La volta prossima che se n'esce qualcuno dicendo scettico "Ma Enrico Brizzi? Quello di Jack Frusciante?", ho deciso il mio contegno: lo afferro per le caviglie, lo faccio roteare tre volte e poi lo scaravento verso sud-sud-ovest senza considerare gli eventuali ostacoli che possano frapporsi. Da Oxford a Gravina ho avuto tempo sufficiente a leggere Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro ed è un libro coraggioso e intenso, che dice molte più cose di quante se ne leggano in superficie. Non credete a chi dice che è la storia di un viaggio post-adolescenziale, della ricerca di sé stessi, di altre baggianate così; è un romanzo che riprende pari pari la grande tradizione medievale degli exempla morali. La storia del tatuatissimo pellegrino ex galeotto che ora ha sbocchi di integralismo cattolico d'antan ora si fa vittima sacrificale della miseria altrui è la traduzione in romanzo dei visionari sonetti di William Blake sulla tigre e sull'agnello; è una magnifica parabola di pentimento e redenzione; è un manifesto per chiunque sappia leggere il contrasto fra la fede infuocata del protagonista e il molle pretismo dei caposcout. Se considerate che un anno dopo Brizzi aveva estratto dal cilindro L'inattesa piega degli eventi, ambiziosissimo grande romanzo italiano, direi che abbiamo trovato uno scrittore vero - in Italia è merce rara. (Talmente rara che quando a Torino, alla Fiera dell'anno scorso, Brizzi veniva intervistato da una televisione locale alcuni passanti chiedevano incuriositi: "Chi è? Dj Francesco?").
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