lunedì 26 febbraio 2007

Le sozzure del matrimonio, le delusioni dell'adulterio


(lunedì 29 gennaio 2007, copyright Ore Piccole)


Centocinquant’anni fa questa mattina iniziava a Parigi il primo dei tre processi che avrebbero provveduto a ridefinire il concetto di letteratura così come noi lo intendiamo oggi. Se anzi gli altri due (contro l’Ulisse di Joyce e contro la Lady Chatterley di Lawrence) possono forse contare maggiormente come precedenti specifici riguardo ai casi di oscenità, il processo che si apriva il 29 gennaio 1857 chiamava in causa argomenti più generali e, come tali, più decisivi. Gli imputati erano tre: Léon Laurent-Pichat, direttore della Revue de Paris, reo di aver pubblicato a puntate il romanzo incriminato; Auguste Alexis Pillet, tipografo, reo di non essersi rifiutato di dare alle stampe del materiale osceno; infine Gustave Flaubert, reo di avere scritto Madame Bovary. Poiché non sarò mai in grado di scrivere un legal thriller, inizio rivelando l’esito del processo: Laurent-Pichat, Pillet e soprattutto Flaubert vengono assolti, com’era facilmente intuibile dal corso della storia di cui siamo perfettamente a conoscenza; e mi permetto addirittura di dire che il contenuto della sentenza è la cosa meno detetrminante ai nostri occhi, esattamente come il misero risultato di una partita di calcio (due numeri separati da un trattino) se comparato a novanta infiniti minuti di piacere e sofferenza.
L’accusa allo stampatore, forse, è quella che oggi ci stupisce maggiormente. Non solo viene accusato di responsabilità oggettiva ma, negli atti del processo, il suo nome precede quello dell’autore; sembrerebbe paradossale ma è indicativo di come l’accusa mossa a Madame Bovary non fosse tanto da ricercarsi nel merito quanto nel metodo ossia, tradotto, in questione non era tanto l’evenienza che il romanzo fosse stato scritto quanto che esso fosse stato letto, e quindi diffuso, e quindi stampato. Donde, l’accusa al proto, decisivo complice. L’accusa al direttore della Revue de Paris ci appare più ragionevole; se un libro causa un danno (ragionando in astratto) la colpa non è solo dell’autore, il quale il più delle volte è un meschinello e uno sconsiderato, ma soprattutto dell’editore, il quale dovrebbe essere più uomo di mondo e soprattutto rendersi maggiormente conto dei possibili effetti di ciò che si accinge a stampare. Di qui, la responsabilità; se non che la vicenda editoriale di Madame Bovary ci insegna che fu proprio l’editore Laurent-Pichat a insistere per tagliare i passi più scabrosi del romanzo; e non è peregrina l’idea che siano stati proprio i più maldestri fra i tagli, che lasciavano il detto non detto privando la prosa di Flaubert del ritmo ossessivamente ricercato di stesura in stesura, a insospettire i bizzochi più di quanto non avrebbe fatto magari un periodo più esplicito ma meglio calibrato. A considerarla da questo versante, l’accusa al direttore/editore ci sembra ben assestata; però, nonostante gli sforzi della corte per tenere insieme in un solo procedimento tre imputati, dall’apertura della requisitoria al pronunciamento dell’assoluzione appare chiaro che si trattava - neanche tanto sotterraneamente - soprattutto di un processo a Flaubert.
Potrà sorprendere le nostre ingenue coscienze apprendere che il suo avvocato difensore, Marie-Antoine-Jules Sénard, apra la propria arringa squarciando subito il velo che dovrebbe coprire la vita privata di Flaubert, rimarcando orgoglioso come egli stesso fosse amico di Flaubert senior così come l’autore era amico dei vari Sénard junior, dei quali non precisa il numero. Non è un patetico tentativo di ottenere un’assoluzione a priori: il roboante giureconsulto sapeva il fatto suo e una decina d’anni prima era stato addirittura Ministro degli Interni; va anzi pensato che, all’apertura del dibattimento, la sua celebrità fosse probabilmente ben maggiore di quella dell’autore, e che la sua stessa presenza al processo fosse dunque un atto sufficiente a orientare, se non il giudizio, quanto meno la considerazione della corte. Soprattutto, parlare della vita privata di Flaubert non era un patetico espediente in quanto l’avvocato Sénard, colto più che a sufficienza, intendeva spiegare l’opera di un autore mediante la sua vita, puntando il dito sull’incommensurabile distanza che separa i vapori di Emma Bovary, avida lettrice di romanzi, e il rigore di Gustave Flaubert, romanziere esordiente.
