venerdì 12 marzo 2010

Ve lo do io Obama

Qualcuno ha scritto protestando che ultimamente sto trascurando questo blog. Non posso che convenirne e per vostra maggiore soddisfazione ho l'opportunità di annunciare che lo trascurerò ancora di più: per due settimane non potrò aggiornarlo perché per ragioni che non mi sono chiare devo fare un salto in Texas, dove notoriamente internet non funziona (ma i saloon sì, almeno spero) (anzi: ma i saloon sì, almeno sparo). Domani sera a quest'ora sarò chiuso in una camera d'albergo a lamentarmi del fuso orario. Fate i bravi. Se ne riparla dopo il 26 marzo.

Per Grazia Ricevuta


Da oggi cammino senza stampelle.

mercoledì 10 marzo 2010

The better gioventù

Sul Foglio in edicola oggi dimostro inoppugnabilmente che in Inghilterra l'educazione sessuale è più noiosa della trigonometria. D'altronde, con un ministro dell'istruzione che di cognome fa Balls...

venerdì 5 marzo 2010

Emanuele secondo

Non l'ho seguito molto ma ritengo che il Festival di Sanremo dovesse vincerlo Emanuele Dotto; è la voce che associo istintivamente all'edizione di quest'anno. Per un disguido organizzativo, le cinque serate del Festival 2010 sono andate in onda contemporaneamente ad altrettante partite; mentre Rai-tv se l'è sfangata anni fa mollando a Sky i diritti di qualsiasi cosa si muova intorno a una palla che rotola, RadioRai si è trovata di fronte a questo dilemma: i diritti del Festival li ha Radio1; i diritti della Champions League, dell'Europa League, della Serie A e della Serie B li ha Radio1; gli orari coincidono; ergo, facciamo coincidere anche le trasmissioni.

Così è nata Canzoni e Campioni, maratona serale coordinata da Emanuele Dotto con la partecipazione straordinaria, fra gli altri, di Jo Squillo. Ora, trasmettere il Festival alla radio è più complicato di quel che sembri. Uno pensa che Sanremo abbia a che fare soprattutto con le canzoni e, di conseguenza, col senso dell'udito; invece da un paio di decenni il baraccone è diventato anzitutto evento televisivo che coinvolge soprattutto il senso della vista. In condizioni normali la radio sarebbe avvantaggiata nella trasmissione della gara canora, in quanto consentirebbe di isolare il valore delle canzoni dallo sfondo un po' pacchiano. Nelle condizioni attuali invece ascoltando il Festival alla radio ci si rende conto che le canzoni sono il supporto o anzi il pretesto per il vestito rosso e l'altalena di Antonella Clerici, dettagli ai quali si riesce a dedicare attenzione solo se si parte dal presupposto che per le cinque serate null'altro esista al di fuori del Festival. Non a caso la controprogrammazione delle altre reti Rai è storicamente morbida, acconsentendo implicitamente all'idea che quando c'è Sanremo Rai2 e Rai3 non vengono oscurate solo per decenza della prassi; ragion per cui la radiocronaca del Festival non riguarda i cantanti che si avvicendano sul palco del teatro Ariston ma ciò che i telespettatori stanno guardando da casa propria.

A questo punto diventano necessari lo sguardo sulle partite di calcio e un Emanuele Dotto che intervenga per segnalare che mentre cantava Irene Grandi ha segnato Ronaldinho, o risponda a Enrico Ruggeri che indaga sul risultato della Fiorentina al quarantacinquesimo, spieghi il valore dei goal in trasferta della Roma contro il Panathinaikos nell'ambito del regolamento sul ripescaggio dei cantanti eliminati nel corso della prima serata, tappezzi la gara delle nuove proposte con aggiornamenti su Brescia-Ascoli e rammenti che la finale del sabato non è la fine del mondo se paragonata all'anticipo serale dell'ennesima giornata di Serie A. Io lo ascoltavo e mi figuravo Emanuele Dotto, isolato nel suo studiolo, che con sapidissima crudeltà destrutturava la televisività e l'egocentrismo del Festival di Sanremo vendicandosi del tradimento di Antonella Clerici, un tempo giornalistsa sportiva di fianco a Gianfranco De Laurentiis in Dribbling. Ecco, se il mondo fosse stato giusto il Festival di quest'anno avrebbe dovuto venire condotto da De Laurentiis, che avrebbe saputo bucare lo schermo rivelando sommessamente che durante l'esibizione dei Nomadi il Manchester United si era portato in vantaggio sul campo del Milan.

