riceve e il numero di agenti di scorta dei quali mette a repentaglio l'esistenza. Te lo dico io che mi son preso del camorrista solo perché un annetto fa avevo previsto che Saviano, da scrittore posticcio, sarebbe finito esule nella gabbia tematica che s'è costruito da solo, non scrivendo mai più niente di nuovo e continuando a sfornare libri-inchiesta a ripetizione come un incrocio fra Gutenberg e Sandro Ruotolo. E infatti l'altro giorno leggo sul sito del Corriere scritto enorme che esce il nuovo libro di Saviano, e in piccolo che esso libro raccoglie inchieste e articoli equamente ripartiti fra vecchi e vecchissimi. Come si fa a dire che è uno scrittore, un romanziere? Non scrive, non romanza. Per non dirti che nella stessa circostanza Saviano, in quanto scrittore nazionale, rilascia un'intervista al Corriere annunciando che ha intenzione di sposarsi come vendetta, rivalsa, ripicca nei confronti di non ho ben capito cosa, presumo la camorra. Ecco, mi sono arrabbiato, lo sapevo. Tu, in quanto scrittrice di cose isolane e precarie, hai annunciato il tuo matrimonio sul Manifesto oppure sull'Unione Sarda?

M: Adoro questo tuo personalissimo modo di essere tranchant, ma su Gomorra la vedo in modo diverso. La domanda non è se sia e o no letteratura - per quel che vale, io sono convinta di sì - ma che cosa intercetti, perché la questione letteraria è sempre una questione di rappresentazione (nel caso di Saviano, anche di autorappresentazione). Ne parlammo a suo tempo a proposito della mia lettura di Travaglio come Capro Nobilitatorio, delegato a mettere in scena l'indignazione collettiva. Anche Saviano per certi versi ha ricevuto un mandato, e il numero impressionante di copie che continua a vendere a distanza di tre anni prova che non è più solo una storia da leggere; al suo acquisto probabilmente non segue nemmeno la lettura, piuttosto ha assunto valore rappresentativo, e a questo non è estraneo il fatto che l'oggetto-storia e il suo autore si siano nel frattempo sovrapposti. Comprare Gomorra oggi è liturgia pura, vuol dire associarsi simbolicamente a Saviano Martire del Coraggio e della Denuncia, e la cosa che mi sconcerta è che probabilmente gli officianti sono gli stessi (troppi per essere diversi) che al cinema celebrano il cinepanettone per distrarsi. Questa consapevolezza non inquina il mio giudizio positivo sul libro, che per me resta un ottimo esempio di narrazione transgen(er)ica. Mi trovi invece solidale nel fastidio verso chi assume la parabola personale di Saviano come paradigma per giudicare la letteratura tout court; mi viene in mente Desiati che qualche giorno fa su Repubblica affermava che la domanda rivelatoria del grande narratore è: “Quanto sono disposto a perdere per raccontare la mia storia, la mia ossessione? La risposta - e come poteva essere diversamente, dico io - è tutto”. Secondo questa visione, suppongo che anche Mein Kampf sia un capolavoro della letteratura, per quanto non romanzo (ma Gomorra è romanzo?). Ovviamente la notizia delle nozze l'ho data su Facebook.

