(lunedì 8 gennaio 2007, copyright Ore Piccole)
Per grazia di Dio il tempo non passa invano, pertanto oggi possiamo leggere Nada, il primo romanzo di Carmen Laforet, fresco fresco come se sessant’anni e rotti non fossero finora trascorsi. La prima edizione fu in Spagna nel 1944; lei, l’autrice, aveva ventitré anni e sarebbe vissuta fino al 2004. Per grazia di Dio il tempo non passa invano, e ci consente di stabilire giorno dopo giorno cosa conservare e cosa buttar via delle immense cartacce accumulate fra le migliaia (milioni forse) di diversi esordi letterari che si sono succeduti fra la seconda (1939-1945) e la quarta guerra mondiale (2001-boh). Il compito potrebbe apparire sovrumano, ma al riguardo io adotto un metodo infallibile poiché basato sulla legge di gravitazione universale: fatta una catasta delle infinite parole utilizzate a scopo romanzesco, ecco che dall’azione irrefragabile del tempo si salvano soltanto le parole lievi, altissime, irraggiungibili (la cui stessa costituzione iperurania preserva dall’intaccamento) così come - per reazione uguale e contraria - le parole grevi, infami, impanianti (che dall’intaccamento e dalla corrosione traggono giovamento e diventano anzi pezzi d’antiquariato). Tutto il resto è media letteratura e aurea mediocrità: lasciata passare una sana decina di anni ai nostri occhi non avrà più importanza che se fosse stata scritto in inchiostro simpatico.
Fin dalla scelta del titolo sembra che Carmen Laforet abbia voluto tenere in adeguata considerazione quest’effetto del tempo: Nada (né si capisce perché non ci sia stato coraggio abbastanza per tradurre in Italiano, Niente, o Nulla; d’altra parte sono passati centoventicinque anni, anzi centoventisei, da quando Alfredo Oriani ebbe il coraggio di intitolare un suo romanzo No) pare stia a significare proprio quest’azione del tempo, gli effetti della naturale selezione per corrosione, al termine della quale, quando tutto sarà compiuto, di questo stesso tutto non resterà che un mucchietto di polvere. L’editore Neri Pozza, sagace al suo solito, nel riproporre dopo tempo immemorabile il romanzo di Laforet ha voluto incarnare quest’alternanza fra alto e basso, fra ciò che resta e ciò che passa, nell’immagine di copertina (ancora una volta: quanto tempo ci metteranno tutti gli editori sulla faccia della terra a capire che un libro vero non inizia dalla prima parola né dal titolo ma dalla copertina? è troppo d’annunziana quest’idea per essere accettabile? eppure io tutto sono tranne che d’annunziano, pensate che da una settimana non ho manco il tempo di farmi la barba): la foto di Burt Glinn mostra in alto una ragazzetta che dondola in altalena, tale che il movimento oscillatorio la riporterà ad abbassarsi; in basso due guglie della Sagrada Familia, che tendono verso i cieli eterni ma, architettonicamente, sono ben piantati al suolo peccatore.
Su e giù dunque, leggero e pesante; quest’alternanza rende le parole di Carmen Laforet degne di essere sopravvissute a sessantadue anni di altri pensieri. Nella storia di Andrea, che si trasferisce a casa della nonna per fare l’università a Barcellona, si può facilmente rinvenire un esempio di realismo limpido, dove il linguaggio della narratrice (Andrea stessa) e per estensione dell’autrice rende giustizia alla parola come scalpello per abbellire il mondo, o quanto meno per smussarlo. Quello di calle di Aribau, dal momento in cui la nonna apre la porta ad Andrea, è un mondo che balza agli occhi stessi della protagonista/narratrice come peculiarmente brutto; di una bruttezza profonda, insondabile, quasi metafisica e - lo si intuisce fin dalle prime pagine - impossibile a mutarsi. Andrea non ha altra scelta: se vuole vivere a Barcellona, quale pegno della libertà (che credeva) appena conquistata deve scendere a patti con le ristrettezze del posto, con la scomodità della camera, con le beghe familiari e col più che rivelatore nome di battesimo della sua ipocrita e bigotta zia Angustias. Si riscatta, tuttavia, narrando ovvero vedendosi vivere, riservandosi di scegliere per ogni cosa brutta una parola bella e riscattando, così, con l’ordine retorico un mondo bruttarello.