giovedì 4 marzo 2010

L'uomo wafer

Se c'è una cosa che detesto è scrivere sui libri (o sottolinearli) ma contemplo un'unica eccezione. Se si tratta di un volume preso in prestito da una biblioteca e viene riscontrata una nozione sbagliata, è il caso di intervenire con un leggero tratto di matita onde evitare che generazioni successive di lettori (se mai ci saranno) cadano vittime dell'imprecisione, del refuso e della propria ignoranza che impedisce loro di capire che un nome è messo al posto di un altro o che un numero è sbagliato. Ragion per cui, su una vecchia edizione Feltrinelli de Il Principe e I Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio avendo trovato segnalata una traduzione francese di Amelot de la Houssaye del 1863, ho ritenuto opportuno ristabilire storia cronologia e matematica facendo una ics sulla cifra e annotando a margine "1683". Spero che le generazioni future degli oxoniensi più ottusi mi siano grate per averle preservate dal sostenere nei loro saggi che l'Anti-Machiavello di Federico II di Prussia, pubblicato nel 1740, era basato su una traduzione che doveva apparire più di cent'anni dopo.

Non era invece un errore di stampa quello che ho trovato citato dall'introduttore Giuliano Procacci quando viene a raccontare di quando i gesuiti di Ingolstadt, a metà XVI secolo, misero al rogo l'effigie di Machiavelli "quoniam fuit homo vafer ac subdolus, (...) cacodaemonis auxiliator". In Latino la v e la u sono indistinguibili come per Martufello e stando ai dizionari più forniti uafer significa una serie di bei complimenti che potete facilmente immaginare se pensate alle parole che uscirebbero dalla bocca di qualcuno che desse fuoco a un manichino tale e quale a voi.

In Germania, in Francia, in Inghilterra Machiavelli non è stato capito ed è stato condannato a diventare l'incarnazione della propria parodia. In Italia si tende a non leggerlo e io medesimo, fino a pochi giorni fa, conoscevo i Discorsi sopra la Prima Deca solo per sentito dire. Andrebbero resi lettura obbligatoria  nelle scuole, al posto per esempio di Vincenzo Cerami. Il Machiavelli dei Discorsi sarebbe il politico per il quale voterei immantinente in quanto
1) realista: "è necessario a chi dispone una republica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei";
2) monarchico: "mai o di rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene (...) se non è ordinato da uno";
3) profeta della camorra e di Tangentopoli: "nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte";
4) psicologo: "la natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa: talché essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede";
5) accusatore di ogni dipietrismo: "quegli magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà";
6) propugnatore della Chiesa militare: "e benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio e non secondo la virtù. Perché se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed onoriamo";
7) severo critico del basso clero: "abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi";
8) nemico del compromesso molle: "un governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con beneficarli in modo che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare forma";
9) favorevole all'uomo forte: "a volere essere ubbidito è necessario saper comandare";
10) scettico riguardo alle quote rosa: "come per cagione di femine si rovina uno Stato".

Già non l'abbiamo capito in Italia, figuriamoci se lo capiscono all'estero. Uno dei momenti più commoventi della mia vita è stato quando sono tornato a Modena, lo scorso settembre, e ho avuto l'onore di presentare a Sassuolo la lezione sui Discorsi tenuta da Maurizio Viroli, professore a Princeton e autore de Il sorriso di Niccolò: storia di Machiavelli. Fu talmente trasportante che alle tre del pomeriggio, in una piazzetta con il sole a picco, chiosai le sue parole dicendo: "Leggete Machiavelli, amate la patria", sicuramente trascinato dall'implicita considerazione che patrioti quantunque vivevamo all'estero sia io sia lui. Machiavelli fu invece straniero in patria, quando nel 1513 fu rimosso dalla carica di Segretario Fiorentino e dopo breve prigionia si scoprì troppo vecchio per poter coltivare alcuna carriera politica. Fu allora che decise di scrivere e grazie a questo posso chiudermi in camera a leggerlo con lo stesso atteggiamento con cui lui rifuggiva alla solitudine, all'amarezza e al fraintendimento di contemporanei e posteri immergendosi nei classici: "e non sento per quattro ore di tempo la noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro". La sdegnosa delusione di Machiavelli che già previde di non essere capito in patria e altrove mi giunge postmoderna, mediata dall'esclamazione di Totò ne I due colonnelli: "Sono rimasto solo, solo, contro tutta la Gran Bretagna!".

mercoledì 3 marzo 2010

Garibaldi, perché l'hai fatto?