La distinzione fondamentale è dunque questa, volta a smontare il sillogismo dell’accusa: nel romanzo viene esplicitamente detto che la fantasia bovaresca viene eccitata dalla lettura di romanzi, facendo della protagonista una Don Chisciotte un po’ troia (per quanto l’avvocato Sénard abbia utilizzato termini più fioriti); si presume pertanto che la lettura di passi scabrosi possa eccitare simili aspirazioni nelle oneste mogli di campagna, donde l’accusa di offese alla morale pubblica; la vita di Flaubert, invece, dimostra l’esatto contrario, e cioè che la continua compagnia di romanzi più o meno scabrosi e la produzione degli stessi non conduce dritti all’inferno, tutt’altro.
Questo è il ragionamento sotteso all’arringa difensiva. Sénard potrebbe agevolmente sbrigarsela così se l’accusa non contemplasse anche, insieme alla morale pubblica, le offese alla religione; accusa più sottile, perversa quasi, e velenosissima nell’infinità di riferimenti contraddittori che si possono presentare al proposito. È qui che Sénard ha il colpo di genio e trasla il discorso sul versante opposto: se aveva affrontato la vita privata dell’autore per difendere quella immaginaria di un personaggio, ora invece sterilizza Flaubert e invece di questionarne la fede personale ne decanta esclusivamente le capacità scrittorie, mostrando come le scene (e più in generale le circostanze) accusate di empietà fossero invece un raffinato e coltissimo gioco di rimandi agli apologeti del cristianesimo, culminanti in Bossuet, anzi, culminanti addirittura nel commento al Catechismo pubblicato qualche anno prima dell’abate Guillois: e come si fa a dar torto al Catechismo?
Non bisogna voler male all’avvocato accusatore. Il sostituto procuratore Ernest Pinard interrompe reiteratamente la difesa per accusarla di aver travisato le sue parole e di star spostando il dibattito su un piano estraneo al processo: aveva ragione. Noi ci sentiamo talmente (post)moderni che le rimostranze espresse da Pinard nella requisitoria non possono che scandalizzarci in nome della libertà di stampa, della guerra alla censura, dell’arte e pure del libero libertinaggio; a maggior ragione solleviamo tronfi i nostri menti apprendendo da Mario Vargas Llosa (L’Orgia Perpetua) che in privato Pinard si dilettava nella stesura di versi pornografici. Concludiamo che è un ipocrita, quindi lo esecriamo e, come tutti quelli che si scandalizzano facilmente, sbagliamo di grosso. Centocinquant’anni dopo, Pinard emerge come il vero protagonista del processo: un protagonista parlante, anzi più che loquace, talvolta garrulo, ma l’unico che fronteggi l’altero e muto Flaubert, la cui presenza aleggia sul tribunale come lo spirito di Dio sulle acque della Genesi.
Ci sono tante maniere di leggere un libro; si può farlo dall’inizio alla fine, come di solito è consigliato, ma nulla ci vieta di leggerne un po’ per volta, a spizzichi e bocconi, o di inseguire da una pagina all’altra un’idea che forse all’autore non è mai venuta in mente. L’accusa di Pinard - lunga, delineata, mai banale e formidabilmente ben scritta - si apre proprio con questa domanda: come si legge un libro? La questione non è peregrina, tanto più se si tiene presente che nella circostanza specifica pare che il principale interesse di accusa e difesa fosse di evitare alla corte il fastidio di leggere l’intero libro, ritenendo sconveniente che degli uomini togati perdessero tempo con un romanzo d’appendice. Pinard è diabolico e gioca su quest’impossibilità: rivendicando la propria fedeltà al testo, offre una sintesi della trama e accompagna la corte in una selezione dei passi. Selezione tendenziosa, non sarò certo io a dirlo (anche perché glielo rinfaccia Sénard): ma quale selezione non lo è? Considerate soltanto le vostre antologie del liceo, non vi offrivano una letteratura che era decisamente difforme da come effettivamente la letteratura era andata sviluppandosi dei secoli, e che veniva comunque canonizzata come La Letteratura Santa e Immutabile?
