(Gurrado per Il Foglio)
Ho invece il fondato sospetto che, se stamattina mi intrufolassi nella composta fila di adolescenti davanti al principale negozio di dischi nella strada centrale di Oxford e chiedessi a qualcuno i nomi dei Beatles, avrei buone possibilità di sentirmi rispondere: “Paul, Ringo, Alex e Allan”. E resterei sorpreso, forse perché i miei Beatles si sono fermati pressappoco quindici anni fa, ai tempi della voluminosa Anthology in formato cd-video-libro, quando Harrison non era ancora morto e il vuoto lasciato da Lennon veniva coperto su nastro dalla sua stessa voce diffusa postuma.
E ho anche l’impressione che oggi gli adolescenti inglesi non intendano tanto fare razzia della rimasterizzazione dell’opera omnia, ripulita da Allan Rouse e temporaneamente data via al prezzo quasi popolare di dieci sterline a disco, quanto piuttosto di The Beatles Rock Band, videogioco inventato dalla Harmonix di Alex Rigopulos che costa il quadruplo. Sarà che ho passato l’età del karaoke ma resto scettico di fronte a un videogioco che mi consentirebbe di sostituire a turno le immagini stilizzate John, Paul, George o Ringo per poi venire giudicato con un punteggio che misura percentualmente quanto sono riuscito ad allinearmi al modello originale dell’esibizione: “bravo Gurrado, hai perfettamente ribattuto Love Me Do sulla replica plastificata in scala della batteria di Ringo e la tua prestazione è valutabile in un 98%”; oppure: “imbarazzante Gurrado, cantando I Am The Walrus sembravi appunto un tricheco, la tua prestazione non vale più di un 28%”.
I Beatles hanno segnato la mia adolescenza venticinque anni dopo essersi sciolti, quindi figuriamoci se non sono contento che a nuovi ragazzini vengano messi in mano strumenti innovativi per usufruire del loro genio e magari tentare di riprodurlo. Oddio, i miei amici più talentuosi tentavano di riprodurlo con strumenti veri e non con una consolle e chitarrine di plastica: forse i tempi sono irrimediabilmente cambiati. Però mi chiedo se questo B-day, quest’operazione Beatles for (re)sale abbia un effettivo valore storiografico.
I Beatles avevano due caratteristiche che li distinguevano dagli altri gruppi. La prima era uno snobismo quasi offensivo con conseguente fuga dal pubblico, che Lennon odiava particolarmente. Quando esordirono nei night di Amburgo lui dava dei nazisti agli ascoltatori. Alla Royal Albert Hall invitò il pubblico upperclass a portare il tempo facendo tintinnare i gioielli. Fu il grande motore della scelta di smettere di dare concerti dal vivo, nel 1966, dichiarando che i loro fan si sarebbero accontentati di strillare istericamente di fronte a quattro manichini di cera. Durante le ultime esibizioni si sforzava di suonare malissimo e raggiunse il culmine nel loro concerto più mastodontico, quello allo Shea Stadium. Pestò sulla pianola coi gomiti, produsse note a caso, stonò a ripetizione. In quella circostanza il videogioco di Alex Rigopulos gli avrebbe assegnato una valutazione intorno al 15%. Quanto gli piacerebbe oggi l’idea che uno qualsiasi dei suoi fan possa sostituirsi a lui – anzi, alla versione tecnologica del suo manichino di cera – e magari suonare meglio?
La seconda era un’estenuante ricerca dell’imperfezione acustica. Il loro primo LP venne registrato in tredici ore filate, tanto che alla fine la voce di Lennon venne meno nel bel mezzo di Twist and Shout. La leggenda vuole che appena finito di registrare Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band ne offrissero un’anteprima londinese in bassa, bassissima definizione accostando le casse acustiche alle finestre della casa di una zia di Ringo Starr. Nei loro anni di studio incisero ed eternarono nelle loro canzoni una ridda di colpi di tosse, frasi smozzicate, rumori accidentali. La loro ultima esibizione dal vivo si tenne sul terrazzo della EMI e la gente sul marciapiede di sotto riusciva a sentirli meno bene di quanto riuscisse a vederli.
In tutti questi casi i Beatles hanno sempre chiesto al pubblico uno sforzo per riuscire a scorgere la loro musica fra i rumori, che finivano per venire inclusi nel loro sound pur restandone estranei – come il nocciolo è necessario al completamento di una pesca anche se non si mangia. Senza contare che per chi li ha scoperti ai tempi del vinile i Beatles gracchiano, per chi li ha conosciti quando andavano di moda le audiocassette i Beatles scrosciano. Quindi qualcosa non mi torna nella frase di Allan Rouse appena riportata dall’Observer Music Monthly: “vogliamo far suonare i Beatles as good as they can, quanto meglio possono”.
I Beatles hanno incarnato per decenni il talento nell’imperfezione. Scegliere di far allineare i loro fan a una performance ideale esprimibile percentualmente o, peggio ancora, intervenire sui reperti del loro genio e della nostra memoria per migliorarne l’acustica e la fruibilità mi sembra ragionevole come l’idea che l’emmenthal sarebbe più buono senza buchi.
