Se fossi di Milano voterei Letizia Moratti (nonostante la campagna elettorale traballante), se fossi di Torino voterei Piero Fassino, se fossi di Bologna voterei Manes Bernardini, se fossi di Napoli voterei Clemente Mastella. D’altronde sono di Gravina in Puglia e vivo a Oxford (contrasto notevolissimo, chissà se il contrario è peggio) quindi non posso nessuno dei quattro.
A Oxford quest’anno non si vota, e anche se fosse non voterei comunque in quanto all’inizio della mia permanenza britannica, pur avendone diritto, ho declinato l’invito a rientrare nelle liste elettorali perché – be’, insomma, altro che Clemente Mastella e Piero Fassino, in Inghilterra l’unico partito lievemente votabile è composto da hooligans che scendono in piazza a urlare “Ing-h-land! Ing-h-land!” e il cui leader è stato in galera per i motivi più diversi. I partiti principali sono improponibili per i motivi più disparati. I conservatori si son fatti troppo progressisti e fino a qualche mese fa non sembravano voler porre alcun serio freno alla degenerazione sociale britannica; hanno peraltro osato lì dove nessun partito sedicente di destra dovrebbe avventurarsi, ossia l’aumento delle tasse, ergo non meritano alcun voto. I laburisti hanno un leader ragionevolmente simpatico e sono l’unico partito vagamente religioso (fu fondato da un gruppo metodista), ma sono laburisti quindi ritengono che, per contrastare l’operazione di ingiustizia sociale messa in atto da David Cameron, le tasse dovrebbero essere aumentate ancora di più – tranne quelle universitarie, vai a capirli. I liberal democratici hanno cercato di sostituire al sistema elettorale corrente, semplice ma ingiusto (l’uninominale maggioritario), un sistema elettorale altrettanto ingiusto però complicatissimo. E non ci sono nemmeno riusciti.
Le amministrative britanniche per i luoghi indicati si sono tenute a inizio maggio e hanno segnato l’estinzione dei liberal-democratici, la sconfitta dei laburisti e la tenuta dei conservatori, fermo restando che si tratta di vittoria mutilata a seguito dell’esito delle consultazioni scozzesi, dove il partito nazionalista di Alex Salmond, già primo ministro devoluto, ha guadagnato una maggioranza sufficiente a fargli indire nel giro di un paio d’anni un referendum ad alto tasso di successo per l’indipendenza della Scozia da Londra. Quando mi ero trasferito a Oxford mi sono sentito schiacciare dalla netta percezione che questo posto mi avrebbe ucciso e il plurisecolare Regno Unito sarebbe durato più di me. Da qualche giorno grazie ad Alex Salmond – per il quale tuttavia non potrei mai votare in quanto mi rifiuto di passeggiare in kilt – inizio a nutrire la sensazione inversa.
Non si vota nemmeno a Gravina e non è un male. Gravina è ingovernabile. Bisognerebbe portarci in gita d’istruzione i liberal-democratici britannici; apprenderebbero che indipendentemente dal sistema elettorale i risultati sono stabilmente i seguenti: su quarantacinquemila abitanti, non tutti aventi diritto al voto, si presenta un numero indiscriminato di candidati sindaci diversamente sostenuti da grossomodo seicento candidati consiglieri comunali, con una media di un candidato ogni cinquanta elettori; una coalizione di cinque-sei partiti consegue sì la maggioranza dei voti ma non sufficienti a evitare il secondo turno; per il ballottaggio la coalizione si allarga a dieci-dodici partiti e vince; dopo di che si brinda, il sindaco si insedia e alcuni consiglieri comunali, eletti in un qualsiasi partito della maggioranza, decidono di passare all’opposizione più o meno alla prima seduta del consiglio comunale; la giunta eletta con ampio margine diventa giunta di minoranza o di maggioranza risicatissima e il sindaco è costretto a distribuire assessorati a destra e a sinistra, uno per ciascun partito di coalizione; poiché di partiti (soprattutto le dannatissime liste civiche) ce n’è a iosa ma gli assessorati sono disponibili in numero limitato, ne viene danneggiato il partito portante della coalizione che magari ha guadagnato metà dei voti complessivi ma ha a disposizione un quarto degli assessorati; ciò porta al prematuro rimpasto; segue un momento di caos in cui o il sindaco deve telefonare agli assessori o gli assessori devono telefonare al sindaco per rinfrescarsi la memoria sulla distribuzione delle deleghe; la cittadinanza si disorienta; le liti infuriano; la giunta cade; il paese viene commissariato; il commissario scopre che il bilancio comunale è dissestato dai tempi dell’introduzione delle cifre arabe; si passa un annetto tranquillo e poi si indicono nuove elezioni alle quali si presenta il doppio dei candidati sindaci diversamente sostenuti da settecento, ottocento, mille candidati consiglieri comunali in quella che i miei amici de sinistra definirebbero una grande festa della democrazia.
Ora, resti fra noi ma se la democrazia inflitta su scala locale deve portare a questi risultati ben venga il commissariamento perpetuo.
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