Leggendo I Mille di Giuseppe Bandi, disponibile soltanto in una sciagurata edizione di Stampa Alternativa, si apprendono decine di nozioni irrinunciabili e sottovalutate riguardo al nostro Risorgimento (l'argomento del quale l'anno prossimo tutti fingeranno di sapere tutto). Anzitutto si scopre che Garibaldi è riuscito a condurre la propria impresa pur avendo passato buona parte delle sue giornate a chiacchierare con l'autore del libro, all'epoca giovane ufficiale del granducato di Toscana aggregato alle camicie rosse, rivelandogli i dettagli più oscuri riguardo alla spedizione. Dopo di che si scopre che una volta salpati col Piemonte e il Lombardo - le due navi di cui l'anno prossimo tutti fingeranno di aver sempre saputo i nomi - i garibaldini scoprirono di avere con sé i fucili ma non le munizioni. Poco male, commentò Garibaldi, il fucile è soltanto il manico della baionetta. Fortuna sua che i napolitani, per risparmiare, bombardarono le navi garibaldine con granate difettate, che rotolarono sui ponti senza mai esplodere. Si apprende che Nino Bixio bestemmiava come un esercito di turchi. Si pensa al profluvio di tricolori che ci attenderà l'anno venturo in contrasto con la convinzione di Garibaldi, ossia che non contasse tanto la bandiera battuta da Piemonte e Lombardo quanto la sostanza della spedizione; e che per quanto accadesse che Piemonte e Lombardo battessero stendardo sabaudo, agli occhi del generale avrebbero altrettanto potuto essere decorati dal tricolore o da un paio di mutande a quadrettoni.
Soprattutto viene il sospetto che Garibaldi avesse deciso di salpare per la Sicilia perché gli piacevano le arance. Le sbucciava con lo stesso coltellaccio col quale, avesse un dì deciso di farlo, si sarebbe anche rasato. Immaginate quanto dev'essere stata minacciosa per i due delegati borbonici la visione di Garibaldi, ormai dittatore di mezz'Italia, che li ascoltava estraendo dalla saccoccia il coltello, sbucciando un'arancia di Sicilia e poi tranciandola a metà per offrirne un emisfero ciascuno.
Le arance sono state fondamentali nello spirito Risorgimento, è questa la verità che l'anno prossimo tutti taceranno. Io dubito fortemente che Garibaldi abbia passato le giornate della spedizione a farsi intervistare da Bandi e a fare estremo affidamento sulle sue forze individuali; però non metto in minimo dubbio l'episodio che il memorialista racconta con più trepidazione. Un giorno Bandi viene ferito e resta ricoverato in un convento di frati siciliani (parentesi: le camicie rosse non fanno altro che dire peste e corna del clero ma appena si fanno la bua corrono nei conventi a farsi dare coperte, cibo e medicine che non vengono mai rifiutati). Garibaldi continua la spedizione e sbarca in continente, non prima di aver fatto spedire un omaggio all'ufficiale ferito: una camicia nuova e dodici arance. C'è qualcosa - nell'orgogliosa notazione delle "dodici arance" con cui Bandi fa terminare un capoverso - che è al contempo puntigliosa, infantile e dionisiaca. In una frasettina uno scrittore in fin dei conti mediocre infila la sua gioia per il dono insperato, il sollievo del malato che scopre di non essere stato dimenticato, la bontà del frutto, la consapevolezza della predilezione del generale (sia per lui sia per le arance) e la sconfinata abbondanza del numero dodici. Mi ha ricordato il party che Collodi organizza in Pinocchio, a base di pane imburrato da ambo i lati: la semplicità che in centocinquant'anni è andata del tutto perduta e per la quale l'anno venturo non dovremmo festeggiare ma vergognarci almeno un poco.
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