lunedì 9 marzo 2009

Chissà se

(Gurrado per Quasi Rete)

Chissà se Ronaldinho, probabilmente no, è a conoscenza del fatto di essere uno dei personaggi più riusciti di un curioso romanzo calcistico russo, Un fuoriclasse vero di Sergej Samsonov (edizioni Isbn). Eppure viene ritratto così com’è – anzi, così come ci s’immagina che sia in base a come gioca (o giocava). Forse quella del Gáucho che sorride ognor con i dentoni, stravaccato sul divano mentre si accanisce in bermuda sulla playstation, è un’immagine solare ma stereotipa, l’idée reçue del profeta della pedata a cuor leggero, che si gode la vita in ogni suo istante, compreso perfino quando gioca a calcio al centro di migliaia, milioni di occhi. Se lo sapesse Ronaldinho, presumibilmente scodinzolerebbe tutto contento; ma si adombrerebbe nel momento di apprendere che il protagonista, il “fuoriclasse vero” del titolo, non è lui ma un oscuro ragazzino russo.

Chissà se Semën Šuvalov ha qualcosa, m’è venuto da pensare, di Andrei Arshavin. Le date di nascita grossomodo coincidono così come il ruolo, ma le carriere per nulla: di Arshavin sappiamo già tutto, mentre di Šuvalov apprendiamo che ha dovuto lasciare la Russia in una specie di container per poter approdare nella squadra dei suoi sogni, il Barcellona di Rijkaard e Ronaldinho, in modo tale da sfuggire alle brame di Koplevič, il magnate russo proprietario del Tottenham allenato dal grande e arrogante José Gaudinho (in tutto ciò c’è qualcosa che non mi suona, ma lascio le conclusioni al vostro buon cuore). Una volta al Barcellona, Šuvalov inizia a dimostrare una dimestichezza quasi eccessiva coi compagni di squadra, con gli schemi e – ça va sans dire – con la porta avversaria. Viene lasciato intuire che tutto ciò è dovuto a tre fattori: una visione infantile, una perfetta identificazione coi blaugrana, una propensione istintiva per il nucleo segreto del senso del calcio.

Chissà se la visione infantile di Šuvalov, il goal di Van Basten all’Unione Sovietica, vada oltre il contingente per racchiudere in sé un’istanza storico-geografica. Dovrebbe essere così perché altrimenti Samsonov, che si riserva di giocare ammiccando con un’inquietante ricollocazione dei dettagli di storia calcistica, non avrebbe spostato il goal in questione di due anni: dalla finale di Euro ’88 a quella dei Mondiali ’90. La finale di un Mondiale è una specie di fine del mondo, e il tiro al volo da posizione angolatissima di Van Basten diventa un’apparizione apocalittica, uno squarcio nella maniera consueta di concepire l’universo e il pallone, il culmine di quattro anni di calci in cinque continenti. Il piccolo Šuvalov, che resta folgorato dal gesto che sconfigge la più forte Unione Sovietica di sempre, è per così dire incaricato di una missione sovrapersonale: sostituire Van Basten come ulteriore incarnazione di Johann Crujff; e, perché ciò avvenga, è necessario il Barcellona. In questo, più che una bella copia di Arshavin, Šuvalov è la proiezione del riscatto di un’intera nazione, il fuoriclasse geniale che all’URSS è sempre mancato (ciò che non fu Oleg Blochin, né Belanov né Michailichenko).

Chissà se l’ufficio stampa del Barcellona ha gradito la descrizione degli schemi di Rijkaard (il romanzo è del 2007), così com’è tratteggiata da Samsonov, che cito quasi per intero: I giocatori in maglia blaugrana, simili ad avvoltoi, volteggiavano ancora a notevole distanza dalla porta avversaria. Ora l’uno ora l’altro, senza guardare, si liberavano del pallone passandolo al compagno con tocco repentino, schifiltoso, del piede, quasi che avessero timore di sporcarsi o scottarsi; ma un secondo più tardi il compagno restituiva loro il regalo. (…) Con quella fitta ragnatela di passaggi i catalani stanavano ogni avversario, il quale prima o poi avrebbe cominciato ad attaccarli, lasciando involontariamente dei varchi nella propria difesa. In quei varchi si incuneava fulmineo il pallone. (…) Ognuno di quei cinquanta e più possibili passaggi precisi in sé stesso non racchiudeva alcuna minaccia. Pareva che i catalani non volessero spingersi in avanti rischiando di perdere il possesso della palla; a prima vista, i loro movimenti erano inutili.