G: Il pubblico di Gomorra mi ricorda il topo di fogna ne L'Amico Devoto di Oscar Wilde, quando dice: "E la storia parla di me? In tal caso l'ascolterò con molta attenzione, perché mi piace la narrativa". Come hai notato, c'è gente che compra Gomorrah per dimostrare di non essere camorrista; è un de me fabula narratur che si trattiene però in superficie, non va a fondo nella psicologia di persone cose e parole ma ha assunto un andamento televisivo - come tempo fa si faceva a mazzate per comparire sullo sfondo dell'inquadratura di un tg e sentirsi parzialmente coinvolti nel determinato fatto di cronaca che veniva raccontato, così oggi si compra il libro per sentirsi un po' minacciati da una camorra di plastica, per rientrare sullo sfondo dell'inquadratura benpensante. È un'epidemia di gomorrea, e Saviano è un tronista trucido. Lo stesso avviene con la pletora di commenti, per lo più inutili, che corredano blog e quotidiani online, per non parlare di Facebook e di Twitter che sarà di moda dall'estate prossima, scommettiamo? Io la notizia del tuo matrimonio l'ho appresa dalla pagina dei ringraziamenti in coda ad Accabadora (che magari in Inglese verrà tradotto Accabadorah), l'ho istintivamente messa in relazione con il curioso atteggiamento di Maria nei confronti del matrimonio e ho concluso che è bello che ci siano ancora strumenti come il libro che forniscono una netta distinzione fra autore e pubblico, fra letteratura e non, così da consentire un percorso univoco di informazioni che parte dall'autore e arriva al pubblico. Oggi tutti vogliono lo scambio, ma sinceramente che se ne fa l'autore delle informazioni del pubblico? A me ogni tanto su Facebook arriva uno sconosciuto, per lo più maschio, che dice di avermi letto e mi chiede l'amicizia, così lui potrà farsi i fatti miei e io i suoi. Non oso immaginare cosa accada a qualcuno leggermente più famoso di me. Senza contare che soprattutto questa sovraesposizione d'immagine su internet, questo stillicidio di informazioni personali gettate a cani e porci, crea un'inflazione di contenuti che finisce alla lunga per danneggiare il peso specifico della produzione narrativa di un autore. I contenuti quelli sono, non è che c'è il pozzo senza fondo, e uno scrittore dovrebbe cercare di preservarsi e vivere più appartato. Ho appena controllato, su Facebook Thomas Pynchon non c'è.

M: Phyncon, recita la vulgata, frequenta assiduamente Don De Lillo, quindi capisco che sia sazio così. Però spero mi permetterai di farti notare che la concezione dello scrittore come creatura autopreservatasi dal mondo non è solo superata, ma anche un po' cattolica. L'ipercontatto è tale solo nella misura in cui tu sei incapace di smistare gli input. Io, vuoi per abitudine, vuoi per indole, ho sicuramente un'asticella alta di tolleranza, ma il mio concetto di altezza non arriva fino ad avere un account personale su Facebook; tenerlo aperto due mesi è stato sufficiente a capire che io sono più tipa da dissocial network. Ho però altri canali, certo più filtrati, da dove mi arrivano inaspettate preziosità che non vedrei mai se non accettassi almeno in parte il contagio dell'orizzontalità. Però vorrei tornare sulla questione Gomorra per chiarire un punto che mi sembra essenziale. Ho già detto che il gomorrismo è una liturgia partecipativa, ma come atteggiamento si estende a tutta la produzione scritta che ama definirsi come letteratura della realtà. Ripeto, non c'è giudizio in questo, ma forse non assisteremo a questo fenomeno se ci fossero altri spazi o canali dove la realtà potesse tornare ad essere condivisa o messa in discussione. Un libro o i post di un giornalista blogger possono diventare simbolici solo facendo scattare meccanismi di riconoscimento che sono indispensabili socialmente, ma che fino a poco tempo fa erano generati (e controllati) da altri luoghi di senso. Giornali, per esempio. Ma anche sezioni di partito. Luoghi politici che hanno perso il loro ruolo, dove chiunque poteva partecipare delle dinamiche in cui era immerso, oppure semplicemente specchiarcisi e riconoscersi. Il fatto che oggi l'effetto community nasca attorno a un romanzo dovrebbe interrogarci sulla deriva antipartecipativa che stiamo vivendo, più che sulla salute della letteratura, e lo dico perché comunque un libro o un post di blog restano illusioni di compresenza, anche quando l'autore incarna il suo testo o il post ha i commenti aperti.

