lunedì 26 febbraio 2007

La fine del mondo non arriva mai


(mercoledì 17 gennaio 2007, copyright Books Brothers)


Per prima cosa m’è venuta in mente la foto di un muro inglese sulla quale era scritto a caratteri cubitali Jesus saves, ovvero Gesù salva ma anche, con perfetta polisemia, Gesù para; lì sotto una mano anonima aveva aggiunto in sghembo But Keegan taps in - Ma Keegan ribadisce in rete. La stessa sproporzione fra onnipotenza divina e capacità umane, la stessa malandrina contrapposizione ironica fra due piani inconciliabili (Dio contro un calciatore, per quanto decisamente bravo), si ritrova in Bere Caffè da un’Altra Parte, la raccolta dei racconti di ZZ Packer edita da ISBN.
Per seconda cosa m’è venuto in mente che esiste un’America che non conosciamo affatto e la cui esistenza dimentichiamo continuamente nei nostri presuntuosi discorsi sul continente dirimpettaio; è l’America che lo stile trasognato di ZZ Packer rende lontana e imponderabile, l’America della Chiesa Pentecostale del Grande Cristo Emanuele del Battesimo del Fuoco e dei giganteschi campeggi per preadolescenti e delle insormontabili case di correzione. Infatti, a guardare in faccia ZZ Packer, cosa resa possibile dalla foto in terza di copertina, lo sguardo di questa trentenne di San Francisco racchiude i due sentimenti principali della sua narrativa (uno per occhio): la rassegnazione alle vie del mondo e la continua tensione verso un possibile superamento.
Poiché tuttavia gli autori vanno giudicati dalle loro parole e non dalle fotografie (per quanto evidentemente osservare una foto di ZZ Packer sia sicuramente più gradevole che incappare, poniamo, in un ritratto di Kierkegaard), è bene sottolineare che i due sentimenti affiancati e contrapposti sarebbero stati evidenti anche ignorando del tutto il sembiante dell’autrice. La rassegnazione, innanzitutto, traspare dalle scelte linguistiche che potrebbero talvolta apparire incongrue, innestando su una sintassi elementare degli improvvisi colpi di coda lessicali, parole inattese, accelerazioni del ritmo narrativo o divagazioni sorprendenti. Né si tratta di una rassegnazione passiva (di quella, per intenderci, che mi piglia quando lavoro alla tesi di dottorato), fungendo piuttosto da trampolino per un’ironia delirante e dolorosa, che causa la risata tipica di chi è debole e non ha altra vendetta che commiserare ciò che lo sovrasta.
Riguardo a ciò, la costante dei racconti è nella consapevolezza nera: già il primo, ad esempio, vive sulla querelle fra un gruppetto di ragazzine che si ribellano a una presunta offesa razziale subita dalle loro vicine bianche. Se questo fosse stato il tema-fulcro della raccolta, non ho difficoltà ad ammettere che avrei richiuso il libro per mai più riaprirlo, e invece - e invece - ZZ Packer ha talento più che sufficiente a insufflare la querelle razziale in un più alto e più fine gioco di rimandi psicologici, linguistici e umoristici, così da farla apparire del tutto naturale, per niente forzata e soprattutto mai lamentosa. Il corso del racconto (è il primo, Coccinelle), che vede rotolare la questione verso un inevitabile finale in cui per un caso strano sono proprio le presunte vittime a macchiarsi di razzismo costituisce forse la maggiore peculiarità stilistica di ZZ Packer nonché un ottimo appiglio per esplorare il secondo sentimento della sua narrativa.
L’ambiente nel quale si muove gran parte delle storie è quello delle chiese battiste: reverendi spettacolari (c’è una memorabile predica sull’utilizzo del telefono), catechiste ingenue, tredicenni che vagheggiano una fuga solo finché la sanno impossibile. Su tutto questo, un’estrema perizia nelle citazioni bibliche (guardiamoci in faccia: noi cattolici non sappiamo nemmeno se il libro del profeta Amos esiste veramente), una netta distinzione del bene dal male e un continuo riferimento al trascendente nei meandri della vita iperterrena (ri-guardiamoci in faccia: se non è domenica, noi cattolici siamo molto meno cattolici di quanto dovremmo). Avesse avuto solo il primo sentimento, ossia l’ironica rassegnazione, ZZ Packer si sarebbe limitata a descrivere questo mondo con ironia velenosa; ma come da foto l’autrice ha anche il secondo occhio, che la porta a sperare in un superamento dell’immanente, in una possibile salvazione: e, per quanto la mancanza di fiducia la prevenga dal cospargere le sue storie con una serena moralità da Padre Brown, è palpabile la comprensione verso i personaggi che talvolta non hanno altra speranza se non quella in una miglior vita futura.
Il racconto che fra tutti ho preferito (l’ultimo: Arriva Doris) si apre con la fine del mondo del 1961, surrogato della inutilmente attesa fine del mondo del 1955: data cui guardano con trepidazione i Pentecostali, per i quali essa non costituisce la perdita di qualcosa ma la speranza di un altrove nel quale rifugiarsi (l’Altra Parte del titolo della raccolta), ovvero l’Assunzione nel mondo nuovo e felice (guardiamoci in faccia: io sono cattolico ma non accetterei che la fine dei tempi mi impedisse di vedere l’ultima puntata di Desperate Housewives). Tuttavia questo rovesciamento, questo riscatto, nel 1961 non arriva così come non era arrivato qualche anno prima; e la vita, che ai suoi sgoccioli era parsa caricarsi di significato e bellezza, ritorna ad essere mera quotidianità da accettarsi con illuminata rassegnazione (vedi sopra).Per terza cosa, nella ridda di versetti biblici citati qua e là più o meno maliziosamente, m’è venuta in mente una significativa mancanza, il celebre versetto del Salmo 8 che lamenta Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?. Re David (se l’ha scritto lui) e ZZ Packer hanno questo in comune (solo questo, suppongo): hanno un sentimento che li porta a percepire nettamente, come una presenza fisica, la sproporzione inconciliabile fra il grande Dio e il piccolo uomo. I salmi di David sono la speranza dell’umanità; le piccole storie di ZZ Packer sono un sorriso in una valle di lacrime.

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