Abrí la puerta de la entrada y pregunté: «¿va bien la pasta al ragú?»: mi è appena arrivato il file di prova contenente la traduzione di un mio racconto per una rivista spagnola. Invece di dilungarmi su come mai va a finire regolarmente che le riviste letterarie italiane, forse perché non le seguo mai con la morbosa regolarità che dedico al Guerin Sportivo, quelle due o tre volte che ho tentato di spedir loro dei miei racconti me li hanno sempre rispediti indietro variamente schifate – dicevo, inevce di tutto questo preferisco concentrarmi sulla meraviglia inevitabile di quando ci si legge in una lingua diversa, e per giunta non la si conosce. Ammetto candidamente che per me è la prima volta; e che i miei sforzi di controllare la traduzione, secondo la corretta richiesta dal traduttore, stanno naufragando fra i marosi della mia ignoranza linguistica. Uno crede di avere ben presente ciò che ha scritto, anzi, pensa che i suoi prodotti siano inscindibile parte di sé stesso; poi arriva un file di prova e si passa mezza mattinata ad arrovellarsi per cercare di capire ciò che si è scritto, inventandosi una lingua parallela le cui regole immaginarie valgano, con alterna verosimiglianza, esclusivamente all’interno delle poche pagine etero-tradotte. Accade in quel momento che il testo prenda vita propria, indipendente da chi l’ha scritto; e che l’autore non possa fare altro che restare ammirato a guardarlo, cercando di capirsi: come se dall’altro lato della pagina ci fosse un Gurrado che io ignoro ma che parla Spagnolo, e tentasse di insegnarmelo.
Sto leggendo un libro meraviglioso: per la prosa in cui è scritto, per l’apparato iconografico, per la relativa difficoltà a trovarlo in Italia (è stato pubblicato da Jonathan Cape nel 1970, e ripubblicato da Carroll & Graf nel 2002), nonché per l’autore (Anthony Burgess) e per l’argomento (Shakespeare: che scrivo in corsivo poiché è anche il titolo). Come si sa, il problema con Shakespeare è che ha lasciato molte più parole scritte di quante, scritte da altri, testimonino la sua effettiva vita, così che al pari di Omero il suo ruolo nella letteratura è talmente decisivo che potrebbe benissimo non essere mai esistito. Anthony Burgess è un romanziere (esageriamo: è il più grande romanziere del secondo dopoguerra. Non si accettano discussioni), e a Shakespeare ha dedicato anche un fantasioso resoconto romanzesco (Nothing Like the Sun, 1964), la sceneggiatura Will and Testament, nonché una cospicua parte di Enderby’s Dark Lady e un sottobosco di riferimenti in opere diverse sufficienti a riempire un’enciclopedia intera. La peculiarità dello Shakespeare di Burgess è che in questo caso il romanziere cede il passo al biografo, e consiste proprio nell’aggiungere parole verosimili alle poche parole vere che testimoniano l’esistenza del biografato (particolarmente sfuggente in questo caso). Spiega Burgess: “Ogni biografo anela a qualche nuovo gesto reale – un’unghia tagliata il 7 maggio del 1598, o un brutto raffreddore durante la prima spedizione guidata da Re Giacomo I – ma il gesto non si materializza mai”. Tutt’al più possono materializzarsi le parole, ed è questo che fa lo scrittore: ragion per cui viene un brivido a pensare al corto circuito letterario quando si manifestano le prime e pressoché uniche parole che traggono Shakespeare fuori dalla sua nube immaginaria, nella riproduzione fotografica dei registri parrocchiali di Stratford-upon-Avon che il 26 aprile 1564 riportano il battesimo di “Guglielmus filius Johannes Shakspere”. Segue la firma del padre: “XXX”.
Shakespeare potrebbe benissimo non essere mai esistito, però, e inquieta la somiglianza fra il suo ritratto e quello dell’altro grande commediografo elisabettiano, Christopher Marlowe. Non bisogna eccedere in buon senso per ritenere che lo Shakespeare calvo possa essere la versione matura del giovane Marlowe capellone; tanto più che questi è morto ucciso nel 1593, poco prima che iniziasse il celebrato “secondo periodo” di Shakespeare, con il Romeo e Giulietta del 1595. In Shakespeare in Love Tom Stoppard, che proprio fesso non è, fa sì che Shakespeare si cavi d’impaccio rispondendo brillantemente a uno scagnozzo che lo interrogava (con annesso coltellino) riguardo alla propria identità: “Io sono Christopher Marlowe”.
Noi conosciamo Rowan Atkinson soprattutto come Mr Bean, ma in Inghilterra è famoso soprattutto per la situation comedy storica Blackadder. La seconda serie (del 1986), ambientata durante l’età elisabettiana, prevede una puntata sull’invidia di lord Edmund Blackadder nei confronti di sir Walter Raleigh, impegnato a percorrere in lungo e largo i sette mari per portare regalini alla deliziosamente isterica regina Elisabetta. Per riguadagnarne i favori, Blackadder decide di salpare e in suo omaggio la Regina compone il poemetto Edmund: “When the night is dark / and the dogs go bark, / when the clouds are black / and the ducks go quack, / when the sky is blue / and the cows go mooo, / think of lovely Queenie / she will be thinking of you” (“Quando la notte è oscura / e i cani fanno bau, / quando le nuvole sono nere / e le anatre fanno quà, / quando il cielo è blu / e le mucche fanno muuu, / pensa alla cara Regina / e lei penserà a te”). Dopo di che ammette compiaciuta: “Shakespeare mi ha aiutato col titolo, ma il resto è tutta farina del mio sacco”.
Questo divertissement senza filo conduttore intende nel suo piccolo onorare la memoria di Liana Macellari, vedova di Anthony Burgess, morta a Sanremo lo scorso 3 dicembre.
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