G: Be', sarà una concezione un po' cattolica ma da alcuni dettagli avrai notato che sono un po' cattolico anch'io. Mi ricordo che un paio di anni fa, recensendo Il mondo deve sapere, avevo impostato il tutto su una lettura anagogica in cui il supercapo del call center era ovviamente Dio, il responsabile del personale era il Figlio, la psicologa era lo Spirito e così via. Tuttavia non sono pazzo, nonostante i fondati sospetti dei nostri amici di Books Brothers: per arrivare a questa costruzione sono partito dal dettaglio che in origine tu avessi studiato teologia. (Cosa d'altra parte confermata dalla tua idea del gomorrismo o del savianesimo come liturgia partecipativa). Anche in Accabadora mi sembra che l'afflato religioso sia molto forte, e in fin dei conti la protagonista è una persona che apre le porte dell'aldilà. E ti dirò, non mi metto a sindacare sulla faccenda dell'eutanasia proprio perché tu hai avuto la finezza (e la bravura letteraria, ché a vendere un libro facendo polemica sono bravi tutti, pure Travaglio) di non utilizzare la storia di Tzia Bonaria Urrai, che piglia un cuscino e soffoca i malati terminali, al bieco scopo di propaganda sul fine vita. Dici che ne faranno un film? Dici che, com'è accaduto per Virzì (Tutta la vita davanti, con Sabrina Ferilli, è stato tratto dal tuo primo libro, te lo dico caso mai non te lo ricordassi), alla fine il sottinteso teorico del tuo romanzo possa trasformarsi in idée reçue talmente preponderante da fagocitare la struttura narrativa? C'è qualcun altro oltre me che scorge nei tuoi scritti, anche quelli antipapisti d'occasione, vestigia di una rigida struttura religiosa che fa ben sperare per il futuro e per la vita eterna? E, soprattutto, quando mi presenti Sabrina Ferilli?

M: Mi divertì molto quella lettura di Il mondo deve sapere, perché io stessa l'avevo legittimata attingendo a piene mani dall'area semantica ecclesiale, ma l'avevi colto solo tu. Nego però che questo filtro interpretativo derivi dallo studio della teologia, casomai dalla pratica pluridecennale di una ordinaria vita parrocchiale, cosa che in Accabadora emerge ancora più vistosamente. Sarà per questo che, non senza malignità, qualcuno ha detto che tratteggiando la figura del prete mi sono voluta togliere qualche sassolino, invece devo confessarti che in fase di pianificazione quel personaggio aveva anzi un ruolo molto meno ignavo; man mano che la storia evolveva, saltava fuori motu proprio un concerto di contraddizioni che alla fine ne ha fatto un romanzo tanto religioso quanto anticlericale. Vorrei dire che mi dispiace, ma allo stato attuale delle cose mentirei: la verità è che è un gran brutto momento per essere cattolici questo, ammesso che ne esistano di buoni. Nonostante questa inevitabile frustrazione, non avrei mai asservito la storia alle speculazioni sull'eutanasia, non fosse altro perché l'accabadura e l'eutanasia sono gesti antitetici. Credo poco nei romanzi a tesi, ma ancora di più detesto le tesi infilate a forza dentro i romanzi allo scopo di usarli come corpi contundenti in qualche contrapposizione ideologica, operazione che in questo paese, analfabeta in dialettica, spesso viene scambiata per un dibattito. Pensa che io ero convinta di aver parlato di manipolazione delle relazioni, e invece ho scoperto dai giornali che il mio primo libro era nientemeno che una denuncia del precariato. Ah, il tuo tipo di donna sta alla Ferilli come I Tre Moschettieri sta a Vent’anni dopo.

G: Più in generale, io ritengo che si debba tornare al piacere in sé della lettura; che non è tanto (o non solo) un piacere d'intrattenimento quanto di sollievo per astrazione. Uno si siede, sta zitto, legge e nel frattempo il tempo passa senza che pesi più di tanto (come invece può accadere mentre si lavora o si va a trovare i parenti o si guardano le cronache della serie C al tg regionale del lunedì sera). Meno facile mi riesce capire il piacere della scrittura: io ci sto pensando e, se non avessi deciso a priori di non trasformare questo colloquio potenzialmente infinito in intervista, a questo punto ti avrei chiesto perché scrivi, anzi, perché scrivere.