Leggendo I Mille di Giuseppe Bandi, disponibile soltanto in una sciagurata edizione di Stampa Alternativa, si apprendono decine di nozioni irrinunciabili e sottovalutate riguardo al nostro Risorgimento (l'argomento del quale l'anno prossimo tutti fingeranno di sapere tutto). Anzitutto si scopre che Garibaldi è riuscito a condurre la propria impresa pur avendo passato buona parte delle sue giornate a chiacchierare con l'autore del libro, all'epoca giovane ufficiale del granducato di Toscana aggregato alle camicie rosse, rivelandogli i dettagli più oscuri riguardo alla spedizione. Dopo di che si scopre che una volta salpati col Piemonte e il Lombardo - le due navi di cui l'anno prossimo tutti fingeranno di aver sempre saputo i nomi - i garibaldini scoprirono di avere con sé i fucili ma non le munizioni. Poco male, commentò Garibaldi, il fucile è soltanto il manico della baionetta. Fortuna sua che i napolitani, per risparmiare, bombardarono le navi garibaldine con granate difettate, che rotolarono sui ponti senza mai esplodere. Si apprende che Nino Bixio bestemmiava come un esercito di turchi. Si pensa al profluvio di tricolori che ci attenderà l'anno venturo in contrasto con la convinzione di Garibaldi, ossia che non contasse tanto la bandiera battuta da Piemonte e Lombardo quanto la sostanza della spedizione; e che per quanto accadesse che Piemonte e Lombardo battessero stendardo sabaudo, agli occhi del generale avrebbero altrettanto potuto essere decorati dal tricolore o da un paio di mutande a quadrettoni.

Soprattutto viene il sospetto che Garibaldi avesse deciso di salpare per la Sicilia perché gli piacevano le arance. Le sbucciava con lo stesso coltellaccio col quale, avesse un dì deciso di farlo, si sarebbe anche rasato. Immaginate quanto dev'essere stata minacciosa per i due delegati borbonici la visione di Garibaldi, ormai dittatore di mezz'Italia, che li ascoltava estraendo dalla saccoccia il coltello, sbucciando un'arancia di Sicilia e poi tranciandola a metà per offrirne un emisfero ciascuno.

Le arance sono state fondamentali nello spirito Risorgimento, è questa la verità che l'anno prossimo tutti taceranno. Io dubito fortemente che Garibaldi abbia passato le giornate della spedizione a farsi intervistare da Bandi e a fare estremo affidamento sulle sue forze individuali; però non metto in minimo dubbio l'episodio che il memorialista racconta con più trepidazione. Un giorno Bandi viene ferito e resta ricoverato in un convento di frati siciliani (parentesi: le camicie rosse non fanno altro che dire peste e corna del clero ma appena si fanno la bua corrono nei conventi a farsi dare coperte, cibo e medicine che non vengono mai rifiutati). Garibaldi continua la spedizione e sbarca in continente, non prima di aver fatto spedire un omaggio all'ufficiale ferito: una camicia nuova e dodici arance. C'è qualcosa - nell'orgogliosa notazione delle "dodici arance" con cui Bandi fa terminare un capoverso - che è al contempo puntigliosa, infantile e dionisiaca. In una frasettina uno scrittore in fin dei conti mediocre infila la sua gioia per il dono insperato, il sollievo del malato che scopre di non essere stato dimenticato, la bontà del frutto, la consapevolezza della predilezione del generale (sia per lui sia per le arance) e la sconfinata abbondanza del numero dodici. Mi ha ricordato il party che Collodi organizza in Pinocchio, a base di pane imburrato da ambo i lati: la semplicità che in centocinquant'anni è andata del tutto perduta e per la quale l'anno venturo non dovremmo festeggiare ma vergognarci almeno un poco.