(Gurrado per Quasi Rete)
Martedì 10 luglio 1990, i nostri guai iniziano lì. A metà giugno Agnolin da Bassano del Grappa aveva diretto la sua ultima partita, una scialba Jugoslavia-Colombia 1-0. Le Germanie erano ancora due e quella Occidentale aveva vinto due giorni prima il Mondiale in casa nostra. L’Italia non aveva gradito l’eliminazione in semifinale per mano di Maradona, o meglio per nuca di Caniggia, e all’Olimpico aveva fischiato sonoramente l’inno argentino. Nella tradizionale carrellata pre-partita, Maradona aveva atteso di finire in primo piano per sillabare distintamente: “Hijos de puta, hijos de puta”. Un po’ figli di lo eravamo veramente, d’altra parte: a fine aprile Maradona medesimo aveva condotto, trascinato anzi il Napoli al suo secondo apocalittico scudetto, complice l’improvvisa follia veronese del Milan di Sacchi, ipostatizzata nella scena di Van Basten che a un dato momento getta la maglia e se ne va; ma a fine maggio lo stesso si era rifatto conquistando la Coppa Campioni ai danni del Benfica dello svenevole Eriksson e completando il quadro dell’irripetibile supremazia continentale della bandiera tricolore. Milan in Coppa Campioni, Sampdoria in Coppa Coppe, Juventus in Uefa – per giunta sconfiggendo in finale la Fiorentina. L ’Europa era cosa nostra e così ci consolavamo, a mezz’estate, di come qualmente fosse esplosa la bolla di sapone iridata: il Mondo era andato, l’Europa restava a disposizione. Finché, martedì 10 luglio 1990, un’Ansa da Ginevra informa secca secca che “le squadre inglesi, con l’eccezione del Liverpool che è ancora sospeso per tre stagioni, potranno partecipare alla stagione 1990-91 delle coppe europee di calcio: lo ha deciso all’unanimità il comitato esecutivo dell’Uefa”.
Curiosamente sono italiane le colonne d’Ercole dei cinque anni di squalifica dell’Inghilterra dalle Coppe, sia all’inizio sia alla fine. Il 29 maggio 1985, non c’è bisogno di ricordarlo, i tifosi del Liverpool avevano schiacciato parte dei tifosi juventini nel settore Z dell’Heysel. Morirono in 39, la partita si giocò, Platini segnò su rigore ed esultò addirittura. Ognuno fa le proprie scelte e poi ammette i propri errori: se fossi stato l’Uefa avrei fatto giocare la finale da qualche altra parte la settimana dopo, contrapponendo alla Juventus il Panathinaikos sconfitto in semifinale – ma tant’è, all’epoca avevo cinque anni e scarso potere decisionale. Il 7 luglio 1990, oltre allo storico concerto di Caracalla con Carreras Domingo e Pavarotti diretti da Zubin Mehta, avviene che Italia e Inghilterra si fronteggiano per la finale del terzo posto nel Mondiale di casa nostra, nella Bari di Matarrese. A posteriori è poco più che un’amichevole (vinciamo noi per 2-1, Baggio prima Schillaci poi) come si evince dalla consegna della medaglia di bronzo anche agli Inglesi, quarti per gli almanacchi, e dall’ola congiunta delle due squadre sedute a centrocampo a fine premiazione. Gli Inglesi erano visibilmente più felici di noi perché avevano conseguito il proprio obiettivo: contro i temuti hooligan le forze dell’ordine italiane si erano presentate in assetto antisommossa e invece, salvo qualche episodio sporadico e talvolta un po’ ridicolo, non era successo nulla. L’Inghilterra aveva giocato (benino per giunta) sette partite e, lungi dal causare incidenti, a cinque anni dall’Heysel i tifosi d’Albione avevano cantato per due ore insieme a quelli italiani sugli spalti del San Nicola. Nel momento in cui Schillaci e Lineker, Bergomi e Bull, Baggio e Gascoigne erano seduti a fare la ola fianco a fianco, l’Inghilterra tornava a essere parte dell’Europa calcistica. La nota Ansa di tre giorni dopo ne era una conseguenza diretta, quasi necessaria.
