martedì 27 ottobre 2009

Chanson d'amour

(Gurrado per Quasi Rete)

atmosfera vagamente retrò
(Matia Bazar, Souvenir)

Ma io Real-Milan l’ho vista in differita, perché Rai1 talvolta ci mette un po’ troppo ad attraversare la Manica; e, appreso del vantaggio di Raul su pateracchio di Dida, mentre sul continente finiva il primo tempo ho spento ogni mezzo di comunicazione per non avere brutte sorprese e mi sono immerso irraggiungibile nella lettura di Giorgio Manganelli, alla luce stratosferica della stufa alogena. Solo quando tutta Europa sapeva il risultato, lo commentava e presumo ne era stupita, ho spento la stufa, ho raggiunto il letto, mi ci sono immerso, ho messo su la registrazione e ho preso a guardare il temporaneo finale di una partita iniziata vent’anni fa.

Accade che Real-Milan sia sempre in differita, sia sempre la replica della finale del ’58 che avrebbe potuto uccidere il filotto delle cinque Coppe biancovestite e contribuì invece al mito dei semidivini Kopa, Di Stéfano e Gento. In un Heysel che ancora non era l’inferno il Real vinse la sua terza Coppa filata con un 3-2 ai supplementari. (Di quel Real, sono fiero di dirlo, Javier Marías mi mandò qualche anno fa la fotocopia delle figurine per ringraziarmi di una recensione). Iniziò allora la rincorsa del Milan, che impiegò trentun anni per compiersi: ché la terza Coppa del Milan arrivò ufficialmente nella finale contro la Steaua, poveraccia, ma era di fatto stata conquistata nella doppia semifinale col Real, sfida in cui passato e futuro si giocavano il presente.

Mercoledì sera il Milan era al Bernabeu con gli stessi pantaloncini neri contro il candidissimo Real. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie. Il 5 aprile 1989 un volo di Hugo Sanchez in coda al primo tempo aveva dato l’impressione che la buona volontà di Berlusconi e Sacchi non sarebbe stata ripagata e che l’arcaico mito del Real sarebbe rimasto inarrivabile grazie ai buoni uffici del Real vivo e concreto dell’epoca. Quella squadra non era mica male, d’altronde: era il Real della Quinta del Buitre (Butragueño, Michel, Sanchis, Martin Vazquez e Pardeza che non se lo ricorda mai nessuno); iniziava con la cantilena Buyo, Chendo, Solana; aveva vinto due Uefa di fila non più tardi di tre anni prima e alla stagione precedente aveva disinvoltamente estromesso al primo turno il volitivo Napule maradonesco. Quando Van Basten pareggiò – e 1-1 fu fino alla fine poiché vincere al Santiago Bernabeu era come minimo impossibile – si capì che per le due settimane fra andata e ritorno il destino sarebbe rimasto in bilico e la Storia avrebbe giocato a fare l’indecisa flirtando con entrambi.

Ma il calcio, si sa, è soprattutto questione di maglie e a San Siro il Real fece l’errore di presentarsi in completo blu. Ora, ditemi voi, che credibilità può avere una sposa vestita di blu? Un Papa vestito di blu? Un Real vestito di blu non sortiva miglior figura. Quando sul tabellone apparve il risultato finale, c’era scritto un pertondo 5-0 ma doveva invece leggersi “punto di non ritorno della storia”. Le grandi d’Europa – in quell’Europa post-Heysel del beato embargo antibritannico – le grandi d’Europa erano due.

Forse non ricordate che l’attuale caravanserraglio della Coppa dei quasi Campioni, oggi accessibile anche ad arrivare quarti in Francia, iniziò col sorteggio malandrino che l’anno dopo ricollocò il Real sulla strada del Milan eurocampione. Lo collocò agli ottavi e non era una rivincita, era la Storia che diceva grossomodo: “Vuoi difendere la Coppa? Devi ripassare sul cadavere del Buitre”. Il Milan la spuntò ma con due distinguo: perse a Madrid con 0-1 ininfluente dopo il 2-0 casalingo dell’andata; e giurò che non si sarebbe mai più arrivati a tanto. Per vincere la Coppa del ’90 il Milan dovette alfine vincere quattro finali: dopo il Real vennero il miglior Malines della storia (fresco vincitore della Coppa Coppe e difeso da Michel Preud’homme, detto dai fiamminghi “er saracinesca”), il Bayern di Strunz e il Benfica di Eriksson. Fu una Coppa che ne valeva molte e purtroppo si decise che di lì in poi il sorteggio sarebbe stato pilotato da teste di serie, paracadute, seconde opzioni, palline calde, palline fredde, prime contro quarte e così via. Il punto più alto della Coppa dei Campioni fu ciò che la bruciò.

Né mi pare un caso che Milan e Real abbiano nobilmente rifiutato di incrociarsi in Europa per vent’anni esatti, come a esprimere sdegno per questa Coppa extralarge che loro stessi hanno voluto ma che tradisce Di Stéfano e Schiaffino, Butragueño e Van Basten. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie e quelle di Milan e Real non sono legate dallo sponsor accidentalmente uguale: sono state scambiate all’Heysel cinquantun anni fa come una promessa di eterna reciprocità, di amore forse.

Così Real-Milan è sempre in differita, fu sempre giocata con lo sguardo indietro e ora una ora l’altra squadra è stata di volta in volta Orfeo ed Euridice. Il primo Milan di Berlusconi voleva inseguire il mito dei blancos pentacampioni. Il Real delle ultime tre Coppe ad anni alterni voleva scacciare le ombre rossonere che si erano allungate sul continente a fine secolo.

Per questo il secondo tempo registrato, mercoledì scorso, viveva di vita propria e indipendente da Dida e Kakà, che vanno bene per le chiacchiere da lounge bar. Per questo i miei recenti vicini di casa, che mi sanno persona tranquilla e morigerata, si saranno fatti un’idea del tutto innovativa sui miei rapporti interpersonali dopo avermi sentito per tre quarti d’ora battere sul materasso e urlare attraverso muri di cartapesta: “Aaaah! Sì! All’improvviso!” (1-1 di Pirlo); “Sì! Sì! Ancora, così!” (1-2 di Pato); “No! Sacripante! Non farlo!” (2-2 di Drenthe); “[inintelligibile]” (2-3 di Pato). Io non volevo vedere i giocatori, io volevo vedere le maglie: quando ho notato il Real candidissimo e il Milan in calzoncini neri ho capito che non si giocava per il jingle della Coppa mastodontica, si giocava per finire l’opera che Van Basten aveva iniziato nel secondo tempo di vent’anni fa.

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