Estragone: “Be’, ce ne andiamo?”
Vladimiro: “Sì, andiamocene.”
Non si muovono.
(Samuel Beckett)
Vladimiro: “Sì, andiamocene.”
Non si muovono.
(Samuel Beckett)
Buongiorno, ieri sera il centrodestra ha perso le elezioni. Né gli è stato facile, visto che si è votato nell’aprile 2006 e il centrodestra è riuscito a perdere solo un anno e mezzo dopo – ma con un po’ di impegno si ottiene tutto.
Lì per lì, infatti, la sconfitta numerica del 2006 si era rivelata una triplice vittoria:
- vittoria morale, in quanto presentava un’inezia di voti di distacco (magari non frutto di brogli, ma quasi sicuramente di errori) alla Camera e duecentomila voti di vantaggio al Senato;
- vittoria psicologica, in quanto risultato ottenuto in forte rimonta (quando chiunque, dai sondaggi non berlusconiani agli exit poll pomeridiani, dava il centrosinistra vincente in scioltezza) grazie alla felice concomitanza negli ultimi giorni di campagna elettorale fra la geniale strategia di Berlusconi (che culminava nell’esenzione dall’ICI sulla prima casa) e la tremarella suicida di Prodi (il quale accusava di indebita ricchezza i possessori di case larghe ottanta metri quadri);
- vittoria politica, in quanto chiunque, fra tentare di governare sotto il continuo ricatto di qualsiasi decisivo paio di senatori e stare comodamente all’opposizione attendendo il tracollo psichico della maggioranza risicatissima, se sano di mente avrebbe optato per la seconda opzione.
Al mattino dell’11 aprile 2006, la situazione era tale che: l’Italia era spaccata a metà come una mela; mezza rappresentanza politica aveva il dovere di governare, essendosi proclamata vincitrice, e al contempo l’obbligo impossibile di non perdere nemmeno uno dei ventiquattromila consensi in più che avevano garantito i festeggiamenti sul tir giallo; l’altra mezza rappresentanza politica aveva la prospettiva di riorganizzarsi serrando le fila ed esercitandosi al tiro al piccione, dove il piccione siede tuttora a Palazzo Chigi.
Il centrodestra aveva tempo e modo di sbrigare due faccende necessarie:
- preparare sull’istante un governo ombra per far sentire il proprio fiato sul collo di ogni singolo ministro prodiano e far cadere il governo per sfinimento (e non l’ha fatto);
- dare il via al disbrigo delle faccende burocratiche per incanalare il montante disappunto del Paese nei confronti della maggioranza ballerina in un unico grande soggetto politico, non necessariamente partito unico ma anche federazione plurale, in maniera tale da poter affrontare le inevitabili nuove consultazioni elettorali con slancio rinnovato e frapponendo un nuovo progetto politico fra sé e il precedente quinquennio di governo, non del tutto soddisfacente vista la fuga di voti benché contenuta. E non l’ha fatto.
Alla stessa maniera, fatta salva una timida offerta di collaborazione a un governo di larghe intese (nemmeno dovuta, poiché è la coalizione vincitrice, anche se di poco, che deve riconoscere che non sempre la maggioranza può coincidere col governo e di conseguenza offrire le larghe intese all’opposizione), il centrodestra ha scelto il muro contro muro, quando invece avrebbe dovuto sparigliare. Ha avuto poco successo al Senato, quando ha esposto una venerabile personalità istituzionale come Andreotti a una poco dignitosa sconfitta nella corsa alla presidenza (tanto meno dignitosa vista la caratura del candidato, che con ogni probabilità porta tatuato sulla gobba l’ariostesco motto “fu il vincer sempremai laudabil cosa”). Ha avuto meno successo ancora alla Camera, quando invece di creare scompiglio votando in massa D’Alema presidente sin dalle prime tornate ha tergiversato su schede bianche e nulle lasciando che Bertinotti vincesse senza colpo ferire così che Prodi, in prospettiva, si ritrovasse con una poltrona in più disponibile per il governo e un grosso problema in meno per la maggioranza. Ha fallito completamente nell’elezione quirinalizia, culmine dell’ingorgo istituzionale, dapprima disperdendo le forze (otto voti per Giuliano Ferrara!) e poi consegnando le chiavi della Nazione a Napolitano col rifugiarsi nuovamente in schede bianche e nulle invece di insistere, insistere, insistere votando esponenti di sinistra la cui collocazione avrebbe creato seri problemi di gerarchia al costituendo governo Prodi (Amato, ad esempio, o meglio ancora D’Alema stesso), o per lo meno personalità di spessore vicine alla maggioranza benché in maniera critica (Emanuele Macaluso, tanto per dirne uno).