Né va sottovalutata la sottotraccia che Carmen Laforet svela a intervalli regolari: la fame che porta Andrea a dover nutrirsi saltuariamente per la strada e a ritenere una leccornia il più ripugnante fra i bolliti. Noi veniamo or ora da un mese di bagordi, abbiamo trasformato l’Avvento in una scusa per morire d’indigestione prima che inizino le feste, abbiamo infilato il cibo dove non entrava più nemmeno a pressarlo col badile; e in questi giorni siamo tornati al lavoro col magone nella panza e con l’occhio intontito dall’unto dei grassi. Siamo riusciti a dimenticare, con ammirevole dedizione sparsa nei decenni, ciò che invece Andrea nella cattolicissima Spagna del tempo tiene sempre a mente, senza sentire la necessità di citarlo mai: ovvero la nozione che il digiuno rende più acuti gli occhi della mente.
Le cianfrusaglie sono l’unità di misura di questo romanzo. Digiunando (per necessità) e riflettendo (per vocazione), Andrea vede gli oggetti come essi sono veramente; li vede caricarsi di significati insospettati e insperati; li utilizza (il letto, lo specchio, la valigia) come rifugio da una nuova famiglia dilaniata da liti e urla, nella miglior tradizione mediterranea (quiz: cosa credete che mi impedisca, al momento, di scrivere più velocemente e meglio la recensione che ho sotto i polpastrelli? forse per caso l’evenienza che i miei genitori dialoghino senza ritenere opportuno muovere ognuno un passo dai due capi estremi del corridoio?). La silenziosa Andrea vede cose che gli altri non vedono, verrebbe da dire, e ama nascondersi nelle strade di Barcellona, come se casa sua fosse fuori e gli estranei fossero dentro, agognando come un frutto proibito il Barrio Chino, il quartiere malfamato e ridondante che l’invadente zia Angustias le ha più volte interdetto con minacce individuandovi, non a torto, “lo splendore del Maligno”.
Girando le pagine passano i mesi e alla fine del romanzo è trascorso circa un anno: lasso di tempo ideale per crescere, per cambiare e - se non si è stati già uccisi dall’università stessa - cercare di capire se la guerra adolescenziale contro il mondo è stata vinta o è stata persa. L’ingresso nel Barrio Chino segna il valico decisivo: guardandone le luci (piuttosto buie)e udendone i suoni (per lo più rumoracci) Andrea compie la sua personale discesa ad inferos che le consente di superare l’angustia di sua zia; di guardare in faccia il male quotidiano e poter così rendersi conto, sulla scorta dell’esempio, che è invece un abitante di calle de Aribau a celare in sé un principio di male eterno: e lo vedrà agire, appunto, in tutto il suo splendore. Varcando la porta di calle de Aribau, Andrea ha diciannove anni all’incirca; l’autrice ne aveva ventitré; Nada è il romanzo di ciò che resiste al tempo, di ciò che in genere resta - niente, appunto - dei vent’anni, l’età che è rimpianta da tutti tranne che dai ventenni. Mi ha fatto venire in mente, al richiuderlo, quello che Sciascia raccontava della gioventù di un celebre contemporaneo di Carmen Laforet, Giuseppe Antonio Borgese: Nessuno vuol tornare oggi ad avere vent’anni. E forse anche coloro che li hanno non li vorrebbero, ne sentono il disagio, quasi la disperazione; ma, per grazia di Dio, il tempo non passa invano.
Fin dalla scelta del titolo sembra che Carmen Laforet abbia voluto tenere in adeguata considerazione quest’effetto del tempo: Nada (né si capisce perché non ci sia stato coraggio abbastanza per tradurre in Italiano, Niente, o Nulla; d’altra parte sono passati centoventicinque anni, anzi centoventisei, da quando Alfredo Oriani ebbe il coraggio di intitolare un suo romanzo No) pare stia a significare proprio quest’azione del tempo, gli effetti della naturale selezione per corrosione, al termine della quale, quando tutto sarà compiuto, di questo stesso tutto non resterà che un mucchietto di polvere. L’editore Neri Pozza, sagace al suo solito, nel riproporre dopo tempo immemorabile il romanzo di Laforet ha voluto incarnare quest’alternanza fra alto e basso, fra ciò che resta e ciò che passa, nell’immagine di copertina (ancora una volta: quanto tempo ci metteranno tutti gli editori sulla faccia della terra a capire che un libro vero non inizia dalla prima parola né dal titolo ma dalla copertina? è troppo d’annunziana quest’idea per essere accettabile? eppure io tutto sono tranne che d’annunziano, pensate che da una settimana non ho manco il tempo di farmi la barba): la foto di Burt Glinn mostra in alto una ragazzetta che dondola in altalena, tale che il movimento oscillatorio la riporterà ad abbassarsi; in basso due guglie della Sagrada Familia, che tendono verso i cieli eterni ma, architettonicamente, sono ben piantati al suolo peccatore.