M: Questa domanda mi è stata rivolta sovente, ma mai da qualcuno che a sua volta scrive. La risposta non esiste, o se esiste è misteriosa anche per me. Posso dirti che la maggior parte delle volte scrivo per indignazione, e la scrittura allora diventa un mezzo per organizzare la rabbia e il dissenso. Ma almeno nel caso di Accabadora il motivo è stato invece il pressare di una storia, meglio ancora di un linguaggio, che mi ha forzata a scrivere mio malgrado. La differenza si vede anche nel modo: nel caso della scrittura di dissenso è tutto veloce, fluido come una sfuriata, e una volta concluso ha l'effetto relax di una droga blanda, di una sigaretta, di un post buon coitum. L'altro tipo di scrittura è invece faticosissimo, richiede un tempo dieci volte maggiore e mi devo letteralmente costringere a farlo. Le 160 pagine di Accabadora sono state prodotte in tre anni per questo motivo: è una scrittura che mi stanca; invidio chi scrive romanzi come un fiume, io mi stupisco piacevolmente di me se in un giorno riesco a tirare fuori anche una sola pagina di quel tipo. È anche molto meno acquietante dal punto di vista psicologico, eppure non so perché non posso fare a meno di farlo. Forse la risposta è proprio quella: io sono troppo pigra per fare questo come mestiere, ogni volta che scrivo c'è sempre qualcosa che mi ha costretta.

G: Vabbe', ora non voglio tediarti con la storia delle mie disgrazie - tanto più che preferirei non fare, zàcchete, la fine di Abelardo - ma da quando ho un lavoro che non ha niente a che fare con la scrittura creativa mi sono reso conto di essere diventato più produttivo. L'idea di sprecare quelle otto ore quotidiane mi angoscia talmente che mentre prima tergiversavo ora sono pronto a svegliarmi a orari oltremodo antimeridiani pur di buttar giù qualcosa; oppure divento talmente autistico da avere un'idea in ufficio, svilupparla sull'autobus, sistemare gli ultimi dettagli mentre ripongo la spesa nel frigo e poi correre a scrivere sul computer quel poco che ricordo visto che ho la pericolosa tendenza a non portare mai con me carta e penna per prendere appunti. Purtroppo questo stile di vita favorisce la produzione di articoli e impromptu saggistici ma giammai la narrativa, che ha ritmi ed esigenze tutte sue; bisognerà (spero) trovare una soluzione. Ma questi sono fatti miei e sicuramente chi è arrivato a leggere fin qui senza andare in coma è invece interessato ai fatti tuoi, magari ha anche saltato i miei interventi né saprei dargli torto visto che sono più lunghi. Magari costui dal tuo ultimo intervento in questa chiacchierata vorrebbe sapere piuttosto se una scrittrice vive meglio da sposata o no. Passo e chiudo.

M: Ora, io non so quanto ci ho messo a rispondere a questa domanda. Troppo in ogni caso, per dire che no, dal punto di vista creativo non cambia assolutamente niente dal vivere single al vivere sposata. Forse è perché l'essere sposati e l'essere "sistemati" non li ho mai considerati sinonimi, la mia scrittura continua a nascere da un tumulto di cose non pacificate. O forse perché mio marito non riveste nessuno dei ruoli che dicono siano fondamentali per lo scrittore: non è il lettore implicito, non è il primo che legge i testi e non è editor in nessuno dei sensi possibili. Sono convinta che questa sia una fortuna.

mercoledì 9 settembre 2009

Dentro di me niente

(vignetta gentilmente offerta per l'occasione da Silvia G e Vernella)

Alla fine è stata l'estate di Susan Boyle, o come ha meglio spiegato Giuliano Ferrara, del suo paradigma: dimostrare che dentro ognuno di noi c'è qualcosa che nessun altro riuscirà mai a scorgere dalle apparenze. Per questo Il Foglio, quotidiano dadaista, ha pubblicato per tutta l'estate mastodontici interventi di autori diversi, lunghi ciascuno un paginone, accompagnati da autoritratti artistici che si rifacevano al contenuto dello scrivente. Il primo se non erro è stato Walter Siti (ma potrei sbagliarmi, sono un uomo che molto errò) nel lontano mese di giugno - non avete idea di quanto sembri lontano giugno in Inghilterra, stamattina pioveva che sembrava ottobre e c'era attorno un sollievo diffuso dalla consapevolezza che la settimana scorsa piovesse che sembrava novembre. A un certo punto, lo scorso giovedì 3 settembre, è arrivato il turno mio: armato (e vestito) soltanto di 14.000 caratteri ho spiegato per filo e per segno cosa c'è dentro di me.

