Ma la Messa, chiedeva scettico Massimo Troisi in Pensavo fosse amore (invece era un calesse), non è noiosa, uguale, sempre la stessa? Macchè, gli rispondeva il suo devoto amico e interlocutore, la Messa è un miracolo che ogni volta si rinnova.
A leggere Derby!, il volume della Baldini & Castoldi Dalai (edito nel 1994 e ristampato quest’anno) che raccoglie gli articoli di Gianni Brera riguardo ai molteplici incroci fra Milan e Inter, si ha la netta percezione che, lungi dal poter risultare noioso, uguale, sempre lo stesso, l’accostamento cromatico di squadriglie rossonere e nerazzurre sul verde prato di San Siro è un miracolo che si rinnova due volte all’anno. Gianni Brera ha visto, accumulato, commentato quarantasette derby, dall’ottobre 1956 al novembre 1992, rendendone partecipi dapprima i lettori de Il Giorno, quindi quelli de La Repubblica. I quali di certo non si sono annoiati, e anzi presumibilmente attendevano con particolare trepidazione i derbistici pronostici prima e i resoconti poi, puntuali uno in autunno e uno in primavera.
Tuttavia siamo in presenza di un libro e quindi, in questo tourbillon di Milan-Inter e Inter-Milan, non è possibile frapporre i lunghi mesi che, col normale dipanarsi del campionato fra un derby e l’altro, costituiscono la ragion d’essere della golosa attesa. I libri invece, per il loro stesso essere oggetti rilegati con le pagine una dietro l’altra in rapida successione, si prestano (per chi non lo sappia) a una lettura continuativa e magari ininterrotta; io, almeno, abitualmente li leggo così. Domanda dirimente: c’è da fare un’eccezione per questo volume che infila un derby dietro l’altro, concentrandone quasi cinquanta in meno di cinquecento pagine? Corollario interrogativo: non è che l’indiscussa (e indiscutibile) maestosità del roboante stile del Brera giornalista va un po’ a male quand’è compattata in forma di volume, tanto più d’argomento monografico e col pericolo della ripetitività sempre in agguato dietro l’angolo?
Non ho tempo né voglia di stare a porre distinguo fra come si scrive per un giornale e come si scrive per un volume, o peggio ancora stare a sindacare sui giornalisti che fanno gli scrittori e gli scrittori che fanno i giornalisti. Accontentatevi di quest’assunto indimostrabile, che ho per certo sin dalla primissima adolescenza e che decenni di letture assortite non hanno contribuito a fugare minimamente: Gianni Brera è stato il più grande giornalista italiano. Ne consegue immediatamente che viene meno la speciosa distinzione che lo vorrebbe giornalista sì ma sportivo, come a dire che chi parla di partite di calcio fa un mestiere diverso rispetto a chi trascrive resoconti politici o è inviato in una zona di guerra o, ça va sans dire, scrive recensioni di libri appena usciti.
Ne consegue anche, su un più ampio respiro, che Gianni Brera è stato il più grande giornalista italiano perché è stato il meno giornalista di tutti: ha lasciato su ciò che vedeva l’impronta inconfondibile dei suoi occhi che guardavano (rileggetelo, e noterete che è uno dei pochi che non stona mai quando dice “io” e intorno a “io” fa ruotare il mondo), che si rispecchiava nell’estrema proprietà del linguaggio, nello stile inconfondibile e tale da far esclamare a chiunque, nel corso degli anni, aprisse a caso Il Giorno o La Repubblica: “Questo è Gianni Brera”. Senza sbirciare la firma in calce.
A Gianni Brera tutto perdóno, anche di tifare contemporaneamente per il Milan e per l’Inter (quando è invece peccato mortale). Essendo milanese, era il suo sillogismo, devo tifare per le squadre entrambe che giovano alla gloria della mia città. Poco importa che Brera non fosse milanese ma pavese (di San Zenone), poco importa che avesse sempre avuto un debole (più propriamente: tifo) per il Genoa d’altri tempi; ciò che gli premeva era che la grandezza di entrambe le squadre contendenti rendesse grande ciò per cui lui apertamente tifava: il derby.
Ragion per cui è possibile in questo raro caso leggere di fila quasi cinquecento pagine di cronache reiterate senza annoiarsi per un nanosecondo: perché di fondo c’è la sicurezza breriana che il derby milanese sia una partita che vive di vita propria, legato da un sottile filo rosso-nero-azzurro che alla continuità nelle maglie immutabili, nell’ambientazione sansiresca, nelle rivali speranze del tifo suburbano faccia corrispondere il rinnovamento per il quale Zenga è conseguenza di Bordon che è conseguenza di Sarti che è conseguenza di Buffon Lorenzo fino a risalire al Ghezzi primigenio (così come Papin è conseguenza di Hateley che è conseguenza di Calloni che è conseguenza di Chiarugi che è conseguenza di Amarildo).
Per Brera il derby è più di una partita, è un minimo comun denominatore. È la costante fissa che rendeva importante la variabile, nel dettaglio ora di un pomeriggio luminoso (“fin troppo”, commenta Brera nel 1958), ora del treno preso in fretta e furia da Concetto Lo Bello (“che con molto fair play ci ha messo fuori”, mastica amaro Brera nel 1966), ora nelle preoccupazioni interiste per l’influenza di Baresi I (“mangia in camera, gli viene servito il pranzo da un cortese cameriere”, notifica Brera nel 1980). È il miracolo che ogni volta si rinnova e del quale, in autunno e in primavera, Brera è stato sommo sacerdote, rendendo eterno ciò che sarebbe stato dimenticato, traducendo in parole sempre nuove magoni inesprimibili.
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