Su e giù dunque, leggero e pesante; quest’alternanza rende le parole di Carmen Laforet degne di essere sopravvissute a sessantadue anni di altri pensieri. Nella storia di Andrea, che si trasferisce a casa della nonna per fare l’università a Barcellona, si può facilmente rinvenire un esempio di realismo limpido, dove il linguaggio della narratrice (Andrea stessa) e per estensione dell’autrice rende giustizia alla parola come scalpello per abbellire il mondo, o quanto meno per smussarlo. Quello di calle di Aribau, dal momento in cui la nonna apre la porta ad Andrea, è un mondo che balza agli occhi stessi della protagonista/narratrice come peculiarmente brutto; di una bruttezza profonda, insondabile, quasi metafisica e - lo si intuisce fin dalle prime pagine - impossibile a mutarsi. Andrea non ha altra scelta: se vuole vivere a Barcellona, quale pegno della libertà (che credeva) appena conquistata deve scendere a patti con le ristrettezze del posto, con la scomodità della camera, con le beghe familiari e col più che rivelatore nome di battesimo della sua ipocrita e bigotta zia Angustias. Si riscatta, tuttavia, narrando ovvero vedendosi vivere, riservandosi di scegliere per ogni cosa brutta una parola bella e riscattando, così, con l’ordine retorico un mondo bruttarello.
Né va sottovalutata la sottotraccia che Carmen Laforet svela a intervalli regolari: la fame che porta Andrea a dover nutrirsi saltuariamente per la strada e a ritenere una leccornia il più ripugnante fra i bolliti. Noi veniamo or ora da un mese di bagordi, abbiamo trasformato l’Avvento in una scusa per morire d’indigestione prima che inizino le feste, abbiamo infilato il cibo dove non entrava più nemmeno a pressarlo col badile; e in questi giorni siamo tornati al lavoro col magone nella panza e con l’occhio intontito dall’unto dei grassi. Siamo riusciti a dimenticare, con ammirevole dedizione sparsa nei decenni, ciò che invece Andrea nella cattolicissima Spagna del tempo tiene sempre a mente, senza sentire la necessità di citarlo mai: ovvero la nozione che il digiuno rende più acuti gli occhi della mente.
Le cianfrusaglie sono l’unità di misura di questo romanzo. Digiunando (per necessità) e riflettendo (per vocazione), Andrea vede gli oggetti come essi sono veramente; li vede caricarsi di significati insospettati e insperati; li utilizza (il letto, lo specchio, la valigia) come rifugio da una nuova famiglia dilaniata da liti e urla, nella miglior tradizione mediterranea (quiz: cosa credete che mi impedisca, al momento, di scrivere più velocemente e meglio la recensione che ho sotto i polpastrelli? forse per caso l’evenienza che i miei genitori dialoghino senza ritenere opportuno muovere ognuno un passo dai due capi estremi del corridoio?). La silenziosa Andrea vede cose che gli altri non vedono, verrebbe da dire, e ama nascondersi nelle strade di Barcellona, come se casa sua fosse fuori e gli estranei fossero dentro, agognando come un frutto proibito il Barrio Chino, il quartiere malfamato e ridondante che l’invadente zia Angustias le ha più volte interdetto con minacce individuandovi, non a torto, “lo splendore del Maligno”.
Girando le pagine passano i mesi e alla fine del romanzo è trascorso circa un anno: lasso di tempo ideale per crescere, per cambiare e - se non si è stati già uccisi dall’università stessa - cercare di capire se la guerra adolescenziale contro il mondo è stata vinta o è stata persa. L’ingresso nel Barrio Chino segna il valico decisivo: guardandone le luci (piuttosto buie)e udendone i suoni (per lo più rumoracci) Andrea compie la sua personale discesa ad inferos che le consente di superare l’angustia di sua zia; di guardare in faccia il male quotidiano e poter così rendersi conto, sulla scorta dell’esempio, che è invece un abitante di calle de Aribau a celare in sé un principio di male eterno: e lo vedrà agire, appunto, in tutto il suo splendore. Varcando la porta di calle de Aribau, Andrea ha diciannove anni all’incirca; l’autrice ne aveva ventitré; Nada è il romanzo di ciò che resiste al tempo, di ciò che in genere resta - niente, appunto - dei vent’anni, l’età che è rimpianta da tutti tranne che dai ventenni. Mi ha fatto venire in mente, al richiuderlo, quello che Sciascia raccontava della gioventù di un celebre contemporaneo di Carmen Laforet, Giuseppe Antonio Borgese: Nessuno vuol tornare oggi ad avere vent’anni. E forse anche coloro che li hanno non li vorrebbero, ne sentono il disagio, quasi la disperazione; ma, per grazia di Dio, il tempo non passa invano.
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