(lunedì 19 febbraio 2007, copyright Stilos: il quindicinale dei libri, anno IX n.4)
Inconsolabile è la persona il cui tempo è irrimediabilmente spezzato in un prima e in un dopo inconciliabili, e il cui pensiero ritorna ossessivamente al momento di rottura poiché sa che non può risalire più indietro nel passato senza provare una fitta straziante. L’esordio narrativo di Anne Godard è la spietata e chirurgica traduzione in forma di romanzo di questa definizione: la storia di una madre che ha vissuto il momento irreparabile della perdita di un figlio e del suo ossessivo vivere in funzione di quest’avvenimento, di giorno in giorno, di anniversario in anniversario, morbosamente aggrappata al ricordo di un vuoto. La stanza del giovane, custodita intatta per decine d’anni, è l’ultima compagna della sua vecchiaia: abbandonata dal marito, sottilmente disprezzata dai figli minori, per certi versi dimenticata dagli amici, la protagonista vi si rintana per immergersi consapevolmente in un flusso di memorie che ruotano tutte, inevitabilmente, intorno al momento della morte altrui. Quando decide di affrontare direttamente - violentemente quasi - la ricostruzione del trauma dimenticato, di fronte al riemergere della sofferenza fino ad allora controllata e quasi venerata, rivedendo e rivivendo la scomparsa del proprio figlio, la madre smette di essere madre e necessariamente inizia a morire.
A soli trentasei anni, Anne Godard ha prodotto un romanzo il cui ritmo è scandito dalla perizia con la quale dissemina lungo la rama dei ricordi indizi psicologici che danno la cifra della perdita sofferta dalla donna. Il tempo narrativo, composto da dieci capitoli ben proporzionati, vive della discrasia fra il prima e il dopo: un passato in cui tutto sembra correre troppo in fretta verso la morte del figlio e un continuo presente di istanti sospesi e reiterati, frutto di una perdita di senso che all’esperienza della morte quotidianamente si rifà. Un romanzo triste, certo, ma non lamentoso, stante la bravura di Anne Godard nel distinguersi sottilmente dalla protagonista, ora sovrapponendole la propria voce, ora lasciando che il lettore si renda conto di un’ironia infinita: quando ad esempio la madre, frugando per la prima volta nella stanza del figlio, scopre che anche lui le nascondeva qualcosa ma non lo accetta, e preferisce continuare a riporre tutto ciò che il figlio le ha involontariamente lasciato in una nebbiosa età dell’oro, un irrealizzato idillio materno che solo la morte, paradossalmente, sembra aver potuto rendere possibile.
Fosse sopravvissuto, sottintende Anne Godard, il figlio maggiore sarebbe magari diventato come i suoi fratelli, smentendo la patina di eccezionalità che il lutto materno gli ha cucito addosso: così che la repentina, polemica e rabbiosa uscita di casa dei fratelli minori acquista il senso di una lotta di liberazione da una cappa funerea, da una morbosa attesa del ritorno di un passato; sembra quasi la furia di Caino di fronte a una preferenza ai suoi occhi ingiustificata. Il dolore della madre non vuol sentir ragione e si autoalimenta fino a comprendere tutto ciò che la circonda, avvelenandolo e castrandolo. I continui e ossessivi riferimenti al figlio, la ricerca delle sue ultime immagini o di una qualsiasi traccia della sua presenza, costruiscono una prigione dei ricordi e al contempo l’unico rifugio nel quale la madre possa sentirsi al sicuro da un tempo che continua per tutti, ma che a lei pare essersi fermato; come se la donna, tenendo continuamente presente la morte, riuscisse a evitare di considerare la perdita del figlio come un evento reale, ossia come un avvenimento che ha spezzato una felice continuità dai contorni indistinti.Il linguaggio di Anne Godard è di limpidezza cristallina e precisione entomologica; si avverte, dietro ogni parola, la fatica della scelta senza che questo intacchi minimamente la fluidità della lettura. La sua prosa impone al lettore un ritmo moderato e costante, rende pressoché inconcepibile la voglia di saltare foss’anche una sola riga ma, d’altro canto, la brevità e la densità del romanzo impediscono al lettore di interrompere, lo inchiodano, lo ipnotizzano. Soprattutto, la vera sorpresa del romanzo è l’utilizzo della narrazione in seconda persona, artificio che rende netta l’idea della fitta straziante al cuore cui la protagonista si sottopone volontariamente, compiacendosene talvolta. Dal primo all’ultimo tu su cui intesse il romanzo, Anne Godard ottiene un duplice effetto: riuscire a mostrare la protagonista dall’esterno configurandola quale centro di un sistema chiuso e autoreferenziale; sovrapporre l’immagine della protagonista a lettore che sente i suoi atti, i suoi gesti e i suoi pensieri attaccarglisi addosso e seguirlo, come l’immagine riflessa in uno specchio incrinato dall’assenza.
