Michel Platini è un uomo di ottimo gusto e notevole sense of humour, qualità che, mescolate, sovente si traducono in genio. Ha dimostrato ottimo gusto nel bandire l’orrenda premiazione con coriandoli e palchetto al centro del campo alla fine di ogni Coppa Europea, ritornando alla più dignitosa e storica ascesa sui gradini dello stadio fra due ali di pubblico osannante o lacrimoso. Ha dimostrato sense of humour nel momento in cui, mercoledì scorso, ha accolto sul palco d’onore lo Zenit San Pietroburgo che aveva appena vinto
Il genio è qualcosa che talvolta arriva di là dalle intenzioni del suo portatore sano, foss’anche notoriamente consapevole come il re Platini. Col gesto un po’ svagato e un po’ paterno di premiare come vincitori della Coppa Uefa dei bambini di tre o quattro anni, Platini ha rappresentato plasticamente l’indissolubile continuità del calcio russo. Mi è parso che volesse dire ai coraggiosi demolitori del Bayern Monaco (che i Rangers, Fiorentina nonostante, non ci vuol molto a demolirli): “Questo premio per i vostri meriti infilato al collo dei vostri figli onora la gloria dei vostri padri”.
Quand’ero ragazzino io, le squadre russe erano sempre un problema. Per quanto non abbiano mai vinto
Per non parlare della Nazionale, facilissima a distinguersi agli occhi una bambino appena appena alfabetizzato, grazie al capitale acronimo CCCP spalmato sul fiero petto e un nome, Urss, che sembrava un ruggito belluino, promessa di lotta senza quartiere. Agli Europei del
Mi sarei abituato, col tempo, in particolare dopo la tragica semifinale di Italia ’90 contro l’Argentina; cui fece seguito nell’autunno un imbarazzante doppio confronto di qualificazione (per gli Europei, di nuovo) contro la feroce Urss: due 0-0, uno a Roma e uno a Mosca, con la differenza che i due pareggi qualificavano l’Urss e non noi. Nel fango moscovita, all’ora dell’aperitivo, uno sconsiderato palo di Rizzitelli e la strenua difesa della retroguardia russa, pronta a incendiare il campo pur di non far passare gli Azzurri, chiusero di fatto la carriera di Vicini e consegnarono alla storia la sua ultima Italia invecchiata e imbolsita. L’Urss si qualificò per l’Europeo di Svezia ma, fra una cosa e l’altra, non poté giocarlo in quanto nel frattempo era arrivato il 1992. Venne sostituita dalla Csi (Confederazione Stati Indipendenti), che pur presentando gli stessi giocatori non andò da nessuna parte, giungendo al risibile eccesso di perdere 3-0 dalla Scozia: perché quando a una nazionale fortemente identitaria sostituisci il nome, ridisegni la maglia, assegni un inno d’ufficio e soprattutto cancelli la scritta CCCP, be’, il prodotto cambia e come.
I perditempo che hanno agio di consultare le statistiche noteranno come, di tutte le nazionali inciampate sulla strada nostra, l’Urss è quella con cui ce la siamo cavata peggio, finendo per essere l’unico avversario (nemico!) contro il quale il bilancio è in debito: due vinte, cinque patte, quattro perse. Penso che sia stata una questione più psicologica che storica. Sandro Mazzola raccontava di quando s’era trovato a dover tirare un rigore decisivo contro l’Urss, nei favolosi anni sessanta. In porta c’era Jascin. Mazzola era arrivato sul dischetto sicuro delle proprie capacità indiscusse, deciso a non guardar nemmeno il mitologico portiere e fulminarlo. Non lo guardò, ma la coda dell’occhio scorse un’enorme ombra nera che si espandeva fino a coprire l’intero specchio della porta. Mazzola tirò il rigore sapendo che sarebbe stato parato. Aveva vinto l’ombra russa, che si è allungata nelle menti dei nostri calciatori fino al definitivo arrugginirsi della cortina di ferro.
Oggi
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