Prima della squalifica, l’Inghilterra deteneva il primato di coppe europee conquistate: otto Coppe Campioni (di cui sei consecutive, dal Liverpool edizione ’77 all’Aston Villa ’82), cinque Coppe delle Coppe (dal Tottenham nel ’63 all’Everton nell’85) e nove Coppe delle Fiere o Uefa (sei di fila dal Leeds ’68 al Liverpool ’73): complessivamente ventidue trofei, nientemeno, ai quali andavano aggiunte altre tre Supercoppe tanto per gradire. Nei cinque anni successivi le squadre italiane ne approfittano per vincere due Coppe Campioni, una Coppa Coppe, due Uefa e due Supercoppe. Ciò nondimeno, revocata la squalifica, il primato inglese restava ancora intatto.
Prima che qualcuno sminuisca il Milan di Sacchi dovrà passare sul mio cadavere, ma bisognerebbe chiedersi se la storia sarebbe rimasta uguale qualora l’Heysel fosse stato miracolosamente evitato. Negli anni in cui i rossoneri spadroneggiavano su ogni campo (escluso quello dell’Olympique Marsiglia), il Liverpool di Barnes e Rush era più che mai vivo e operante, l’Aston Villa di David Platt era la realtà emergente e il Manchester United di Alex Ferguson, proprio lui, vincevala FA Cup gettando le basi di un’impressionante sfilza di vittorie che, anno dopo anno, dura ancor oggi – e, direbbe un Mourinho repentinamente dantesco, il modo ancor m’offende. Forse, dovendo giocare qualche partita in più con un contingente inglese a pieno organico, le italiane avrebbero vinto qualche coppa in meno.
Il dizionario del calcio Italiano-Inglese contiene voci memorabili. Alla H di Highbury c’è la sfida epica lanciata nel novembre 1934 dagli inventori del calcio, che si rifiutavano nobilmente di partecipare alle competizioni internazionali onde evitare umiliazioni agli avversari, alla nazionale di Pozzo campione del Mondo in carica. Pare di capire che già l’invito costituisse un onore sufficiente. La stampa inglese, notoriamente propensa a moderazione e cautela, pronosticava punteggi ultratennistici del tipo 10-0 e così via; e l’evenienza che dopo meno di un quarto d’ora l’Inghilterra stesse già vincendo 3-0 tendenzialmente dava ragione ai giornalisti. Finì 3-2 invece, con doppietta di Meazza nel secondo tempo, e fu la sconfitta più gloriosa d’Italia, dalla quale gli azzurri uscirono come leoni di Highbury e con una nuova consapevolezza che consentì loro di vincere le Olimpiadi berlinesi del ’36 e l’avverso Mondiale francese del ’38. Alla W di Wembley invece c’è il disperato gattonare di Peter Shilton, nel novembre 1974, onde evitare che il tiro beffardo di Fabio Capello s’infilasse, a cinque minuti dalla fine, nel sacco della sua porta sancendo la prima vittoria italiana su terreno (bagnato) inglese. Se oggi lo stesso Capello siede sulla panchina dell’Inghilterra, forse lo deve non tanto ai numerosi successi mietuti dentro e fuori i confini patri quanto al fatto che Shilton, allungandosi quantunque, il suo tiro non riuscì ad acchiapparlo. Prova ne sia che un altro italiano piuttosto ascoltato da quelle parti, Gianfranco Zola, deve la propria autorità all’aver riproposto il medesimo exploit ventitre anni dopo.
Il bilancio complessivo degli scontri Italia-Inghilterra non è così terrificante: 9 vittorie, 6 pareggi e 7 sconfitte. Però i numeri non dicono tutto Già il fatto che i nostri principali ricordi storici siano legati a un paio di risicate vittorie e a una combattuta benché annunciata sconfitta non depone a favore del nostro calcio. Idem per le coppe europee: quando il Genoa sconfisse il Liverpool ad Anfield, nella Uefa ’92, ci si rese conto che nessun club italiano aveva mai sconfitto uno inglese in trasferta e si gridò pressappoco al miracolo. Particolarmente significativo, e quasi poetico, che a riuscire nell’impresa fosse la squadra – fondata da Inglesi e con nome inglese – che aveva insegnato il calcio al resto d’Italia. Forse ci sarebbe riuscito prima il Milan di Sacchi, se avesse potuto, ma manca la prova concreta. Di sicuro resta che il rigore di Platini, quasi cancellato dalla memoria nella tragedia, ha segnato per ventidue anni l’ultima grande affermazione italiana in finale contro un club inglese: col senno di poi, l’incanto è stato rotto due anni fa da Pippo Inzaghi, ad Atene, Milan-Liverpool 2-1. Ma per arrivare a tanto lo stesso Milan era dovuto passare attraverso le forche caudine di Istanbul, contro lo stesso avversario nel 2005.