La prassi è che passato un giorno, passati due, pubblico sul blog i vari pezzi via via usciti sul Foglio. Stavolta mi concedo un'eccezione per tre motivi. Il primo non me lo ricordo. Il secondo: era un pezzo sorprendente, come nelle intenzioni degli editori credo, come tale effimero e ideale per un quotidiano; fissarlo su internet che etterno dura come le porte infernali non mi sembra igienico. Il terzo: era scritto molto bene, scusate se me lo dico da solo ma avrò maturato esperienza sufficiente da capire quando scrivo così così; quindi sono così felice che sia stato nobilitato dalla carta stampata che non mi va di sporcarlo con l'inchiostro virtuale il quale sempre (si veda il pezzo per Il Foglio di oggi, peraltro) mi lascia perplesso per quanto ne abusi. Ah, mi sono ricordato il primo motivo: così una volta tanto non andrò a detrimento degli amici parenti e ammiratrici che giovedì scorso hanno veramente mosso le gambine fino ad arrivare in edicola con un euro e trenta in mano.

Per questo chi legge solo il mio blog, comunque benvenuto, o chi troverà queste pagine entro un congruo numero di secoli o di settimane non potrà mai scoprire cosa c'è dentro di me. Sappiate soltanto che non c'è una voce da usignuolo.

martedì 8 settembre 2009

Mike Bongiorno, l'eroe dei due mondi

Ciò che non sentiremo dire di Mike Bongiorno, fra oggi e domani, è che è stato l'ultimo eroe del Risorgimento. 

Devo circostanziare l'affermazione con un po' di autobiografia. Quando, più di dieci anni fa, sono andato a studiare in Alta Italia ho avuto modo di conoscere i piemontesi. Costoro sono Italiani del tutto particolari, che portano in sé un afflato malinconico - come gli Inglesi o i Portoghesi, tanto per intenderci - ma ciò nondimeno restano Italiani: così che l'afflato malinconico venga da un lato annacquato e dall'altro risulti esaltato da tanto singolare contrasto. Questo conferisce ai piemontesi un certo disagio permanente. Un piemontese, augusto quantunque, sembra un po' fuori posto ovunque si trovi e specie in Italia. Magari finisce per indossare giacche surreali, per compiere gesti istintivi ma ridicoli, per lasciarsi sfuggire commenti che vorrebbero essere brillanti ma gli si ritorcono contro. La madre di Mike Bongiorno era piemontese.

I siciliani invece hanno la grazia vastasa. Sanno cogliere alla perfezione l'attimo per una battuta, riempiono di attenzioni chi li circonda, sono sempre deferenti nei confronti degli estranei ma non rifuggono (eufemismo) dal vociare sostenuto, dall'affermazione sopra le righe e da una certa gioia infantile di fronte a un carosello di luci colori e suoni eccessivi. Il padre di Mike Bongiorno era figlio di un siciliano.

Gli Italiani, poi, hanno sempre avuto una tendenza ad apprezzare l'esotico più del nostrano. Negli anni '50 l'esotico era l'America (grossomodo identificata con "il Kansas City") e la televisione - in quanto aggeggio che non consentiva più di distinguere bene la realtà dalla fantasia, ciò che sta accadendo da ciò che è accaduto, chi è presente da chi si trova in un altro luogo - doveva per forza risultare esotica e americana al sommo grado. Una specie di luna park permanente ma permanente negli anni, ché sulle prime le trasmissioni duravano poche ore al dì e Rai4 non era ancora stata inventata. Per iniziare la televisione il 3 gennaio del 1954 fu logico e inevitabile chiamare un Americano che era piemontese e siciliano al contempo. E quando dopo cinquant'anni esatti esatti Mike Bongiorno pianse calde lacrime in diretta  - lacrime vere, che si distinguono anche senza alta definizione - venendo chiamato sul palco di Rai1 per celebrare l'anniversario dell'aggeggio esotico e americano che lui aveva di fatto importato in Italia, erano le lacrime del piemontese che in Italia non s'era più sentito fuori posto, erano le lacrime del siciliano che aveva colorato il bianco e nero facendo sempre vedere attorno a sé un carosello variopinto. Gli Italiani, sempre idiosincratici, vedendolo Americano non provarono vergogna a identificarsi in lui e appassionarcisi - come per il Garibaldi un po' francese un po' uruguagio, oriundo già prima che inventassero il Sivori.

