Vecchio film di Woody Allen, non ricordo il titolo. In un galleria d’arte contemporanea nel bel mezzo di Manhattan, l’occhialuto protagonista si avvicina a un’intellettuale solinga che sta mestamente considerando un quadro inguardabile, e le chiede se ha programmi per venerdì sera. “Venerdì sera penso di suicidarmi”, fa quella. “E sabato sei libera?”.
Esistono due maniere di rapportarsi alla morte (nonché alle sconosciute da approcciare nelle gallerie d’arte): la si può ritenere la fine di tutto oppure il passaporto per l’immortalità; parimenti, il rifiuto della sconosciuta abbordabile segna per i materialisti la definitiva sconfitta, per gli spirituali l’inizio della battaglia. Tanja, la protagonista dello sbalordente primo romanzo di Lara Vapnyar (Memorie di una musa, Neri Pozza, 2006), è nata e cresciuta nel materialismo dell’Unione Sovietica e se ne rende conto il giorno della morte di sua nonna, circostanza nella quale suo zio dichiara: “Che cos’è la morte? La morte è il nulla. Siamo atei, per noi non c’è vita dopo la morte”. Tuttavia lo Spirito soffia dove vuole e Tanja, per quanto ancora ragazzina, è spiritualmente molto più matura dello zio bolscevico; lo Spirito soffia dove gli pare e l’immortalità arriva a Tanja tramite il racconto della vita privata di Dostoevskij, chiuso fra gli estremi di due donne opposte: Apollinarija (Polina), l’imprevedibile amante che lo ispirava tormentandolo, e Anna Girgor’evna, la devota dattilografa che lo sposa subito dopo la composizione de Il Giocatore e che lascia trascorrere gli anni di capolavoro in capolavoro quasi senza accorgersi che il marito è uno scrittore.
Tanja sogna, immagina nel dettaglio la vita amorosa di Dostoevskij e Polina, la vede con distinzione e giunge fino a sentire Dostoevskij vivo e presente di fianco a sé, immortale con la carica seduttiva degli occhi di diverso colore, uno nero e l’altro marrone. Capisce che per liberarsi dell’ateismo materialista (sia chiaro, è una ragazzina quindi non la pensa in questi termini, ma noi siamo vecchi e saggi quindi sappiamo che è lo Spirito a condurla) deve intraprendere una necessaria migrazione purificatrice (dall’Unione Sovietica all’America, versione postmoderna dell’exitus Israël) e garantirsi l’immortalità diventando una reincarnazione di Polina. Per questo le serve un Dostoevskij, e fortuna vuole che da un po’ di tempo se ne trovino a bizzeffe (se non conoscete l’America, pensate all’Italia: basta un’ospitata dall’ammirevole Bignardi, basta una recensione fatta da qualcuno che non sia io, basta una comparsata su Radio3 o una presentazione in Feltrinelli; basta, da qualche settimana, comprare i fascicoli di un corso di scrittura per corrispondenza e voila, ecco il Dostoevskij-fai-da-te). Le basta sedersi in prima fila a un pubblico reading nell’Upper West Side e, un mese dopo, Tanja assurge al rango di musa.
Il Dio creatore è ebraico; lo scrittore, creatore in sedicesimo, dal quale Tanja si trasferisce a vivere è un barbuto ebreo. Si chiama Mark Schneider e ha scritto un libro che Tanja non riesce a leggere, perdendosi nei meandri dei periodi interminabili, dei riferimenti incrociati, dell’intellettualismo compiaciuto. Così come sulle prime l’uomo ama Dio perché non gli riesce di comprendere la sua creazione, Tanja adora Schneider perché il suo romanzo è incomprensibile ed egli stesso appare irraggiungibile: vuole essere parte della sua divinità, del suo genio, della sua immortalità – e, visto l’ostacolo linguistico, deve diventarlo tramite una comunicazione non verbale, esclusivamente corporea.