A soli trentasei anni, Anne Godard ha prodotto un romanzo il cui ritmo è scandito dalla perizia con la quale dissemina lungo la rama dei ricordi indizi psicologici che danno la cifra della perdita sofferta dalla donna. Il tempo narrativo, composto da dieci capitoli ben proporzionati, vive della discrasia fra il prima e il dopo: un passato in cui tutto sembra correre troppo in fretta verso la morte del figlio e un continuo presente di istanti sospesi e reiterati, frutto di una perdita di senso che all’esperienza della morte quotidianamente si rifà. Un romanzo triste, certo, ma non lamentoso, stante la bravura di Anne Godard nel distinguersi sottilmente dalla protagonista, ora sovrapponendole la propria voce, ora lasciando che il lettore si renda conto di un’ironia infinita: quando ad esempio la madre, frugando per la prima volta nella stanza del figlio, scopre che anche lui le nascondeva qualcosa ma non lo accetta, e preferisce continuare a riporre tutto ciò che il figlio le ha involontariamente lasciato in una nebbiosa età dell’oro, un irrealizzato idillio materno che solo la morte, paradossalmente, sembra aver potuto rendere possibile.
Fosse sopravvissuto, sottintende Anne Godard, il figlio maggiore sarebbe magari diventato come i suoi fratelli, smentendo la patina di eccezionalità che il lutto materno gli ha cucito addosso: così che la repentina, polemica e rabbiosa uscita di casa dei fratelli minori acquista il senso di una lotta di liberazione da una cappa funerea, da una morbosa attesa del ritorno di un passato; sembra quasi la furia di Caino di fronte a una preferenza ai suoi occhi ingiustificata. Il dolore della madre non vuol sentir ragione e si autoalimenta fino a comprendere tutto ciò che la circonda, avvelenandolo e castrandolo. I continui e ossessivi riferimenti al figlio, la ricerca delle sue ultime immagini o di una qualsiasi traccia della sua presenza, costruiscono una prigione dei ricordi e al contempo l’unico rifugio nel quale la madre possa sentirsi al sicuro da un tempo che continua per tutti, ma che a lei pare essersi fermato; come se la donna, tenendo continuamente presente la morte, riuscisse a evitare di considerare la perdita del figlio come un evento reale, ossia come un avvenimento che ha spezzato una felice continuità dai contorni indistinti.Il linguaggio di Anne Godard è di limpidezza cristallina e precisione entomologica; si avverte, dietro ogni parola, la fatica della scelta senza che questo intacchi minimamente la fluidità della lettura. La sua prosa impone al lettore un ritmo moderato e costante, rende pressoché inconcepibile la voglia di saltare foss’anche una sola riga ma, d’altro canto, la brevità e la densità del romanzo impediscono al lettore di interrompere, lo inchiodano, lo ipnotizzano. Soprattutto, la vera sorpresa del romanzo è l’utilizzo della narrazione in seconda persona, artificio che rende netta l’idea della fitta straziante al cuore cui la protagonista si sottopone volontariamente, compiacendosene talvolta. Dal primo all’ultimo tu su cui intesse il romanzo, Anne Godard ottiene un duplice effetto: riuscire a mostrare la protagonista dall’esterno configurandola quale centro di un sistema chiuso e autoreferenziale; sovrapporre l’immagine della protagonista a lettore che sente i suoi atti, i suoi gesti e i suoi pensieri attaccarglisi addosso e seguirlo, come l’immagine riflessa in uno specchio incrinato dall’assenza.
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