Mike Bongiorno ha portato a compimento l'unità d'Italia, chiudendone la terza fase. La prima fu l'unità politica ovvero la spedizione dei Mille, che andarono ad acchiappare la Sicilia partendo dal Regno di Piemonte. La seconda fu l'unità linguistica ovvero la Prima Guerra Mondiale, con i soldati siciliani che raggiunsero i piemontesi in trincea e dovettero imparare a parlarci. La terza è stata l'unità culturale  ovvero Lascia o Raddoppia.

Questo per quel che concerne la storia collettiva. Individualmente, poi, ognuno ricorda il Mike Bongiorno che gli pare. Per me è quello del Telemike al giovedì sera (o era venerdì?) delle elementari e di infiniti pomeriggi delle medie tramontati nella Ruota della Fortuna a casa di zii, nonni, amici dei miei mentre i grandi parlavano fra loro e il Tg5 non esisteva ancora. Ma è come per Nino Manfredi, che ricordo in cardigan mentre beve un caffè, o per Sandro Ciotti la cui voce mi riesce impossibile non associare alla Lambada, che a fine anni '80 era la sigla finale di qualche trasmissione che doveva finire a ridosso di Tutto il Calcio Minuto per Minuto. Noi ricordiamo il momento in cui sono entrati nella nostra vita per restarci senza mai farsi vedere di persona ma senza mai risparmiarci una gentilezza fino al giorno in cui noi siamo cresciuti e loro sono andati in pensione o le loro trasmissioni sono state chiuse o i loro spot non sono stati più trasmessi. Quando escono dalla nostra vita crediamo che siano morti ma ci piange il cuore perché siamo noi a star morendo poco a poco.

lunedì 7 settembre 2009

Gli Inglesi che cantano, un libro a colori e Kaladze in mondovisione

(Gurrado per Quasi Rete)

Adunque tralasciamo per carità di patria altrui lo spazio gigantesco dedicato dalla stampa indigena all’amichevole dell’Inghilterra contro la Slovacchia, la Slovenia, boh, qualcosa di verdino. Certo, sempre meglio del cricket, ma dover saltare pagine e pagine di fenomenologia di Jermaine Defoe per scoprire il risultato di Ungheria-Svezia mi sembra oggettivamente troppo. Uno arriva a settembre che è già oberato di amichevoli estive, avendo guardato partite inutili per tutto luglio e tutto agosto, il Trofeo Tim, il Trofeo Pam, il Trofeo Bum (e quando non erano amichevoli erano preliminari di Europa League, che è peggio) – proporgli dopo due settimane di calcio vero il ritorno al gladiatorismo posticcio, alla questione se il rigore ininfluente ai fini del risultato superfluo fosse o meno netto. Qui lo dico e lì lo ribadisco, sia chiaro, nel senso che non è che ciò che vale per l’Inghilterra non valga per l’Italia. Quando torno, se ci arrivo vivo, vorrei che la prima amichevole internazionale dell’Italia fosse salutata da un enorme titolo su Brasile-Argentina, o sulla serie B.

Questo per dire che alle cinque e mezza di sabato (fuso di Greenwich) mi ero coscienziosamente sintonizzato su ITV1 per seguire Inghilterra-Slovacchia/Slovenia ma ben presto mi sono reso conto di essere profondamente invidiato da tutti i tifosi che erano a Wembley. Almeno io ero su un divano. Per quanto comodi possano essere i nuovi seggiolini post-hooliganismo (che poi, apro parentesi, parlare di post-hooliganismo in Inghilterra è come parlare di post-ideologismo in Italia, chiudo parentesi), loro erano pur sempre consapevoli di star perdendo due ore della propria esistenza che avrebbero potuto impiegare in maniera più costruttiva. Ad esempio ubriacandosi, per i sobri, e per quelli che erano già ubriachi ubriacandosi di più. È noto che il tifoso di calcio inglese canta sempre: canta quando la squadra vince (“sing when you’re winning”), canta quando la squadra perde (sempre che se ne rendano conto), canta quando la squadra entra in campo (“you’ll never walk alone”) e canta quando partecipa a Britain’s Got Talent, il format che in Gran Bretagna ha lanciato Susan Boyle e che a quanto pare in Italia lancerà Gerry Scotti. Sabato pomeriggio i tifosi inglesi cantavano per non addormentarsi.

