Finalmente domenica!
Settima giornata, 7 ottobre 2012
Ieri sera il treno da Porta Venezia a Pavia ha accumulato un ritardo pari all’intero tragitto quindi ho avuto tutto l’agio di leggere un libro che avevo comprato per caso, curiosità e sbaglio essendo stato tratto in inganno dal titolo Questioni delicate che ho affrontato dall’analista, o cose del genere. Non ricordo l’autore. Fatto sta che leggendo leggendo mi sono imbattuto nell’unica frase che meritasse di essere ricordata, in realtà un dialogo: “Quand’è che la gente smette di fare quello che fa perché ci crede e continua a farlo per i motivi più strani?” “Credo verso i trent’anni”.
Sarà che fra un paio di mesi ne compio trentadue ma nel preciso istante mi sono reso conto che avevo appena passato l’ora più gradevole della settimana, a casa di savio a guardare una replica di Mai Dire Gol risalente al dicembre 1998. Guardare la tv al sabato pomeriggio, una cosa che non facevo dai tempi del liceo, appunto quell’anno lì. Guardare Mai Dire Gol e accorgermi che quindici anni fa, ma anche venti, era ancora possibile parlare di calcio a un livello diverso; non solo più alto semanticamente e creativamente ma proprio in senso letterale, ossia su un piano differente rispetto al modo uno e trino nel quale il lessico sportivo viene declinato oggidì da Sky, Mediaset Premium e Rai Sport (senza dimenticare Sportitalia). Fate conto che avevamo appena finito di guardare un minuto del campionato di pallavolo, con Antinelli & Lucchetta che si profondevano in commenti di questo tenore: “Fiore muove le braccia a tergicristallo e deposita non un petalo ma un cactus nel campo avversario”. L’alternativa era continuare a guardare la replica a oltranza di Wellington-Sidney.
E così Mai Dire Gol, visto con gli occhi stanchi di oggi, sembra un miracolo di felicità stilistica tanto quanto mi sembra miracolosa l’ipotesi, l’involontario ricordo, la madeleine dei pomeriggi del liceo in cui o guardavo la tv o facevo i compiti o leggevo e scrivevo senza che nulla mi pesasse addosso, vivendo insomma con la stessa felicità stilistica per la quale la Gialappa’s Band riusciva a rinchiudere in una sola inquadratura Crozza, Bisio, Gioele Dix e la Littizzetto senza far pensare che stessero esagerando.
La stessa, grossomodo, che ho visto nei gesti bensì impacciati di un giovane ex calciatore, che per convenzione chiameremo Mimmo, mentre tentava di aprire il portone di un albergo con un’impaziente amica di fianco. Ecco, io nel 1998, ma anche nel ’97 e nel ’96, facevo cose nell’incrollabile consapevolezza che mi avrebbero portato, un giorno, alla gloria al denaro al successo e all’opportunità di portarmi in albergo chi mi pareva come l’ammirevole invidiabile Supermimmo. La prospettiva mi allettava e la fatica svaniva; facevo tutto ciò che facevo perché mi piaceva e ci credevo. Oggi so che gloria e successo non sono arrivati, i soldi men che meno, in albergo ci vado da solo, vorrei vivere nel 1998 perpetuo, ho passato i trent’anni e continuo a fare cose per i motivi più strani, che non mi sono del tutto chiari.
[Il resto della rubrica, con la metà di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]