Quando, al mercoledì delle ceneri del 2007, la Via Crucis governativa ha incontrato la stazione Prodi cade per la prima volta, invece di approfittare della spacconata di D’Alema (“Se il Senato non approva, ce ne andiamo tutti a casa”) e dell’infantile sgambetto di Rossi e Turigliatto, il centrodestra ha commesso l’errore di credere che tanto poco bastasse a segnare la fine di Prodi, dimenticando che non tutte le malattie sono mortali; ha sbagliato a non elaborare una linea comune così che entrambe le istanze ragionevoli (andare al voto o fare questo benedetto governo di larghe intese) si rivelassero troppo debolmente sostenute per poter essere ragionevolmente perseguite; ha tuttavia emesso tanto fumo da ricompattare istantaneamente la maggioranza, che mai come allora se l’è vista brutta, contro Berlusconi prima ancora che intorno a Prodi; ha infine pagato l’errore di aver consentito ciecamente l’elezione di Napolitano il quale dopo rapide consultazioni ha provveduto ad attaccare il ciuccio (Prodi) dove desiderava il padrone (i DS).
Diceva Nietzsche che ogni grande vittoria costituisce un grande pericolo. In questo caso nemmeno la piccola vittoria ma la prospettiva che il margine infinitesimale della maggioranza al Senato potesse da un momento all’altro tornare a inabissare Prodi come avevano fatto i capricci di Rossi e Turigliatto ha perigliosamente portato il centrodestra a illudersi che per far cadere il governo sarebbe bastato riportarsi, come si fa in analisi matematica, al caso precedente. Da un lato, quindi, si è dato troppo credito all’ingenuità della squadra suicida scelta nella sinistra estrema: senza considerare che, avvezzi come sono da decenni alla disciplina di partito, i vari Rossi, Turigliatto, Franca Rame e compagni avrebbero trovato il modo di turarsi non solo il naso ma anche ogni altro immaginabile orifizio prodiforme pur di impedire una vittoria al centrodestra (è esattamente questo il coraggio falangista che manca storicamente ai partiti conservatori e liberali, e che invece abbonda sulle barricate paracomuniste). Dall’altro lato si è stati così ingenui da confidare che uno due tre senatori ragionevoli, pronti a costituire la destra del centrosnistra, avrebbero fatto il lavoro sporco consegnando il pallino nelle mani di Berlusconi accontentandosi della promessa, immagino, di un sottosegretariato prossimo venturo o della più generale riconoscenza dell’Italia liberata.
Rincresce concludere che Berlusconi non ricordi il 1994, o lo ricordi male. Lui è una persona solare quindi ha ritenuto che, come nel ’94 il suo Ministro del Tesoro Lamberto Dini si sfilò dalla maggioranza del centrodestra, allo stesso modo nel 2007 il senatore egocentrico Lamberto Dini potesse sfilarsi dalla maggioranza del centrosinistra. Io che sono una persona ombrosa mi permetto di leggere una versione differente della medesima storia: come nel ’94 il Ministro del Tesoro Lamberto Dini provvide a coglionare Berlusconi per garantirsi un consistente ritorno personale (divenne infatti Presidente del Consiglio, e poi Ministro degli Esteri nel primo governo Prodi), così nel 2007 il senatore lambertodiniano Lamberto Dini è tornato a coglionare Berlusconi per garantirsi un margine di crescita personale nell’apocalisse politica appena innescata dalla creazione del Partito Democratico.