Scontata la squalifica, le squadre inglesi hanno vinto tre Coppe Campioni (contro quattro vinte dalle italiane), tre edizioni della defunta Coppa delle Coppe (contro due italiane) e una sola Uefa (contro quattro italiane, l’ultima dieci anni fa): complessivamente siamo avanti sette a dieci, ma anche in questo caso i numeri non dicono tutto. A seguito della riforma del calcio europeo, che tende ad accorpare il meglio di ogni campionato nella Champions League lasciando le frattaglie alla futura Uefa Europa League (un nome orrendo per un torneo così così), la gloria di una nazione va misurata non tanto in base al numero di vittorie quanto alla strada che fanno le sue rappresentanti: la nobiltà in Champions e il ceto medio in Uefa. La storia recente dice purtroppo che non piazziamo un’italiana in finale di Uefa dal 1999 (nel frattempo l’Inghilterra ce ne ha spinte tre), mentre tutti ricordano che nelle ultime due Champions League l’Inghilterra ha comodamente sistemato tre semifinaliste su quattro (l’Italia rispettivamente una nel 2007 e nessuna nel 2008). Quest’anno siamo ancora ai quarti e l’Inghilterra propone quattro squadre su otto: le restanti sono due spagnole, una portoghese, una tedesca e nessun’italiana.
Ma questo dovevamo capirlo già nel 1991, l’anno che segnò in un sol colpo il ritorno degli Inglesi in Europa (benché in formato ridotto: Manchester United in Coppa Coppe, Aston Villa in Uefa, nessuno in Coppa Campioni) e la fine della nostra breve dittatura indiscussa sulle competizioni europee. Si trattò solo di una coincidenza? Se consideriamo il cammino parallelo di Italiane e Inglesi nella prima edizione post-Heysel, ci sono due segnali piuttosto significativi. Il primo è che l’Aston Villa, dopo avere fatto fuori l’imbarazzante Banik Ostrava, rischiò seriamente di eliminare l’Inter ai sedicesimi: grazie a un’impresa i nerazzurri riuscirono a vincere 3-0 in casa, ribaltando con non pochi affanni lo 0-2 subito a Birmingham due settimane prima. Quell’Inter poi vinse la Uefa senza più perdere una partita salvo l’ininfluente finale di ritorno con la Roma. Il secondo segnale è che la Juventus , nostra miglior rappresentante in Coppa Coppe, dovette cedere il passo in semifinale all’ottimo Barcellona di Zubizarreta e Laudrup, che però in finale venne sconfitto in scioltezza dal redivivo Manchester United: 2-1 e una squadra inglese torna a vincere in Europa al primo tentativo. La cosa impressionante è che quello stesso United, che l’anno prima aveva vinto la FA Cup , in campionato era arrivato tredicesimo ex aequo con Manchester City e Crystal Palace, con cinque punti in più della retrocessione e trentuno in meno del Liverpool vincitore, che non poté prendere parte alla Coppa dei Campioni perché ultima e unica squadra inglese ancora punita dalla squalifica post-Heysel.
Come a livello di nazionale abbiamo un complesso nei confronti del Brasile, l’unico in grado di batterci nelle finali dei Mondiali, a livello di club abbiamo un inferiority complex mica da ridere al cospetto delle squadre inglesi: questo affonda le sue radici in decenni dimenticati e il nostro scintillante ma effimero dominio negli anni della squalifica post-Heysel ha contribuito a farlo sottovalutare. Perspicaci oltremodo, ce ne siamo ricordati mercoledì scorso; ma forse è troppo tardi.
