(venerdì 5 gennaio 2007, copyright Il Resto del Pallone)
Ci si inoltrava nella primavera del 1990 e a un certo punto sembrava che il Parma non riuscisse più a vincere; allora chiesero a Nevio Scala se temesse la concorrenza delle arrembanti Ancona e Reggina per salire in serie A. Con tutta la calma di questo mondo, rispose: “Non temo nessuno; temo noi se continuiamo così”. Risultato, il Parma venne promosso - con tre punti di vantaggio sull’Ancona - e la profezia di Nevio Scala finì nel dimenticatoio. Venne coperta di polvere perché, prima ancora che si finisse di festeggiare il primo ingresso nell’alta società, il Parma iniziò a infilare risultati più che sorprendenti (1-0 sul Napoli campione d’Italia, 2-1 sulla Roma, 2-0 sul Milan) e già alla fine del girone d’andata si capì che non giocava per la salvezza. Giocava per divertirsi, più che altro, e per divertire, nello spirito solare di una delle città più belle e serene d’Italia; riuscendoci, peraltro, cosa ancora più sconvolgente se si pensa che era bastato innestare una non pretenziosa spina dorsale straniera (Taffarel in porta, Grun in difesa, Brolin davanti) nell’organico dei silenziosi eroi della promozione (Minotti, Apolloni, Zoratto, Pizzi, Osio e Melli). Nel 1991 il Parma arrivò sesto in campionato, un punto davanti alla sciagurata Juventus di Maifredi, e fatti due conti si rese conto di aver guadagnato l’accesso in UEFA.
Non fu un affare: gli onesti bulgari del Cska Sofia, pareggiando in casa e in trasferta, fecero finire il sogno prima ancora che se ne delineassero i contorni; ma si sa che il seme deve morire se si vuole che dia frutto. A fronte di un campionato piuttosto anonimo (concluso comunque con un punto in più della sciagurata Inter di Orrico prima e Suarez poi), arrivò la partita impossibile, la doppia finale di Coppa Italia 1992 contro la Juventus. È stato un bel sogno, pazienza, sembrava giù scritto in faccia ai tifosi e tanto più dopo aver perso la gara di andata contro il danzante Roberto Baggio; andò a finire come nessuno avrebbe mai pensato possibile, con Melli e Osio increduli dopo i loro stessi goal, e con il gruppone felice e sudato intorno al primo storico trofeo.
Bene, evviva, sarà il primo e ultimo tuttavia - pensava il tifoso lungimirante; senza essere lungimirante abbastanza da prevedere che egli stesso, nove mesi dopo, si sarebbe unito a uno stadio intero per intonare la marcia trionfale dell’Aida nel mentre che gli stessi eroi della promozione (con l’aggiunta di Ballotta, Benarrivo e Di Chiara) massacravano il povero Sparta Praga. La Coppa delle Coppe 1993 fu vinta ai quarti di finale, nel pomeriggio assolato del Tardini, sulle note di Verdi: perché la semifinale vinta (in trasferta!) contro l’Atlético Madrid fu l’imponderabile conseguenza del miracolo e il 3-1 in finale sull’Anversa poco più che la marca da bollo. In campionato il Parma era arrivato terzo, nientemeno, con due punti di vantaggio sulla Juventus di Trapattoni; si iniziava a sognare lo scudetto, qualcuno iniziò a pretenderlo, per questo ad Asprilla vennero Sensini, Crippa e Zola, e qualcuno osò storcere il naso di fronte a un quarto posto dieci punti davanti alla peggior Inter che uomo ricordi, storcendolo ulteriormente di fronte alla finale di Coppa delle Coppe persa contro l’Arsenal dopo aver eliminato, tanto per gradire, Ajax e Benfica. La Supercoppa Europea 1994 conquistata ribaltando tanto il punteggio (0-1 in casa, 2-0 in trasferta) quanto l’avversario (il supponente Milan di Papin) scivolò via come un olio balsamico. Ora, la storia insegna che in provincia insistere per lo scudetto non porta gran che bene: prova ne sia che nonostante Giovanni Galli, Fernando Couto e Dino Baggio non si concluse nulla di più che un terzo posto dietro la rinata Juventus di Lippi ma davanti a Milan (tre punti) e Inter (undici). Il tutto condito, tanto per gradire, da due doppie finali contro la Juve: una persa, in Coppa Italia, e una vinta meravigliosamente, mattatore Dino Baggio, per la Coppa UEFA 1995. Nel 1996 brutto campionato (comunque quattro punti davanti all’Inter), brutta Supercoppa Italiana (persa contro la solita Juve), brutta Coppa delle Coppe (eliminazione contro il primo avversario decente, il Paris Saint-Germain).
Si pensò che fosse l’apocalisse (più modestamente, si parlò di fine del ciclo), ci si preparò al peggio, Nevio Scala gettò la spugna lasciando dietro di sé la propria nera e inascoltata profezia. Nacque così il Parma più solido che abbia mai pestato un campo verde, con tutti insieme Buffon e Thuram e Cannavaro e Chiesa e Crespo: lo scudetto 1997 venne mancato per due punti, meno di una partita intera, secondo quella che sarebbe diventata una peculiare abitudine del nuovo allenatore, Carletto Ancelotti. L’esordio in Champions League (per la quale iniziava a non essere più indispensabile vincere i campionati) segnò l’inversione di tendenza: stornò la concentrazione dal campionato (concluso comunque con tredici punti più del Milan) e vide il sogno in grande stile naufragare nel primo pachidermico turno a gironi. Contro il Borussia Dortmund. Allenato da Nevio Scala.Salito troppo in alto, il Parma riuscì a non precipitare, anzi: colse un onorevolissimo quarto posto (un punto in più della Juventus, nove in più dell’Inter) e rinnovò la propria intesa con l’eliminazione diretta vincendo sia la Coppa Italia (due sostanziosi pareggi con la Fiorentina) sia la Coppa UEFA 1999 (3-0 su dei giovanotti che sostenevano di essere l’Olympique Marsiglia). Fosse stato un film, il Parma avrebbe avuto Scorsese; fosse stata una tragedia, avrebbe avuto Euripide. Invece era una squadra di calcio, e ha avuto la quadrata saggezza di Nevio Scala. “Temo soltanto noi se continuiamo così”: la parabola del Parma, che ha grattato il cielo senza essere mai accolta fra gli dèi, portò ancora con sé la prima Supercoppa Italiana (2000) e un’altra Coppa Italia (2002); ma ora forse gli dèi la stanno punendo per aver voluto troppo smettendo di divertire e divertirsi, per aver tradito l’aria di una delle più belle e serene città d’Italia.
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