martedì 25 novembre 2008

Un confronto con l'idea di romanzo

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il nuovo romanzo di Gaetano Cappelli si legge d’un fiato; cosa che nel suo caso non costituisce precisamente una novità ma serve a rimarcare il principale e sempre lodevole merito dell’autore, sin dai tempi di Parenti Lontani: aver restituito anche in Italia alta dignità letteraria al pageturner. A voler fare critica letteraria nonché politica editoriale col machete, il principale motivo per cui a quasi dieci anni di distanza Parenti Lontani è tornato in libreria, edito da Marsilio tanto in edizione economica quanto in hardback, è proprio la sua estrema fruibilità ossia, vulgo, l’irresistibile impulso di girare una pagina dietro l’altra per scoprire come va a finire.

Sembrerebbe quasi che la prosa di Cappelli sia istintivamente romanzesca, e che lo porti a includere automaticamente nei suoi capoversi i principali ingredienti tradizionali del romanzo (a partire dal XVIII secolo, sia chiaro): ossia le complicazioni dell’intreccio, l’occultamento artificioso di alcuni fondamentali aspetti caratteriali dei personaggi e la promessa di ulteriori e repentini sviluppi. Rese monumentali in Parenti Lontani, queste caratteristiche tecnico-narrative sono rimaste immutate anche nelle opere di più breve respiro del secondo Cappelli, per intenderci quelle che a partire dal 2005 sono state pubblicate da Marsilio: Il Primo, quindi la Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo e ora, appunto, La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo.

Si potrebbe ragionevolmente obiettare che i tre principali ingredienti della narrativa di Cappelli sono bene o male quelli della narrativa tout court, e che risultano palesi specialmente nella narrativa di bassa lega o, se non altro, di scarse pretese artistiche. Obiezione respinta perché in Cappelli i tre stadi del procedimento narrativo (complicazione, occultamento e previsione) sono evidentemente dei doni che usa con estrema naturalezza e non, come spesso accade nella letteratura di genere, il frutto di un’applicazione reiterata e ottusa, da catena di montaggio.

La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo, oltre a confermare la recente predilezione di Cappelli per i titoli alla Lina Wertmuller, seppur fra le righe prende di petto il rapporto fra Cappelli e la tecnica narrativa, o meglio l’idea stessa di romanzo; ed è su questo che preferirei soffermarmi piuttosto che sulla trama (troppo pirotecnica per essere spiegata senza castrarla) o sulla gradevolezza della lettura (che ritengo conclamata per tutti i possibili strati di pubblico).

Rispetto a Il Primo (2005) e alla Storia Controversa (2007), La Vedova presenta un seppur minimo riavvicinamento dimensionale alla struttura di Parenti Lontani (che tuttavia resta forse ineguagliabile nelle sue cinquecento pagine) in quanto sfonda il muro delle duecento pagine così da consentire al nuovo romanzo un più ampio respiro; non per questo tuttavia perde l’agilità narrativa stabilizzandosi sulle circa duecentocinquanta pagine, in maniera tale da conservare senza troppi patemi il forsennato concatenarsi degli eventi che caratterizzava le sue due opere precedenti, ben reso dalla spezzettatura in capitoli estremamente brevi, lunghezza massima due o tre pagine ma anche un solo capoverso.

Tanti capitoli favoriscono indubbiamente l’introduzione di tanti personaggi, grazie al frequente utilizzo del flashback o di più sofisticate tecniche narrative volte a dimostrare l’onnipotenza del narratore onnisciente – e, nel caso specifico di Cappelli, il talento dell’autore. Il mio precedente riferimento al XVIII secolo non era casuale poiché, poste le debite distanze, la scansione in capitoli per cui ha optato Cappelli coincide grossomodo con quella del Tristram Shandy di Sterne, il nonno un po’ pazzo di tutti i romanzi godibili di oggi.

Rispetto ai suoi due tentativi precedenti, ne La Vedova Cappelli sfrutta maggiormente questa struttura narrativa allo scopo di smontare dall’interno il giocattolo-romanzo. Lo fa dilatando il più possibile il proprio intervento nella trama, già di per sé estrema come adombrato peraltro dal titolo, e facendo sì che il lettore non possa non accorgersi della presenza invadente dell’autore, in maniera tale che questa (solitamente una iattura) divenga il vero valore aggiunto del romanzo. In primo luogo caratterizza con tinte forti la pletora di personaggi surreali che si alternano nel romanzo. Quindi procede a una titolazione arguta e ammiccante per i brevi capitoli, in maniera tale da fornire già in apertura una linea interpretativa improntata a un deridente scetticismo. Nessuno dei personaggi, tutti mossi da una sensazionale e grottesca avidità nei confronti di sesso e denaro, può essere identificato nell’autore il quale ciò nondimeno è il vero protagonista del romanzo: ad esempio quando sostituisce i passi più scabrosi con delle sinossi asteriscate a fine volume, sale in tribuna per esprimere la propria satira sociale, inserisce compiute digressioni teoriche (una delle quali, meravigliosa, in lode dell’infinita fantasia romanzesca a detrimento dell’illusoria libertà vigilata di internet), sbertuccia l’arte contemporanea, o addirittura conta con l’ausilio di Microsoft Word le parole scambiate da due personaggi e inserisce il risultato nel monologo interiore di uno dei due.

Come sempre l’utilizzo che fa Cappelli della lingua merita una menzion d’onore. Se è risaputo che nei suoi precedenti romanzi la fusione di Italiano colto e di dialetto potentino (o dei dintorni) gli riusciva alla perfezione, e altrettanto perfettamente gli riesce ora, ne La Vedova Cappelli compie un passo avanti spingendosi al miscuglio del dialetto con il Latino negli inserti riguardanti i sogni medievali (o la metempsicosi?) della protagonista – a titolo di esempio valga: “O filius de gran meretrix pottanazza”. Padre nobile dell’operazione l’Umberto Eco di Baudolino, se vogliamo limitarci alla narrativa italiana recentissima, ma anche la brava Annalucia Lomunno di Rosa Sospirosa.

Più in generale, Cappelli spicca per la giustapposizione carnevalesca di un registro alto e di uno infimo, che per quanto sopra le righe non risulta mai fastidiosa all’occhio del lettore (anzi all’orecchio – visto che i dialoghi di Cappelli sembrano piuttosto fabbricati per essere letti ad alta voce), divertendolo oltremodo, intrattenendolo man mano che la trama si fa più e più intrigante, e impiantando così una notevole qualità letteraria sulla struttura base del pageturner. Se dovessi infine indicare due soli motivi fra i tanti per cui vale la pena di leggere La Vedova, indicherei due passi da virtuoso. Il primo è la parodia degli annunci di coppie scambiste, un pastiche comprensivo di svarioni e tic verbali che fa emergere dall’ovvio anonimato i differenti strati sociali e condizionamenti psicologici degli orgiasti. Il secondo è il verbale dell’operazione Mantegna Coach, attorno alla quale ruota l’intero romanzo e che nonostante il tono scanzonato costituisce forse la cifra più alta dello stile di Cappelli in questa sua ultima prova: ove riferisce con perfidia flaubertiana dei sospetti “traffici d’opere d’arte e nella fattispecie di una scultura del Mantegna Andrea, di professione: artista rinascimentale”.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.