[Questa perorazione è sorella gemella di un pezzo di Vanda Wilcox, sempre per Quasi Rete, intitolato Niente Champions, siamo Inglesi]
Curiosamente sono italiane le colonne d’Ercole dei cinque anni di squalifica dell’Inghilterra dalle Coppe, sia all’inizio sia alla fine. Il 29 maggio 1985, non c’è bisogno di ricordarlo, i tifosi del Liverpool avevano schiacciato parte dei tifosi juventini nel settore Z dell’Heysel. Morirono in 39, la partita si giocò, Platini segnò su rigore ed esultò addirittura. Ognuno fa le proprie scelte e poi ammette i propri errori: se fossi stato l’Uefa avrei fatto giocare la finale da qualche altra parte la settimana dopo, contrapponendo alla Juventus il Panathinaikos sconfitto in semifinale – ma tant’è, all’epoca avevo cinque anni e scarso potere decisionale. Il 7 luglio 1990, oltre allo storico concerto di Caracalla con Carreras Domingo e Pavarotti diretti da Zubin Mehta, avviene che Italia e Inghilterra si fronteggiano per la finale del terzo posto nel Mondiale di casa nostra, nella Bari di Matarrese. A posteriori è poco più che un’amichevole (vinciamo noi per 2-1, Baggio prima Schillaci poi) come si evince dalla consegna della medaglia di bronzo anche agli Inglesi, quarti per gli almanacchi, e dall’ola congiunta delle due squadre sedute a centrocampo a fine premiazione. Gli Inglesi erano visibilmente più felici di noi perché avevano conseguito il proprio obiettivo: contro i temuti hooligan le forze dell’ordine italiane si erano presentate in assetto antisommossa e invece, salvo qualche episodio sporadico e talvolta un po’ ridicolo, non era successo nulla. L’Inghilterra aveva giocato (benino per giunta) sette partite e, lungi dal causare incidenti, a cinque anni dall’Heysel i tifosi d’Albione avevano cantato per due ore insieme a quelli italiani sugli spalti del San Nicola. Nel momento in cui Schillaci e Lineker, Bergomi e Bull, Baggio e Gascoigne erano seduti a fare la ola fianco a fianco, l’Inghilterra tornava a essere parte dell’Europa calcistica. La nota Ansa di tre giorni dopo ne era una conseguenza diretta, quasi necessaria.
Prima della squalifica, l’Inghilterra deteneva il primato di coppe europee conquistate: otto Coppe Campioni (di cui sei consecutive, dal Liverpool edizione ’77 all’Aston Villa ’82), cinque Coppe delle Coppe (dal Tottenham nel ’63 all’Everton nell’85) e nove Coppe delle Fiere o Uefa (sei di fila dal Leeds ’68 al Liverpool ’73): complessivamente ventidue trofei, nientemeno, ai quali andavano aggiunte altre tre Supercoppe tanto per gradire. Nei cinque anni successivi le squadre italiane ne approfittano per vincere due Coppe Campioni, una Coppa Coppe, due Uefa e due Supercoppe. Ciò nondimeno, revocata la squalifica, il primato inglese restava ancora intatto.
Prima che qualcuno sminuisca il Milan di Sacchi dovrà passare sul mio cadavere, ma bisognerebbe chiedersi se la storia sarebbe rimasta uguale qualora l’Heysel fosse stato miracolosamente evitato. Negli anni in cui i rossoneri spadroneggiavano su ogni campo (escluso quello dell’Olympique Marsiglia), il Liverpool di Barnes e Rush era più che mai vivo e operante, l’Aston Villa di David Platt era la realtà emergente e il Manchester United di Alex Ferguson, proprio lui, vinceva
Il dizionario del calcio Italiano-Inglese contiene voci memorabili. Alla H di Highbury c’è la sfida epica lanciata nel novembre 1934 dagli inventori del calcio, che si rifiutavano nobilmente di partecipare alle competizioni internazionali onde evitare umiliazioni agli avversari, alla nazionale di Pozzo campione del Mondo in carica. Pare di capire che già l’invito costituisse un onore sufficiente. La stampa inglese, notoriamente propensa a moderazione e cautela, pronosticava punteggi ultratennistici del tipo 10-0 e così via; e l’evenienza che dopo meno di un quarto d’ora l’Inghilterra stesse già vincendo 3-0 tendenzialmente dava ragione ai giornalisti. Finì 3-2 invece, con doppietta di Meazza nel secondo tempo, e fu la sconfitta più gloriosa d’Italia, dalla quale gli azzurri uscirono come leoni di Highbury e con una nuova consapevolezza che consentì loro di vincere le Olimpiadi berlinesi del ’36 e l’avverso Mondiale francese del ’38. Alla W di Wembley invece c’è il disperato gattonare di Peter Shilton, nel novembre 1974, onde evitare che il tiro beffardo di Fabio Capello s’infilasse, a cinque minuti dalla fine, nel sacco della sua porta sancendo la prima vittoria italiana su terreno (bagnato) inglese. Se oggi lo stesso Capello siede sulla panchina dell’Inghilterra, forse lo deve non tanto ai numerosi successi mietuti dentro e fuori i confini patri quanto al fatto che Shilton, allungandosi quantunque, il suo tiro non riuscì ad acchiapparlo. Prova ne sia che un altro italiano piuttosto ascoltato da quelle parti, Gianfranco Zola, deve la propria autorità all’aver riproposto il medesimo exploit ventitre anni dopo.