Ho invece il fondato sospetto che, se stamattina mi intrufolassi nella composta fila di adolescenti davanti al principale negozio di dischi nella strada centrale di Oxford e chiedessi a qualcuno i nomi dei Beatles, avrei buone possibilità di sentirmi rispondere: “Paul, Ringo, Alex e Allan”. E resterei sorpreso, forse perché i miei Beatles si sono fermati pressappoco quindici anni fa, ai tempi della voluminosa Anthology in formato cd-video-libro, quando Harrison non era ancora morto e il vuoto lasciato da Lennon veniva coperto su nastro dalla sua stessa voce diffusa postuma.
E ho anche l’impressione che oggi gli adolescenti inglesi non intendano tanto fare razzia della rimasterizzazione dell’opera omnia, ripulita da Allan Rouse e temporaneamente data via al prezzo quasi popolare di dieci sterline a disco, quanto piuttosto di The Beatles Rock Band, videogioco inventato dalla Harmonix di Alex Rigopulos che costa il quadruplo. Sarà che ho passato l’età del karaoke ma resto scettico di fronte a un videogioco che mi consentirebbe di sostituire a turno le immagini stilizzate John, Paul, George o Ringo per poi venire giudicato con un punteggio che misura percentualmente quanto sono riuscito ad allinearmi al modello originale dell’esibizione: “bravo Gurrado, hai perfettamente ribattuto Love Me Do sulla replica plastificata in scala della batteria di Ringo e la tua prestazione è valutabile in un 98%”; oppure: “imbarazzante Gurrado, cantando I Am The Walrus sembravi appunto un tricheco, la tua prestazione non vale più di un 28%”.
I Beatles hanno segnato la mia adolescenza venticinque anni dopo essersi sciolti, quindi figuriamoci se non sono contento che a nuovi ragazzini vengano messi in mano strumenti innovativi per usufruire del loro genio e magari tentare di riprodurlo. Oddio, i miei amici più talentuosi tentavano di riprodurlo con strumenti veri e non con una consolle e chitarrine di plastica: forse i tempi sono irrimediabilmente cambiati. Però mi chiedo se questo B-day, quest’operazione Beatles for (re)sale abbia un effettivo valore storiografico.
I Beatles avevano due caratteristiche che li distinguevano dagli altri gruppi. La prima era uno snobismo quasi offensivo con conseguente fuga dal pubblico, che Lennon odiava particolarmente. Quando esordirono nei night di Amburgo lui dava dei nazisti agli ascoltatori. Alla Royal Albert Hall invitò il pubblico upperclass a portare il tempo facendo tintinnare i gioielli. Fu il grande motore della scelta di smettere di dare concerti dal vivo, nel 1966, dichiarando che i loro fan si sarebbero accontentati di strillare istericamente di fronte a quattro manichini di cera. Durante le ultime esibizioni si sforzava di suonare malissimo e raggiunse il culmine nel loro concerto più mastodontico, quello allo Shea Stadium. Pestò sulla pianola coi gomiti, produsse note a caso, stonò a ripetizione. In quella circostanza il videogioco di Alex Rigopulos gli avrebbe assegnato una valutazione intorno al 15%. Quanto gli piacerebbe oggi l’idea che uno qualsiasi dei suoi fan possa sostituirsi a lui – anzi, alla versione tecnologica del suo manichino di cera – e magari suonare meglio?
La seconda era un’estenuante ricerca dell’imperfezione acustica. Il loro primo LP venne registrato in tredici ore filate, tanto che alla fine la voce di Lennon venne meno nel bel mezzo di Twist and Shout. La leggenda vuole che appena finito di registrare Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band ne offrissero un’anteprima londinese in bassa, bassissima definizione accostando le casse acustiche alle finestre della casa di una zia di Ringo Starr. Nei loro anni di studio incisero ed eternarono nelle loro canzoni una ridda di colpi di tosse, frasi smozzicate, rumori accidentali. La loro ultima esibizione dal vivo si tenne sul terrazzo della EMI e la gente sul marciapiede di sotto riusciva a sentirli meno bene di quanto riuscisse a vederli.
In tutti questi casi i Beatles hanno sempre chiesto al pubblico uno sforzo per riuscire a scorgere la loro musica fra i rumori, che finivano per venire inclusi nel loro sound pur restandone estranei – come il nocciolo è necessario al completamento di una pesca anche se non si mangia. Senza contare che per chi li ha scoperti ai tempi del vinile i Beatles gracchiano, per chi li ha conosciti quando andavano di moda le audiocassette i Beatles scrosciano. Quindi qualcosa non mi torna nella frase di Allan Rouse appena riportata dall’Observer Music Monthly: “vogliamo far suonare i Beatles as good as they can, quanto meglio possono”.
I Beatles hanno incarnato per decenni il talento nell’imperfezione. Scegliere di far allineare i loro fan a una performance ideale esprimibile percentualmente o, peggio ancora, intervenire sui reperti del loro genio e della nostra memoria per migliorarne l’acustica e la fruibilità mi sembra ragionevole come l’idea che l’emmenthal sarebbe più buono senza buchi.
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