Riguardo alla sopravvivenza di Gesù, ho detto “dato di fatto” per rendere giustizia alla sottile arte narrativa di Sinoué. Ci ricordiamo fin troppo dell’effetto Codice da Vinci e soprattutto della rissa di plastica che è stata costruita intorno all’operazione editoriale libro più film, che ha portato istintivamente folle inferocite che prima di allora avevano raramente avuto a che fare con dei libri a dividersi fra favorevoli e contrari, fra apologeti e iconoclasti, ecclesiastici e presunti spiriti liberi. Il tutto perché, in ottemperanza all’andazzo dei tempi, si era voluto blindare il successo dell’operazione editoriale (riuscita) insufflando il sospetto che i contenuti di Dan Brown e/o Tom Hanks fossero veritieri e che quindi fosse plausibile che (come era già stato suggerito in teorie precedenti già parodiate da Eco nel Pendolo di Foucault) Gesù fosse sfuggito alla sepoltura e scappato in Francia a garantirsi una discendenza regale. Questo ha causato il successo del libro presso le fasce poco istruite e ha reso piuttosto ridicolo il film; soprattutto, l’insistenza sulla veridicità del contenuto ha tolto dignità al romanzo.
Filosoficamente parlando, invece, il romanzo è un come se: il lettore lo apre garantendo volontariamente e automaticamente all’autore una fiducia basata sul presupposto che le storie raccontate siano vere a libro aperto e fasulle a libro chiuso. Sinoué gioca esattamente su quest’ambiguità di fondo: prende il lettore, gli mette sotto gli occhi un presupposto controfattuale e glielo spaccia per antefatto indiscutibile. Quindi lo puntella con la ricostruzione collettiva – ad opera dei sempre più perplessi Pilato, Caifa, Nicodemo e compagnia – di come possa essere effettivamente successo che un uomo, crocifisso e sepolto, sia rinchiuso in una cella e invece appaia qua e là.
Essendo un giallo, per quanto atipico, non ne svelo la soluzione. Dico solo che lascerà di stucco chi si aspettava un attacco frontale alla risurrezione; e infatti questa soluzione, che mostra l’incolmabile distanza fra progetti umani e disegni divini, arriverà da Gesù stesso al quale (come si evince dal titolo) è lasciato l’onore della prima persona nella riproduzione diacronica dei papiri su cui via via va scrivendo. Il romanzo vive infatti dell’alternanza fra il progredire della vicenda, in carattere più esteso e narrato in terza persona, e la lettura delle memorie di Gesù, come se il lettore potesse trovarsi alle sue spalle mentre compone. E già questo deve sorprendere, e rivelare più di una cosa riguardo al procedimento tecnico di Sinoué, che avanza in equilibrio stabile sul filo del paradosso: nei Vangeli, di Gesù tutto si dice tranne che sappia scrivere. Viene detto tutt’al più che dopo aver salvato l’adultera dalla lapidazione si chinò a tracciare segni col dito sulla sabbia. Sinoué se la cava premettendo subito, per mano dello stesso personaggio-Gesù, che questi abbia imparato da bambino a leggere e scrivere in aramaico; e verso la fine del romanzo gli apostoli sveleranno il contenuto (dal sapore gnostico) della scritta misteriosa.
Vero e non vero sono per Sinoué due facce della stessa medaglia. Il vero è costituito da due componenti: ciò che tutti nell’Occidente cristiano sanno riguardo a Gesù, e che deriva dai Vangeli e dalla tradizione ecclesiastica; e ciò che invece è stato storicamente acclarato riguardo alla vita di Gesù e che, pur non essendo dirimente, fatica a venire accettato dal fedele medio (ad esempio che possa essere nato di primavera intorno al
Sinoué utilizza la struttura storica ed evangelica come impalcatura (vera) sulla quale impiantare la trama (falsa) per renderla solida. La commistione è tecnicamente perfetta e sortisce il risultato parallelo (ma assolutamente non trascurabile) di rendere il romanzo fruibile a chiunque e per nulla offensivo agli occhi dei lettori cattolici: perché non c’è alcuna acrimonia, perché il personaggio di Gesù è plausibile e amabile, perché la soluzione del giallo salva capre e cavoli, e infine perché vige il presupposto aristotelico della verosimiglianza, valido solo a libro aperto.
Soprattutto, perché è scritto non bene, benissimo (e altrettanto bene tradotto, complimenti a Giuliano Corà). Sapendo che le nude parole sono l’unico armamentario di uno scrittore vero, Sinoué prende in prestito quelle della Bibbia e, per così dire, le trascolora nel nuovo contesto narrativo. L’attacco del volume, le quattro pagine in cui Gesù racconta “lo strazio delle spine”, è un florilegio di citazioni sacre che andrebbe fatto studiare obbligatoriamente in ogni scuola di scrittura, se le scuole di scrittura servissero a qualcosa. Sinoué ha un senso estetico altissimo, che lo spinge a riportare integralmente i passi più belli e limpidi dei Vangeli: il triplice invito “pasce agnos meos”, il rasserenante “guardate i gigli dei campi”, il minaccioso “non la pace ma la spada”. Sinoué tuttavia li ricolloca e pur citandoli con fedeltà estrema li rende funzionali all’andamento del romanzo. L’esempio migliore è il vibrante dialogo con
È riuscito nell’incredibile, Gilbert Sinoué: ha scritto un libro che vuole discostarsi dalla tradizione cristiana (liberissimo di farlo) e al contempo le rende un omaggio sincero, coltissimo, tutto cuore e cervello. Ha esposto i pro e i contro in un’unica sinfonia narrativa e così facendo ha prodotto uno dei migliori romanzi che siano stati importati in Italia lo scorso anno.
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