Il bilancio complessivo degli scontri Italia-Inghilterra non è così terrificante: 9 vittorie, 6 pareggi e 7 sconfitte. Però i numeri non dicono tutto Già il fatto che i nostri principali ricordi storici siano legati a un paio di risicate vittorie e a una combattuta benché annunciata sconfitta non depone a favore del nostro calcio. Idem per le coppe europee: quando il Genoa sconfisse il Liverpool ad Anfield, nella Uefa ’92, ci si rese conto che nessun club italiano aveva mai sconfitto uno inglese in trasferta e si gridò pressappoco al miracolo. Particolarmente significativo, e quasi poetico, che a riuscire nell’impresa fosse la squadra – fondata da Inglesi e con nome inglese – che aveva insegnato il calcio al resto d’Italia. Forse ci sarebbe riuscito prima il Milan di Sacchi, se avesse potuto, ma manca la prova concreta. Di sicuro resta che il rigore di Platini, quasi cancellato dalla memoria nella tragedia, ha segnato per ventidue anni l’ultima grande affermazione italiana in finale contro un club inglese: col senno di poi, l’incanto è stato rotto due anni fa da Pippo Inzaghi, ad Atene, Milan-Liverpool 2-1. Ma per arrivare a tanto lo stesso Milan era dovuto passare attraverso le forche caudine di Istanbul, contro lo stesso avversario nel 2005.
Scontata la squalifica, le squadre inglesi hanno vinto tre Coppe Campioni (contro quattro vinte dalle italiane), tre edizioni della defunta Coppa delle Coppe (contro due italiane) e una sola Uefa (contro quattro italiane, l’ultima dieci anni fa): complessivamente siamo avanti sette a dieci, ma anche in questo caso i numeri non dicono tutto. A seguito della riforma del calcio europeo, che tende ad accorpare il meglio di ogni campionato nella Champions League lasciando le frattaglie alla futura Uefa Europa League (un nome orrendo per un torneo così così), la gloria di una nazione va misurata non tanto in base al numero di vittorie quanto alla strada che fanno le sue rappresentanti: la nobiltà in Champions e il ceto medio in Uefa. La storia recente dice purtroppo che non piazziamo un’italiana in finale di Uefa dal 1999 (nel frattempo l’Inghilterra ce ne ha spinte tre), mentre tutti ricordano che nelle ultime due Champions League l’Inghilterra ha comodamente sistemato tre semifinaliste su quattro (l’Italia rispettivamente una nel 2007 e nessuna nel 2008). Quest’anno siamo ancora ai quarti e l’Inghilterra propone quattro squadre su otto: le restanti sono due spagnole, una portoghese, una tedesca e nessun’italiana.
Ma questo dovevamo capirlo già nel 1991, l’anno che segnò in un sol colpo il ritorno degli Inglesi in Europa (benché in formato ridotto: Manchester United in Coppa Coppe, Aston Villa in Uefa, nessuno in Coppa Campioni) e la fine della nostra breve dittatura indiscussa sulle competizioni europee. Si trattò solo di una coincidenza? Se consideriamo il cammino parallelo di Italiane e Inglesi nella prima edizione post-Heysel, ci sono due segnali piuttosto significativi. Il primo è che l’Aston Villa, dopo avere fatto fuori l’imbarazzante Banik Ostrava, rischiò seriamente di eliminare l’Inter ai sedicesimi: grazie a un’impresa i nerazzurri riuscirono a vincere 3-
Come a livello di nazionale abbiamo un complesso nei confronti del Brasile, l’unico in grado di batterci nelle finali dei Mondiali, a livello di club abbiamo un inferiority complex mica da ridere al cospetto delle squadre inglesi: questo affonda le sue radici in decenni dimenticati e il nostro scintillante ma effimero dominio negli anni della squalifica post-Heysel ha contribuito a farlo sottovalutare. Perspicaci oltremodo, ce ne siamo ricordati mercoledì scorso; ma forse è troppo tardi.
[Questa perorazione è sorella gemella di un pezzo di Vanda Wilcox, sempre per Quasi Rete, intitolato Niente Champions, siamo Inglesi]
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