Dura poco più di duecento pagine, il romanzo di Lara Vapnyar, però riesce a intersecare temi talmente diversi in almeno tre differenti livelli di narrazione, che partono a raggiera dal fulcro della vita di Tanja e dal suo diario. Viene la depressione a pensare come sia trattato il sesso da buona parte delle scrittrici italiane (narratologicamente; di persona non lo so) mentre si leggono le lucidissime considerazioni della Vapnyar sul corpo come strumento di comunicazione e sul peccato come doloroso lasciapassare per l’immortalità: nell’Unione Sovietica, materialisticamente scopre che “l’atto sessuale era semplice, accessibile, perfettamente privo di qualsiasi significato romantico e, cosa davvero disgustosa, molto comune”. Altrettanto, in America, si corica con Schneider e spiritualmente decide che “l’opera grande e misteriosa di una musa debba iniziare con quel piccolo fremito del corpo di un genio, un’esplosione minore, il quieto zampillo del suo sperma dentro di lei”. In Tanja i due mondi si toccano, si fondono, si confondono l’uno nell’altro. Lo spiritualismo giudaico (frutto di un Dio i cui comandamenti hanno viaggiato fra le pieghe delle lenzuola, prescrivendo la riproduzione e impedendone gli abomini) si guarda nello specchio impassibile del materialismo sovietico (fonte di un sesso che, al pari di ogni altra attività umana, è pura meccanica scientificamente regolabile).
Io lo dico sempre alle mie ammiratrici: ragazze, non fidanzatevi con uno scrittore. Innanzitutto, di solito lo scrittore non scrive: e infatti Schneider si barcamena fra i mille impegni derivatigli dalla pubblicazione precedente, classifica le recensioni proprie e altrui, passa ore dallo psicanalista o in palestra (senza fare particolari distinzioni fra i due ambienti), guarda la tv e beve il caffè. In secondo luogo, quando scrive, lo scrittore diventa macchinetta insopportabile: infatti Tanja spia dal primo momento all’ultimo Schneider nell’atto della creazione del suo nuovo romanzo, e decide di appuntare sul proprio diario, con stupita dedizione, gli atti più insignificanti che accompagnano la composizione: “Mangiava! Dormiva! Faceva a pezzetti una pagina di giornale! Mangiava ancora un po’! Dormiva di nuovo!”.
I punti esclamativi hanno vita breve nella vita e nella letteratura; poco tempo basta a Tanja per perdere ogni stupore nella sua catalogazione (“Mangiava. Dormiva. Faceva a pezzetti una pagina di giornale”) e acquisire un’autocoscienza autonoma che la ponga in maniera critica di fronte a Schneider come scrittore (anzi, visto che nella circostanza Tanja spia l’atto dello scrivere, potremmo dire tout court a Schneider come scrivente). Poiché lo scrittore null’altro è che un uomo (diceva Wordsworth, a man speaking to men, un uomo che parla agli uomini, anche se di rado costoro capiscono qualcosa), e visto che l’analisi del procedimento compositivo di Schneider porta necessariamente con sé anche la disamina del suo essere uomo, quasi una disamina etologica, il rapporto fra Tanja e Schneider viene minato dal non essere più Tanja una musa adorante (e adorata) ma un insuperabile e continuo vaglio critico, un punto interrogativo dietro ogni parola che esca dalla macchina da scrivere di Schneider.
Così Tanja si guadagna la sua porzione di immortalità, molto diversa da come l’aveva immaginata: non divenendo la riedizione di Polina ma avvicinandosi sempre più all’odiata Anna Grigor’evna, non vivendo della gloria riflessa ma perpetrando sé stessa in un marito e dei figli, non scrivendo con accuratezza il suo diario, le Memorie di una musa appunto, ma rileggendolo con spassionato distacco, anni e anni dopo, forte della contraddizione che “l’immortalità non porta niente di buono; ma quante sono le persone che non la desiderano?”.
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