Io medesimo, per non addormentarmi, subito dopo il rigore di Frankie Lampard ho iniziato a sfogliare un nuovo acquisto, quello che al momento credo sia il miglior libro di calcio in circolazione. Libro illustrato, sia chiaro, di quelli che non si leggono affatto. Infatti sulla copertina non c’è l’autore ma, nonostante gli sforzi compiuti dall’editore londinese DK (al secolo Dorling Kindersley) per celarne le identità, ho trovato in un recesso del colophon i nomi di David Goldblatt e Johnny Acton. Si chiama The Football Book e il suo sottotitolo – the leagues, the teams, the tactics, the laws – mi ricorda non so perché Scappo dalla città: la vita, l’amore, le vacche. Dopo essere passato dalla libreria mi sono ritrovato con 20 sterline in meno e 400 pagine in più.

Il libro è bello perché c’è tutto ma proprio tutto quello che possa riguardare il gioco rotondo, per quanto gli argomenti possano essere disparati – appunto come la vita l’amore le vacche. La prima parte si occupa di storia e varietà del calcio, ivi incluso il calcio paralimpico, il calcio a 5, il calcio individuale e perfino il calcio femminile. La seconda si intitola “How the game is played” ma poteva benissimo chiamarsi “E Dio creò il Subbuteo” visto che riguarda il campo, i ruoli, gli arbitri, le regole, le magliette, addirittura le pettinature, la palla, la rete e i tifosi. La terza si occupa del lavoro di squadra: come si distinguono le tattiche, come si allena una squadra, come la si finanzia e come si truccano le partite. La quarta ha a che fare con le capacità individuali del calciatore, ivi incluse la sua anatomia e la sua psicologia, nonché un’importante spiegazione su come si effettua una rimessa laterale. La quinta è un atlante del calcio mondiale in 130 pagine, diviso per federazioni continentali, per associazioni nazionali con un rapido sguardo ai club. Il campionato italiano risulta giocato da Inter, Juventus, Milan e Roma – a margine vengono citate però anche la Fiorentina, la Sampdoria, il Cagliari, il Verona; è la controprova che chi ha scritto sapeva di cosa stava parlando, non si era limitato a seguire gli ultimi cinque campionati. Infine una parte sulla storia delle competizioni internazionali: cinquanta pagine sono dedicate alla storia del Mondiale mentre per le restanti competizioni – non potendo dedicare altrettante pagine ciascuna – la brillante idea è stata di trasformare la storia in geografia appuntando su un planisfero le varie nazioni ospitanti e squadre vincitrici.

Oltre a servire per imparare l’Inglese (“tripletta” si dice “hat trick”, “calci piazzati” “set pieces”, “Gazzetta dello Sport” “Gazetta” e “Guerin Sportivo”, Dio solo sa perché, “Guido Sportivo”), The Football Book è apprezzabile per due caratteristiche. Nonostante nella miglior tradizione dell’editoria britannica sia pieno di informazioni minuziose scritte in piccolo, ogni due pagine compare una citazione sempre brillante su un determinato calciatore o una determinata partita o una determinata fase di gioco. Sono circa duecento, quando le si legge sono talmente auto-evidenti che sembra di conoscerle da sempre come le massime di un filosofo latino, poi quando come ora bisogna ricordarsene una a memoria per fare un esempio non c’è verso di raccapezzarsi. Pazienza. Però il meglio sono le immagini: i curatori hanno scelto di inserire solo foto che fossero storiche o avessero comunque un’immediata riconoscibilità, tanto che spesso non ci sono nemmeno le didascalie. In compenso le hanno colorate con un effetto acquerello simile a quello delle antiche foto dipinte a mano, ottenendo un effetto di straniamento romantico: che ritragga Pippo Inzaghi o Guillermo Stábile, ogni immagine sembra emergere dalla pagina come un ricordo nitido e pittoresco – più o meno come quello che serbo delle venti sterline lasciate in mano al commesso.