Letto da Pinard, Madame Bovary è un libro sconveniente; non perché la requisitoria si limiti ai passi scabrosi, tutt’altro: lo scaltro Pinard lascia cadere le pietre di scandalo in prati fioriti di bella prosa e di complimenti all’autore. La lettura di Pinard è forse l’analisi più precisa che sia mai stata fatta a Madame Bovary, tanto che - vinto il processo - Flaubert volle accluderla in appendice in tutte le nuove edizioni del romanzo (giù fino al Meridiano Mondadori del quale mi sto servendo), insieme ai verbali della difesa e della sentenza. Su una precisa frase Pinard appunta la propria attenzione: “nella sua fresca bellezza, prima delle sozzure del matrimonio e delle delusioni dell’adulterio” - la frase continua, ma Pinard si ferma e, con espressione che immagino teatrale, leva gli occhi dal foglio e suggerisce alla corte: “Un’altra avrebbe detto: prima delle delusioni del matrimonio e delle sozzure dell’adulterio”. Poi continua, ma il fulcro dell’accusa era questo, e non fu capito.
Pinard sta considerando Emma Bovary non come un personaggio fittizio (come invece distinguerà Sénard, disponendo sul bilancino i pensieri della protagonista e i giudizi dell’autore, mischiati assieme dal discorso indiretto) ma come un personaggio reale, una delle possibili oneste spose di campagna che possono essere traviate dalla lettura delle avventure di una di loro. Prevede la mossa della difesa, che presenterà quale insegnamento morale del libro proprio la raggiunta consapevolezza che l’adulterio non è che illusione dopo l’oscenità del matrimonio contratto per ambizione e prestigio. Individuato l’inciso nel quale Flaubert aveva racchiuso l’insegnamento, Pinard provvede a capovolgerlo disinvoltamente, ridisponendo i termini nell’ordine prestabilito (il matrimonio può essere deludente; l’adulterio è una porcheria) e sapendo altresì che quella metatesi è il suo cavallo di Troia: se si ammette che Flaubert avrebbe potuto scrivere meglio l’idea che intendeva esprimere, sarebbero venuti meno tanto l’insegnamento morale racchiuso nell’inciso quanto la presunzione che il romanzo fosse prosa d’arte; allora Pinard avrebbe avuto gioco facile a tacciare Madame Bovary di libraccio immorale, e proibirne la lettura a tutti gli scolari per i quali oggi è obbligatoria. Non c’è riuscito.Sénard e Pinard, centocinquant’anni dopo aver pronunziato le parole che leggiamo, diventano nella nostra mente uno scherzo della memoria, uno di quei giochi di specchi a cui il lettore compulsivo è abituato da tempo: i loro cognomi in rima si fanno, sulle pagine degli atti, da persone personaggi, si mutano in frutto della fantasia dell’autore che stanno rispettivamente accusando e difendendo, diventano una di quelle coppie di opposti complementari che Flaubert stesso amava e che ha eternato in Bouvard e Pécuchet. Ci sembrano ridicoli e al contempo siamo loro grati per averci letto ognuno un romanzo diverso. Dalle note agli atti del processo, infine, si può apprendere che di lì a dieci anni Pinard sarebbe diventato ministro degli Interni; magari accettando l’incarico ha pensato all’antico rivale che l’aveva preceduto nello stesso ruolo; magari ha sentito che la letteratura gli aveva dato torto, mentre la storia gli stava dando ragione.

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