Avendo mangiato, avendo bevuto, posso darmi alla chiacchiera smodata, disinvolta, scombiccherata.
Ho mangiato e bevuto, lunedì a pranzo, presso il bar della Pro Loco di Spessa Po, a una ventina di minuti da Pavia, per commemorare il quindicesimo della morte di Gianni Brera; e già è indicativo del personaggio e del suo mito reso perpetuo l’evenienza che per commemorarlo degnamente siano stati serviti, nell’ordine: affettati misti con cipollotti in agrodolce, frittatine, cotechino caldo con purè (come antipasti); risotto con pasta di salame, ravioli in brodo (in qualità primi); ragò, bollito di manzo, testina e gallina (quali secondi); panettone con crema, spumante (verbigrazia dessert); caffé (ossia caffé). Non pianti, dunque, ma cachinni: dalla mezza alle cinque del pomeriggio.
L’unico liquido versato in abbondanza è stato quello dei vini bianchi e rossi dell’Oltrepo pavese; fra i quali ultimi spiccava la Ciurlina, produzione esclusiva di Angelo Roveda, cugino di Brera. Il mio vicino di desco mi ha informato della curiosa origine del suo nome. Ciurlina lombardamente è la pipì che scende lenta e insoddisfacente, una pioggerellina mesta che ripugna ma non sazia. Quando il Roveda gliela serviva, Brera protestava e gli chiedeva robusti vini piemontesi, “e basta con questa ciurlina”; ciò nondimeno la beveva in abbondanza, ragion per cui il Roveda la imbottiglia oggi con l’etichetta farlocca di Ciurlina doc, da bersi solo e soltanto alla salute di chi ci vuole male e in memoria di GioannBreraFuCarlo.
Sia chiaro che alle dodici e venticinque, lungi dal conoscerlo, il mio vicino di desco non me l’immaginavo nemmanco, esattamente come l’altra cinquantina di commensali, eccezion fatta per l’amico Gino Cervi, che mi ha invitato e accompagnato (sopperendo alla mia mancanza di automobile, patente, fiducia nel mezzo meccanico e in me stesso quale guidatore), e per un professore dell’Università, che conoscevo di (chiara) fama. Non per questo alle due e un quarto uno di questi cinquanta sconosciuti s’è trattenuto dal salutarmi più calorosamente di un figlio o di un nipote, andandosene verso altri improrogabili impegni; non tanto per via della Ciurlina (ma anche), quanto per il contenuto dell’intuizione che avevo espresso precedentemente riguardo al motivo fondante dell’incontro stesso, e cioè (ci vuole un nuovo capoverso per dirlo):
1) che Brera aveva rispolverato l’antica origine aggregativa della letteratura, facendo vivere i suoi scritti dagli incontri gastronomici con la miriade di amici a Spessa come altrove; 2) che Brera ha anzi fatto dell’aggregazione la ragion d’essere della letteratura sua, portando il linguaggio colloquiale, il vernacolo e l’apostrofe diretta al lettore a un livello di naturalezza sconosciuto al secondo dopoguerra letterario italiano, così intento a rimirarsi l’ombelico sporco; 3) che di conseguenza il lettore è posto sullo stesso livello dell’amico, e che anzi amico e lettore sono interscambiabili: ragion per cui, 4) al bar della Pro Loco di Spessa Po trovano posto parenti (come il Roveda), amici di vecchia data (che lo chiamano Giovanni), allievi giornalisti (quorum Claudio Gregori, che conquista raccontandomi una Torino-Hajduk Spalato di venticinque e rotti anni fa), calciatori (Mario Corso, sinistro di Dio), ammiratori che rimpiangono di essere nati troppo tardi (io medesimo) senza distinzione alcuna. Nessun paravento ideologico, nessun separè psicologico: ancora amici di Brera, con la differenza che è presente soltanto nelle decine e decine di foto sui muri.
(Parentesi e intermezzo di gratitudine: a un certo punto Gino Cervi è impazzito e, avendo saputo del mio morboso collezionismo joyciano che mi spinge da anni ad accumulare edizioni diverse dell’Ulisse di Joyce, me ne ha regalato sull’unghia una, maiuscola e critico-filologica, in tre volumi e con la riproduzione a fronte delle singole varianti e correzioni autografe sul dattiloscritto originale; quella Gabler sulla quale s’è basata poi la moderna traduzione Mondadori.)
Ne segue il corollario che non c’è differenza particolare fra gli scritti giornalistici, letterari, biografici e quant’altro di Brera: è sempre la stessa voce che parla, è sempre lo stesso orecchio che ascolta. Nella fattispecie, lunedì scorso, la voce è stata quella di Gian Felice Facchetti (figlio e attore), che ha letto fra antipasti primi e secondi sei passi breriani diversi di quarantacinque secondi ciascuno (ha tenuto a specificarlo il brerologo Andrea Maietti, quale dimostrazione che non servono tante parole ma poche e giuste; e dovrei tenerlo da conto, tanto più che ho appena scoperto che anni fa Maietti ha pubblicato per Limina un volume intero per il mio ciclista preferito di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le strade e di tutte le misure: Gianni Bugno).
Dai lineamenti di Facchetti junior emergono decisi quelli del padre, a ben guardare sotto i riccioli e la barbetta, e dopo due o tre bicchieri di Ciurlina (vabbe’ sette; otto, giuro, non uno di più) mi verrebbe quasi voglia di dirgli che suo padre, Facchetti Giacinto, l’ho visto una sola volta e mai allo stadio, ma solo attraversante la strada al centro di Milano; solo che lo faceva trasformando le strisce pedonali in fascia sinistra con un piglio, con una nobiltà, con un mento alto e fiero tale che perfino chi non capisse nulla di calcio (come mia madre, ad esempio, o certi giornalisti che so io) a vederlo in impermeabile e mani in tasca non avrebbe potuto che esclamare: “Ecco, quello è Facchetti!”.
Ma non l’ho fatto. Mi sono limitato ad avvicinarmi a Corso Mario per chiedergli un autografo, che ora impreziosisce l’invito/menu del bar della Pro Loco (lo stesso fa il signore che mi siede di fronte; e poi aggiunge che porterà menu e autografo in omaggio a suo padre, di cui Corso era la gioia, al cimitero); e a stupirmi quando, insieme al panettone, è comparso Paolo Brera, figlio, che a una certa s’è sistemato a parlare col Professore di cui sopra sotto una foto del padre con la pipa: e, sant’Iddio, erano uguali pure loro, il figlio e la foto. Commozione, viene quasi meno il rimpianto di non aver visto Brera vivo e operante (morì che io avevo dodici anni e dieci giorni; me ne informò mio padre al mio risveglio, esattamente come aveva fatto tre anni prima per Scirea; boia d’un mondo, va’ a vedere le coincidenze).
Ma si erano fatte le cinque, bisognava tornare agli ultimi scampoli del pomeriggio lombardo, ché da queste parti è già quasi ora di cena e un pranzo lungo è altrettanto vergognoso; cercando qualcuno che mi riaccompagnasse (Gino Cervi è andato verso Lodi con Maietti) la Ciurlina entrata in circolo mi ha permesso di godere di visionaria lucidità mnemonica; così da non rimpiangere più di non avere la patente anzi benedire addirittura i viaggi in treno, durante i quali si può leggere di più; come ad esempio quello da Pavia a Brescia che mi ero sobbarcato due giorni prima e che iniziava medias in res con l’acchito di Luciano Bianciardi:
Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno: sarebbe a dire che la più lombarda di tutte le parole, pensa te, suona Braida, Brèda, Brera.
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