A proposito di amichevoli, non è stata male nemmeno quella disputata dall’Italia Olimpica in Georgia. Ah, non era un’amichevole? Mah, che io sappia tutte le partite che l’Italia gioca di questa stagione bene o male lo diventano, tanto più se non ci si ricorda a memoria la capitale dello stato avverso (Tbilisi? Atlanta? Casteggio?). Ah, non era l’Italia Olimpica? Allora perché c’era Marchionni? Ricordo ancora vent’anni fa, quando l’Italia Olimpica andava di moda. Il pallone a cinque cerchi non era ancora stato ridotto a competizione giovanile e l’Occidente, per salvaguardare una parvenza di dilettantismo senza sfigurare di fronte a selezioni parasovietiche che facevano paura, si era organizzato concedendosi di schierare nell’Olimpica giocatori senza limite alcuno di età o di tesseramento purché non fossero giammai stati convocati nella Nazionale maggiore. L’Italia Olimpica era l’azzurro di Virdis e Iachini. L’allenava Dino Zoff, che poi passò alla Juve e cedette il posto a uno a caso fra Francesco Rocca e Sergio Vatta. Andammo a Seul per perdere 0-4 dallo Zambia.

Immagino che più o meno tutti, a vedere l’autodoppietta di Kaladze, abbiano ricordato Comunardo Niccolai – l’autogollista seriale del quale Manlio Scopigno disse che la maggior meraviglia di Mexico ’70 non fosse Pelé ma “Niccolai in mondovisione”. Nelle autoreti c’è una goffaggine talmente gratuita e lesiva che passa la voglia di festeggiarla, come hanno invece fatto i nostri eroi, e i tifosi georgiani che hanno fischiato il loro capitano mi hanno rafforzato nell’idea che il calcio dovrebbe diventare sport d’élite, con lo stadio aperto a ingressi a numero chiuso, previo test d’intelligenza e umanità. Kaladze, poi: uno che in Italia si sente a casa propria (come ha effettivamente dimostrato sabato, giocando da terza punta non convocata); un buon giocatore che viene da una piccola nazione e sa a priori che mai e poi mai parteciperà a un Mondiale o a un Europeo; un uomo che una e una sola volta nella vita aveva l’opportunità di giocare a casa sua da capitano della propria Nazionale, contro la Nazionale campione del Mondo che per giunta è quella che ospita il suo club – e in quell’unico e solo giorno della sua vita infila due autoreti decisive.

Chi non ha mai fatto un’autorete scagli il primo fischio; lo scagli chi ha sempre tenuto i nervi saldi in circostanze anche meno probanti di questa, chi non ha mai sbagliato la seconda volta dopo aver sbagliato la prima. Per questo Kaladze mi ha ricordato non tanto Niccolai ma Evaristo Beccalossi, eternato dal monologo di Paolo Rossi (il comico, non il calciatore) (tanto meno il rinomato filosofo) nell’atto di decidere una lontana seminfinale di Coppa Uefa fra Inter e Slovan Bratislava. Racconta Rossi che nel primo tempo l’Inter beneficiò di un calcio di rigore e allora Beccalossi “guardò tutto lo stadio negli occhi, e tutto lo stadio gli disse Vai, vai! (...) Disse Lo tiro io, con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe sbagliato – e sbagliò. E io pensai: Per me resta comunque un uomo.” E quando, cinque minuti dopo, all’Inter venne assegnato un altro calcio di rigore “lui guardò tutto lo stadio negli occhi, e tutto lo stadio gli disse No, puttana Eva!”. Ma Beccalossi piazzò la palla sul dischetto “con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe risbagliato – e risbagliò. E io pensai: Questi per me sono uomini veri! Un po’ sfigati, ma veri.”