Ieri il centrodestra ha iniziato a perdere le prossime elezioni, buonanotte. Per mesi ha fatto confusione fra governo e maggioranza e, concentrandosi nel muro contro muro contro Prodi (governo), ha dato tempo e spazio sufficienti al centrosinistra (maggioranza) per riorganizzarsi attorno a un simbolo nuovo con un segretario quasi nuovo: ed è abbastanza immediato che le intenzioni del PD sono quelle di far finta di non aver nulla a che fare con DS e Margherita; che le intenzioni di Veltroni sono quelle di presentarsi all’elettorato, quando sarà, sostenendo di essere passato di lì per caso e autonominandosi del tutto estraneo allo scempio di Prodi col tracciare una netta linea di demarcazione fra governo (marcio) e maggioranza (più forte e più superba che pria) – esattamente come qualche mese fa ha fatto Sarkozy, presentandosi come alternativa d’opposizione ai quattordici anni di presidenza Chirac che pure gli avevano fruttato il Ministero dell’Interno.
Poiché nonostante le apparenze Prodi non è scemo e (avendo capito questo giochetto meglio del centrodestra) mirerà a durare il più possibile con espedienti e mezzucci evitando di governare e rimandando di mezz’ora in mezz’ora l’incombente gloria veltroniana, il centrodestra ora ha probabilmente ancora un po’ di tempo per cercare di incunearsi in extremis fra il Prodi governativo e il Veltroni maggioritario. Sarebbe bene non presentarsi agli elettori, quando sarà, rivendicando il merito di aver fatto opposizione nell’attesa del rinsavimento di Dini, o dell’ira funesta di Mastella, o di una telefonata di Pallaro, o della morte di Rita Levi Montalcini, o della mai troppo rimandata rivoluzione comunista. Sarebbe bene convocare un vertice già per stamattina e iniziare a lavorare insieme ai seguenti obiettivi immediati e comuni:
- costituire un governo ombra, con ruoli chiari e precisi per tutti, in maniera tale da tenersi pronti all’evenienza che Prodi caschi lunedì prossimo come anche nel 2011;
- elaborare una proposta unitaria di riforma elettorale, in maniera tale da avere un’idea coerente da opporre al veltronellum, che è fatto su misura per far vincere il PD a fronte dei due grandi partiti di centrodestra, e non far la fine di quelli che non volevano Napolitano al Quirinale, e che per non voler scendere a più miti consigli si ritrovano esattamente Napolitano al Quirinale;
- dare al presidente del più forte partito di centrodestra, cioè Berlusconi, il mandato di confrontarsi periodicamente col segretario del più forte partito di centrosinistra, cioè Veltroni, dimenticando Prodi e lasciandolo a macerare nelle sue acque torbide, in attesa che qualche alligatore di passaggio (Willer Bordon? ma vi pare?) se lo inghiotta una volta per tutte;
- una volta rispedito Prodi dove merita (cosa che accadrà cinque minuti dopo che Berlusconi telefona a Veltroni per dirgli che è disponibile a soluzioni che non prevedano l’immediato e terrificante ricorso alle urne), dare piena disponibilità per ogni possibile uscita dalla crisi di governo, siano le elezioni come un governo istituzionale o le larghe intese per le riforme o un ardimentoso tentativo di governo Veltroni, se proprio ha voglia di bruciarsi così. Tanta disponibilità non parrà vera al centrosinistra e ne determinerà l’impazzimento per troppa grazia, nonché il conseguente squacqueramento di una maggioranza, a ben vedere, finora compattissima.
In quel momento il centrodestra avrà vinto le elezioni del 2006, che oggi sono perse, e probabilmente anche le prossime, quando capiteranno. Oggi, di questa vittoria non sarei così sicuro (ma poiché non si sa mai, la firmetta contro Prodi entro domenica andrò a metterla).
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