(Gurrado per
Quasi Rete/Em Bycicleta)
Il calcio inglese è un’eternità composta di infiniti minuti secondi. Non sembra avere inizio, perché per quanto io mi sforzi di rimontare indietro c’è sempre un prima: prima di Zidane c’era Maradona, prima di Maradona c’era Platini, e prima c’era Sivori, prima ancora Bacigalupo eccetera, e prima il Bologna che tremare il mondo faceva, e prima nientemeno Casale e Pro Vercelli, e prima di tutto il Genoa Cricket and Athletic Club vestito a strisce bianche e blu. E prima del Genoa? Be’, prima del Genoa c’erano gli Inglesi, che si perdono nella notte dei tempi, gli Inglesi che giocavano a pallone quando gli Italiani ancora pensavano ad annettersi Roma.
Né il calcio inglese sembra avere fine: a giudicare dalla Champions League di quest’anno, il sistema lassù scoppia di salute e camperà oggi è cent’anni, duecento, mille. Il calcio inglese è un’eternità e di tutti gli infiniti secondi che la compongono il più importante è l’ultimo, quello che appena te ne accorgi è già passato, quello che strozza in gola all’arbitro i tre soffi nel fischietto.
Prendete il Liverpool. Martedì 8 aprile, anno del Signore 2008, il Liverpool era un mite Mardocheo da condurre al macello, l’Arsenal un pingue re Assuero seduto sulla propria botte di ferro: 2-
2 in trasferta a sette minuti dalla fine (andata 1-1). Martedì 8 aprile 2008 il Liverpool s’è inventato la propria festa di Purim ribaltando le sorti che rotolavano verso la sconfitta, inesorabili e placide come la palla che Adebayor aveva appena accompagnato in porta, esultando poi in sconsiderata guisa, dimèntico degli ultimi sette minuti. Ne mancano cinque, e il Liverpool segna; manca l’ultimo scampolo di recupero e il Liverpool risegna. Non per questo è sazio: all’ultimissimo secondo, dall’estrema sinistra del centrocampo, qualcuno troppo rapido perché io possa riconoscerlo tenta il pallonetto costringendo Almunia, poverino, a catapultarsi sotto la traversa per evitare il quinto schiaffo. Il troppo storpia, ma per una squadra inglese i minuti sono novanta e rotti, e ogni momento è buono per segnare, e conta sempre e solo l’ultimo secondo.
Lo spadaccino sulla fascia sinistra non era, ho ragione di credere, John Arne Riise. Ma il destino è iniquo e, tempo giorni quattordici, decide di far ricadere sul danesone la
hybris altrui. Martedì 22 aprile, fine del recupero di Liverpool-Chelsea: rossi in vantaggio per 1-0 e blu alla perplessa ricerca del pareggio. Ultima azione: rimessa d’attacco per il Chelsea. Ultimo assalto: palla lunga sulla fascia e cross in mezzo per chi capita. Ultimo secondo: capita Riise, professione difensore centrale, maglietta rossa e meno di mezz’ora nelle gambe; capita Riise il quale, intimorito dalla svogliata sagoma di Anelka alle calcagna, non trova di meglio che accartocciarsi piombando sulle pallide ginocchia e inzuccare il cross disperato dando alla palla un giro che, fosse stato in attacco, mai gli sarebbe riuscito. Autogol. Contrappasso. Fischio finale.
Il Liverpool è la squadra più inglese di tutte perché, in un modo o nell’altro, l’ultimo secondo è sempre il suo. Nel 2006 era in finale di FA Cup,
vulgo Coppa d’Inghilterra, e sbadatamente perdeva 3-2 contro il West Ham. La lancetta dei minuti scatta per l’ultima volta, il pubblico rumoreggia, da Wembley
la Coppa s’incammina verso il nordest di Londra . La palla trotterella sulla tre quarti, dopo una mezza respinta degli Hammers in sollucchero, Steven Gerrard arriva e senza troppa impressione di fatica tira una cosa per la quale in Italiano non è ancora stato inventato un termine atto a rendere l’idea (e per esprimere la quale il cronista inglese conia in presa diretta il termine “Uaoooàààh”, tuttora esulante dall’
Oxford Dictionary). Il cronometro segna minuti 90 e secondi 08: dopo è una corsa pazza verso l’abbraccio dei compagni, verso i supplementari, i rigori e la vittoria – la quale, di fatto, era arrivata pareggiando
in articulo mortis, tutto il resto essendo mera statistica.
Tutto questo per significare che, se le squadre inglesi smettono di tirar calci solo e soltanto dopo che l’arbitro s’è avviato verso le docce, il merito è della nonna FA Cup, che quando
la Champions League era ancora
in mente Dei già abituava frotte d’Inglesi al sadico rito della partita secca. Noi siamo gente da girone all’Italiana; sappiamo che il pareggio di oggi può tornare utile domani e che se si è perso il derby niente male, domenica prossima lo stesso scudetto può essere vinto contro il Siena
[Nota di Gurrado: il pezzo era stato scritto il 5 maggio, data significativa, e la redazione del blog della Gazzetta ha deciso di pubblicarlo dopo il pareggio fra Inter e Siena, data altrettanto significativa]. I Francesi hanno inventato la ghigliottina, gli Inglesi l’eliminazione diretta – e sono stati molto più crudeli.
La FA Cup, prima e inimitabile incarnazione dell’eliminazione diretta, dimostra
more geometrico come ogni singolo secondo sia un palpito di calcio. Soprattutto l’ultimo.
Mercoledì 21 maggio, anno del Signore 2008, per la prima volta nella storia due squadre inglesi si litigheranno
la Coppa dei Campioni fino all’istante in cui uno dei due capitani non ci avrà messo le zampe addosso. Non ci sarà il Liverpool stavolta ma, tanto per dire, c’è lo United che nove anni fa provvide a sfilare il trofeo al Bayern Monaco nei minuti spiccioli durante i quali i crucchi già stavano pensando a cosa cantare negli spogliatoi.
È la certificazione definitiva della superiorità del calcio inglese, già nota da decenni e indipendente dai risultati, mai come quest’anno eloquenti: United e Chelsea in finale, Liverpool in semifinale, Arsenal ai quarti. Però (c’è un però), se le attuali finaliste di Champions l’anno scorso erano a Wembley per la vecchia, prestigiosa, santa FA Cup, quest’anno non una delle semifinaliste in Coppa patria ha calcato i luminosi pascoli europei, anzi: solo il Portsmouth giocava in Premiership, le altre tre (West Bromwich Albilon, Cardiff e Barnsley) arrivavano dallo scantinato,
la Championship, dove oggi sono rispettivamente seconda, tredicesima e sedicesima. Niente male.
Mercoledì 21 maggio ci sarà pure United-Chelsea, ma sabato 17 Cardiff e Portsmouth si giocano
la FA Cup, il trofeo più antico del mondo, che dal 1872 segue il suo rituale consumato, immutabile, intrinsecamente e crudelmente inglese: una partita ciascuno e chi perde leva il disturbo. In questi giorni Manchester e Chelsea si stanno giocando Inghilterra ed Europa, mentre il Portsmouth dondola pericolosamente ai bordi della zona Uefa e il Cardiff galleggia in seconda divisione: non per questo la partita del sabato è meno importante di quella del mercoledì. Prima della Champions League, prima di Tévez e Drogba, prima di Gerrard e Ian Rush, prima dell’Aston Villa e del Nottingham Forest, prima dell’Inter di Herrera e del Milan di Rocco, addirittura prima del quintuplo inenarrabile Real Madrid - prima di tutto c’è
la FA Cup.
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