(Gurrado per Quasi Rete)
C’è dunque quest’usanza meridionale di approfittare dell’onomastico dei figli per far visita ai genitori. Il 13 giugno 1990 avevo dieci anni e toccava a me, solo che la lenta sfilza pomeridiana di amici di famiglia con profferte di regali e dolcetti non riusciva a distogliermi dall’intento di restare barricato in cucina. Non era una protesta, non l’avevo su né coi miei né coi loro amici né tampoco con Sant’Antonio; è che era pieno mondiale d’Italia e c’era Uruguay-Spagna, prima partita del gruppo E: io mi sentivo parte in causa.
C’è anche questa tendenza tutta italiana a cercare corrispondenze e quasi parentele anche dove non si dovrebbe. Il Sudamerica, per esempio, ha una mappatura psicologica che corrisponde alla coscienza europea: gli argentini sono i nostri cugini, incazzosi per strada, raffazzonati sul lavoro e repentinamente poetici, poi lacrimogeni, poi entusiasti senza ragionevole causa scatenante. Non per niente Maradona ha fatto quel che ha fatto a Napoli, mica a San Pietroburgo. I brasiliani mi hanno sempre dato l’idea dei francesi, schiavi della propria grandeur, morbosi nella ricerca dell’eccesso, sfregiati dall’allegria del naufrago. Gli inglesi – be’, degli inglesi valga il giudizio espresso da Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa: “Gli uomini delle mie isole sono tutti un po’ matti”. Gli inglesi del Sudamerica sono gli uruguagi.
C’è infatti questa parola figlia di Gianni Brera che stenta a entrare nel lessico comune così come stenta a uscire da quello sportivo. Non vi so dire il fascino dell’esotica y che diventa g dolce ammarando nella fonetica patria dell’aggettivo inconsueto. Uruguaiani, o peggio ancora uruguayani, mi fa lo stesso effetto di quelli che dicono giunior, di quelli che vestono naik, di quelli che pagano in iuro. Se un giorno potessi realizzare un mio sogno bambinesco, metterei di fronte due squadre immaginarie: da un lato tutti gli uruguagi, che questo computer codino continua a sottolineare in rosso, dall’altro tutti gli uruguaiani. Secondo voi chi vincerebbe?
C’è anche la storia che ha detto la sua in maniera insindacabile. Ogni quattro anni cambiano gli ultimi campioni del mondo, ma dal 1930 i primi sono sempre gli stessi, mutande nere e camicia celeste. Padroni di casa della prima edizione, gli uruguagi fecero disputare tutte le partite a Montevideo – non sorprende, considerato che il loro esotico campionato ha sempre consentito l’iscrizione alle sole squadre della capitale ragion per cui ogni partita è derby. La finale fu nello Stadio Centenario, costruito appositamente per i Mondiali e per celebrare il secolo trascorso non dall’indipendenza (1825) ma dalla costituzione (1830). Fu 4-2 sull’Argentina fu anche l’unica finale, che io sappia, in cui abbia fatto goal un handicappato: Hector Castro, falegname di nascita, aveva dimenticato la mano destra sotto una sega elettrica e perciò era detto “el manco”.
C’è perfino una parola che non è una parola vera e propria, essendo stata composta da un complemento di stato in luogo e un suffisso di disperazione ed esagerazione. Maracanazo in Italiano potrebbe tradursi maracanazzo, tanto per rendere l’idea dell’atmosfera fra i centomila, centoventimila, chissà forse duecentomila tifosi brasiliani accalcati sugli spalti del nuovo stadio di Rio de Janeiro per la finale dei Mondiali 1950. Non è una finale stricto sensu visto che per aumentare partite e incassi (e proteggere il Brasile dalle già allora tradizionali inciampate nell’eliminazione diretta) era stato escogitato un girone conclusivo con quattro squadre. Alla vigilia di Brasile-Uruguay la classifica era tale che ai padroni di casa, in maglia candida, bastava pareggiare. Il Brasile s’era fatto strada fino a lì a suon di goleade e sull’1-0 si proclama campione, ignorando di non star fronteggiando dei mediocri uruguayani ma dei sublimi uruguagi. Il capitano della celeste armata era Obdulio Varela, uno che con un nome del genere meritava d’essere inventato da García Marquez; dopo il vantaggio brasiliano aveva avuto l’ottima pensata di raccogliere il pallone dal fondo del sacco e avanzare tenendolo in mano verso il centrocampo, a passi tardi e lenti come il vecchierel canuto e bianco, tanto che alla moltitudine assiepata sugli spalti (trecentomila? mezzo milione?) venne l’angina alla sola idea che stesse per protestare per un fuorigioco, un fallo di mano, qualsiasi cosa potesse far tornare lo 0-0 iniziale. Invece Obdulio Varela vendeva saggezza. Rimise la palla a centrocampo e l’Uruguay vinse 1-2 con la premiata ditta Schiaffino & Ghiggia.
C’è stato poi Mazurkiewicz, il portiere dal nome ostrogoto che nel ’70 venne dribblato da Pelé senza che nessuno dei due toccasse palla; c’è stato Ruben Sosa, c’è stato Recoba, c’è stato anche Zalayeta. C’era soprattutto questo spareggio contro la Costarica, che da ogni parte si insiste a chiamare “il Costarica” come quelli che vogliono fare gli intellettuali e dicono “il Genesi” (ma poi, fra parentesi, direbbero mai “il Ricerca del tempo perduto”? direbbero mai “il Costa d’Avorio”?). Quattro anni fa gli uruguagi per qualificarsi erano stati sottoposti a simili forche caudine e avevano perduto contro – non ricordo bene se Trinidad & Tobago o Mogol & Battisti o Salmoiraghi & Viganò. C’era questo spareggio contro la Costa & Rica, mercoledì, e altri quattro anni senza vedere camicie celesti e mutande nere sarebbero stati insostenibili come la replica della Corazzata Potemkin. Però alla fine l’Uruguay ha vinto, il Mondiale è salvo, poesia e storia pure.
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