mercoledì 8 aprile 2009

Le virgolette, García Marquez e svariati cavalli

(Gurrado per Quasi Rete)

Nella serata in cui il campionato inglese si fa passare sotto il falso nome di Champions League, io non dispongo del locale decoder Sky e devo tenere a bada il mio ardente desiderio di guardare Liverpool-Chelsea. Tanto più che qui le coppe vanno in onda a un orario inumano, le 19:45, quando sì gli Inglesi stanno da secoli riposando in poltrona fumando una pipa leggendo il Daily Telegraph indossando un tweed e ruttando copiosamente ma io, non ancora assimilato, a quell’ora inizio a interrogarmi su cosa cucinare, ossia sul criterio col quale sorteggiare dal frigo(rifero) uno degli involucri precotti da infilare nel micro(onde). Andare al pub per vedere la partita, dunque, manco a pensarci. Al massimo do un’occhiata al risultato sul televideo della BBC, assimilabile per la sua immediatezza grafica alla stele di Rosetta, mentre seguo una curiosa trasmissione che s’intitola The Speaker e presenta come logo un paio di virgolette arrovesciate, che mi fanno ricordare all’istante quello del Festival Filosofia e, di conseguenza, che il mio pregiatissimo deretano potrà pur poggiare su una poltrona inglese (senza pipa senza tweed e senza Daily Telegraph), ma il mio cuore è rimasto a Modena.

Credo che si tratti di un programma auspicabilmente importabile. Avete presente X-factor? Un pirla va lì e canta; una giuria composta da tre persone vestite così come si trovavano prima di uscire di casa giudica la performance. The Speaker è la stessa cosa, con la differenza che il pirla – sempre invariabilmente un liceale – invece di cantare parla. In compenso, i tre giurati inglesi hanno una confortante tendenza a vestirsi come Morgan. Lo spettacolo è itinerante e i ragazzini parlano di tutto: stasera uno ha accuratamente difeso il suo peraltro indiscusso diritto a essere gallese. Un’altra, sentendosi forse interlocutrice privilegiata del Papa, ha sottolineato più volte il dovere di usare il preservativo agitandone uno, benché fortunatamente intonso. A un certo punto ho spento, ma magari qualcuno adesso starà difendendo il diritto dei gallesi a usare il preservativo o, più verosimilmente, l’opportunità di utilizzare il preservativo se si va con un gallese. In Italia potremmo fare una sorta di via di mezzo, chiamandola che so io Speak Factor e allargando la partecipazione a chiunque, una specie di Hyde Park nel bel mezzo delle reti pubbliche. La telecamera può diventare lo sgabello postmoderno su cui chiunque voglia può salire e dire quello che pensa, sempre ammesso che pensi qualcosa. In caso contrario può dirlo lo stesso, tanto in tv non si nota. Il contrappasso sta nel venire esposto al saccente sberleffo di tre giurati vestiti da pagliacci.

Il sistema potrebbe tornare decisamente utile anche per le trasmissioni sportive. Ormai non sopporto più i giornalisti, che usano le interviste altrui per far notare le proprie domande: sembrano quelli che si acquattano nel pubblico di una qualsiasi conferenza per attendere il malaugurato momento del dibattito, alzarsi e tenere una conferenza a sé stante che li consoli dalla consapevolezza che nessuno mai li inviterà a tenere una conferenza vera, in cui le domande le fanno gli altri. Ovviamente il resto del pubblico è tutt’altro che consolato, ivi compresa la non trascurabile percentuale di ulteriori conferenzieri mancati in attesa del proprio turno e pronti a mordersi la lingua a sangue per non essere stati i primi ad alzare la mano. Ecco, uno dei principali vantaggi del Cattolicesimo è che finita la predica il celebrante volta le spalle ai fedeli e se ne va, sdegnando dubbi e manie di protagonismo. Se uno ha smania di parlare si faccia quacchero. Bisognerebbe dunque introdurre l’omelia, o più modestamente una versione riveduta di The Speaker, anche alla fine dei grandi eventi sportivi: penso ad esempio che, se domenica scorsa fosse stato lasciato libero di parlare a ruota libera, Jenson Button non si sarebbe limitato a dire l’equivalente di “gara bagnata, gara fortunata”.

Avrebbe probabilmente riferito che, insomma, era felice di continuare a vincere in maniera sempre diversa dalla precedente e dall’ordinario ma che si sentiva profondamente umiliato dal fatto che l’attenzione della sua patria, della Gran Bretagna tutta, durante la settimana e il weekend era evidentemente stata rivolta non su Sepang ma su Aintree, non sul gran premio della Malesia ma sul Grand National. Si sarebbe detto profondamente ferito dal fatto che nella circostanza i resti dell’Impero avessero accordato la propria preferenza al cavallo sul motore, al fantino sul pilota e alle quote delle scommesse sui rinomati trucchetti della McLaren.