Chissà se l’inutilità del gioco del Barça – che ricorda fin troppo tutta “l’arte perfettamente inutile” secondo Oscar Wilde – calza a meraviglia il piede di Šuvalov, intimamente convinto dell’assurdità di fondo del gioco del calcio: Non c’è niente di più goffo che cercare di raggiungere le cose con i piedi, i quali per la loro stessa natura non possono afferrare, trattenere impadronirsi di nulla. (…) Il piede scaraventa lontano, distrugge, calpesta. I morti vengono condotti fuori dalla casa “con i piedi in avanti”. Con i piedi si calpestano le spoglie mortali. I piedi sono fatti per distruggere. Il piede è simbolo di morte. Lungi dal lasciarsi risucchiare dal gorgo irreversibile dell’antropologia culturale, Šuvalov si sente istintivamente parte integrante dell’assurda melina e ne partecipa con la stessa indifferente perfezione del tassello di un puzzle che combacia con tutto il resto. Il suo è un calcio teleologico. Ronaldinho sembra essere stato inventato apposta per servirlo; tutta la fitta rete di passaggi blaugrana ha in Šuvalov il vertice e la giustificazione. Arriva il giorno in cui Šuvalov è il Barcellona e viceversa.

Chissà se Samsonov ha voluto esprimere dei giudizi impliciti sul calcio italiano evitando di nominare mezza volta l’Ambrosiana Inter, facendo invece arrivare miracolosamente il Milan in finale di Champions League (contro il Barcellona, ci mancherebbe) e riconoscendo alla Juventus il conseguimento della perfezione tattica e bellica: Nessuno lo avrebbe marcato a uomo, ma la scuola e il talento dei difensori torinesi erano tali da permettere loro di intercettare istantaneamente il nemico in area di rigore non appena questi, ricevuta palla, cercava di controllarla e muovere il primo passo. (…) A Šuvalov sarebbero bastati due o tre secondi per decidere tutto, ma loro non glieli concedevano. Proprio dalla consapevolezza della superiorità tattica della difesa juventina nasce il dubbio che è la rovina di Šuvalov e il fulcro misterioso del romanzo, e che ho voluto lasciare alla fine, come il sugo di tutta la recensione.

Chissà se a Samsonov l’idea del dubbio è venuta dalla bisaccia d’invenzioni che ogni romanziere dovrebbe portarsi appresso, o più semplicemente dalla mera visione di una partita di Champions League incrociata con qualche pubblicità che decanta l’infallibilità di questo o quel campione semidivino. La sperequazione fra quello che si vede sul campo e quello che viene comunicato dagli spot è enorme. Sul campo anche i semidei sono sottoposti alle leggi dei mortali, dove nessuno è immune dall’infortunio o dalla disdetta o dalla porcheria, e dove – poniamo – anche un Santon può fermare Cristiano Ronaldo. Negli spot la distinzione fra il ristretto numero di semidei e la vasta maggioranza di onesti pedatori viene dilatata a dismisura, resa incolmabile dalla reiterazione sempiterna di immagini della momentanea perfezione del campione, così che – poniamo – lo spot calcistico crea un mondo di plastica in cui Cristiano Ronaldo segna sempre e Santon nemmeno possiamo sognarcelo. Come che sia, a Samsonov viene l’idea e a Šuvalov il dubbio: non è che la perfetta difesa della Juventus viene bucata un paio di volte perché Thuram decide scientemente di non marcarlo per tutto il secondo tempo, lasciandogli ogni volta quei decisivi due-tre secondi di vantaggio? Non è che intorno al campione si crea un’aura di intoccabilità che gli garantisce di reiterare a oltranza le temporanee mosse inarrestabili che hanno infiammato la fantasia dei tifosi? Non è la testimonianza della progressiva trasformazione del calcio (coi suoi infortuni, le sue rogne e le sue porcherie) in un gigantesco spot globale incentrato su un gruppo ristretto di semidei, alcune volte alleati altre volte contrapposti? Non è che il giovane imbattibile Šuvalov è l’ennesimo protagonista di una messinscena programmata a tavolino, umiliante per sé e per gli altri?

Chissà se, fuori dal romanzo, di Šuvalov non ne esiste nessuno, o se invece ce ne sono troppi.

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