Ah, se i cavalli potessero parlare! (Parteciperebbero anche loro a The Speaker e probabilmente vincerebbero a zoccoli bassi). Potrebbero rispondergli che è tutta una questione di nomi perché – se si tratta di cavalli particolarmente dotti – nomina sunt consequentia rerum, nomen omen, e chi più ne ha più ne metta. Per quanto io debba ammettere di non conoscere nessun altro che si chiami Jenson, scorrendo il resoconto di Aintree vengo assalito da un’impreventivata musicalità onomastico-equina. Il vincitore – che era dato 100-1 e quindi a chi ha puntato su di lui ha fruttato cento volte tanto come nella parabola del seminatore (cfr. Marco 4, 8) – si chiama Mon Mome e ancora non sono riuscito a decrittarne il significato. Dietro di lui Comply or Die, ovvero “faccela o crepa”, ha coerentemente preceduto My Will, ovvero “la mia volontà” ma anche “il mio testamento”. L’ordine di arrivo ufficiale del Grand National, per quanto pari in chiarezza al televideo della BBC, suona come la poesia di un Palazzeschi americano: Big Fella Thanks, Irish Invader, Idle Talking (“chiacchiere vacanti”), Darkness, il di questi tempi geniale Offshore Account, Musica Bella., Reveillez, Zabenz. Io ovviamente tifavo per Fundamentalist. È meglio che chiamarsi Kimi o Jarno, direi.

Poi i cavalli, si sa, hanno la precedenza perché la loro carriera è più breve; sono brave bestie, evidentemente più intelligenti degli uomini e, portando rispetto verso la natura, sanno sempre quand’è il caso di smettere. La settimana scorsa l’Inghilterra era sull’orlo della rivoluzione (mamma, esagero) perché l’agente di Gabriel García Marquez aveva dichiarato che il suo assistito con ogni probabilità non ha più voglia di scrivere nient’altro. Ci credo, ha ottant’anni e a me sta già passando la voglia a ventotto. Pagine e pagine culturali di quotidiani sono scese in piazza a difendere il diritto dei gallesi, no, il diritto dei lettori a leggere romanzi sempre nuovi dei loro scrittori preferiti e contemporaneamente il dovere dei grandi scrittori, García Marquez incluso, a continuare a scrivere fino alla morte e oltre.

Io non credo: anzi ritengo che gli scrittori dovrebbero fare come i migliori fra gli atleti, ritirandosi quando possono ancora lasciare rimpianti e scoprendo che la vita riserva altre soddisfazioni oltre all’incessante ripetizione di quello che si è già fatto ogni giorno per anni e annorum. Per un Michael Schumacher che, ritiratosi quantunque, continua a gironzolare per i paddock rivestito di un ruolo non chiaro (forse è il portasfortuna ufficiale della Ferrari), c’è un Fernando Alonso il quale ha detto chiaro e tondo che sparirà dalla scena non appena avrà vinto il terzo Mondiale, anche qualora non avesse ancora compiuto i trent’anni. Ci sono altri esempi onorevolissimi. Miguel Indurain s’è ritirato appena ha capito che rischiava di arrivare non più primo ma anche secondo o terzo, la bicicletta la guarda col cannocchiale e ultimamente l’ho scoperto felicemente ingrassato. La carriera di Mark Spitz è stata breve e adamantina: avrebbe potuto continuare per anni ma la prima grande sconfitta gli avrebbe rovinato il palmarès. Bisogna alzarsi dalla tavola lasciando gli altri con un po’ d’appetito.

Insomma la tempistica è tutto. Alan Shearer, che aveva terminato la sua lunghissima carriera al Newcastle acclamato quale versione bionda del Padreterno, ha scelto il momento sbagliato per iniziare la carriera da allenatore nello stesso stadio che aveva incantato. Il Newcastle navigava in cattive acque e la prima partita, sabato scorso, era contro il Chelsea – persa, ovviamente, così che le acque sono diventate pessime. Nel giro di novanta minuti, il pubblico che acclamava lo Shearer ex campione ha iniziato a mugugnare contro lo Shearer albeggiante menager mediocre. Eppure Shearer era sempre lui, e pure il pubblico era rimasto lo stesso. Era solo passato del tempo e il tempo, più che uccidere, rovina.

Sappia Alan Shearer che nulla è più dignitoso del passo di un vecchio cavallo da corsa che, ormai dimenticato, sulla strada per il macello si volti verso il suo aguzzino apostrofandolo in lingua incomprensibile agli uomini: “Ma su di te ha mai scommesso qualcuno?”.

(Avevo progettato questo pezzo nel weekend e poi, tramortito dalle notizie dell’Aquila, mi sono trattenuto per la manifesta inopportunità di fare il brillante in un momento di lutto. Oggi mi sono deciso realizzando che, come per molti Italiani all’estero, la mia reazione istintiva è consistita in un senso di irrazionale colpevolezza – come se la distanza fosse acuita dall’impossibilità di essere nei paraggi, foss’anche nella più conclamata inutilità o rassegnazione. Allora mi son detto che se fossi stato in Italia avrei scritto, e quindi tanto vale scrivere anche dall’Inghilterra. Per niente che può essere, magari a qualcuno strappo un sorriso in più e una lacrima in meno.)

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