Di James Robertson in Italia non è mai stato tradotto nulla. Eppure nel mondo anglofono ha esordito sette anni fa, pubblicando due romanzi (The Fanatic nel 2000 e Joseph Knight nel 2003), il secondo dei quali – come non so per scienza infusa ma apprendo dalla biografia in terza di copertina – ha dato il la a una impressionante sfilza di riconoscimenti letterari. Ora, per quanto si debba sempre considerare che in Gran Bretagna vengono assegnati più premi di quanti libri si pubblichino, e si debba di conseguenza tarare il successo conseguito da Robertson (che la foto in bianco e nero mostra relativamente giovane e decisamente ridanciano) notando che i suoi onori sono sempre stati limitati alla nativa Scozia senza mai invadere il resto della Gran Bretagna, non ho potuto fare a meno di notare che nelle librerie di Oxford le pile del suo ultimo romanzo, The Testament of Gideon Mack (ora in edizione Penguin), calano abbastanza rapidamente e necessitano sempre di un rimbocco. Significa che anche al di fuori dei confini patri la gente lo compra, probabilmente lo legge, presumibilmente ne parla bene ad altra gente che a sua volta lo compra – e così via col grande ciclo della vita editoriale. Ragion per cui ho allungato la mano verso la pila e ne ho comprato una copia anch’io.
Sono stato fortunato perché a quanto pare questo Testament è un tentativo letterario difforme da quello in cui Robertson pareva essersi specializzato (volendo estremizzare, il polpettone storico-patriottico), e soprattutto perché – per il solito discorso che ogni libro non è mai solo, ma si rinvigorisce o viene soffocato nella serra di altri libri che l’hanno preceduto nella vita di ciascun lettore – trovava in me un retropensiero florido. Chi è interessato al mio retropensiero continui pure a leggere, ma sappia che non ha nulla a che spartire col romanzo in questione. Chi giustamente preferisce sentir parlare del libro salti del tutto il paragrafo seguente. Chi si è già annoiato farebbe bene a cambiar pagina e cercare foto di Maria Sharapova: ha tutta la mia comprensione.
Il retropensiero gurradesco risale al 1733, quando ad Etrépigny (grossomodo presso Sedan) morì un curato cattolico il quale si peritò di lasciare un lunghissimo testamento. Per evitare che cadiate addormentati, mi limito a dirvi che il contenuto del testamento consisteva in una refutazione del cattolicesimo, dai dogmi fondamentali alla pratica quotidiana, e una virulenta professione di ateismo, cosa che decisamente non sta bene in bocca a un parrino. Il prevosto si chiamava Jean Meslier e la sua opera, ehm, Mémoire des pensées et des sentiments de J*** M*** prêtre curé d’Estrepigny et de Balaives sur une partie des erreurs et des abus de la conduite et du gouvernement des hommes où l’on voit des démonstrations claires et évidentes de la vanité et de la fausseté de toutes les divinités et de toutes les religions du monde pour être adressé à ses paroissiens après sa mort et pour leur servir de témoignage de vérité, à eux et à tous leurs semblables, eccetera eccetera eccetera. Se un testo con un titolo del genere viene ancora ricordato ai giorni nostri (ricordato non solo da me, intendo) è perché una trentina d’anni dopo Voltaire la rese immortale rimettendolo in ordine, tagliando, ricucendo, edulcorando l’ateismo e – modernamente – editandolo radicalmente a proprio uso e consumo, dando al contempo al Testament di Jean Meslier la possibilità di diventare un mito iconoclasta.
Ovviamente di tutto ciò non c’è la minima traccia nel romanzo di Robertson, però arguisco che (vista la sua formazione storica) l’autore possa aver calcato la coincidenza nell’atto di scrivere il fittizio testamento di un sacerdote ateo. Come Voltaire, anzi, l’autore inventa un fittizio editor (lo chiama Patrick Walker, possibile riferimento a San Patrizio che, cammina cammina, convertì mezza Gran Bretagna) e attorno a lui tutta una squadra il cui compito è comprovare la veridicità del testamento di padre Gideon Mack. Le differenze, tuttavia, sono sostanziali. In primo luogo Gideon Mack non è cattolico ma presbiteriano, appartenente alla chiesa nazionale (stavo per scrivere “regionale”, ma poi ho temuto di essere scuoiato da orde di giovanotti in kilt) denominata Kirk, e quindi non solo può sposarsi ma può addirittura essere a sua volta figlio di un prete. Ancora, e piuttosto sorprendentemente, Robertson ha scelto di ambientare la storia di Gideon Mack non nei secoli andati ma a ridosso dell’ultimo cambio di millennio. Infine, a differenza di Jean Meslier trecento anni fa, Gideon Mack viene convertito dal diavolo.
Gli capita infatti, nel corso di un pomeriggio piovoso quasi quanto questo qui (e ora ditemi che anche voi siete capaci di fare allitterazioni del genere come se niente fosse) – dicevo, gli capita di finire in un fosso e risvegliarsi con un elegante sconosciuto (vestito completamente di nero, non fosse per le scarpe da tennis) che lo sorveglia, lo accudisce, lo cura e lo rifocilla. La gratitudine cede ben presto il passo alla preoccupazione una volta che in padre Mack si fa strada l’idea che il suo ospite abbia un che di sovrannaturale, benché camuffato da un sorridente understatement, e che questi possa essere nientemeno che il demonio. Lo è, nientemeno, come il demonio spesso gli spiega; e se ha scelto di manifestarsi in Scozia non è perché padre Mack sia in qualche modo un eletto, ma per una banale questione logistica: “Mi piace la Scozia”, spiega, “e ci passo un sacco di tempo. (…) Mi piace il clima miserrimo. Mi piace la gente miserrima, il fatalismo, la negatività, la violenza che traspare sempre appena dietro la superficie. E mi piace la maniera in cui vi approcciate alla religione” (p.283).
Questa notazione geografica, con il conclusivo riferimento all’approccio nei confronti della religione, spiega la scelta cronologica. Infatti se l’ambientazione fosse stata, poniamo, settecentesca – se insomma Gideon Mack non fosse stato che un Jean Meslier con la cornamusa, perdonate il luogo comune ma ho fretta e un sacco di cose da fare – la situazione sarebbe stata un inedito (e decisamente raro) sacerdote ateo che deve perpetrare un inganno insopportabile ai danni di una comunità fedele e superstiziosa. Ambientando il suo romanzo alla fine del XX secolo e all’inizio di questa porcheria del XXI, James Robertson ha mostrato la religione fuori tempo massimo. Non solo il suo sacerdote, padre Mack appunto, è un miscredente, un ateo, un uomo che presta fede soltanto alla scienza e alla ragione (più materialista di un illuminista, dunque); ma anche la comunità in cui si muove è una comunità che di religioso ha ben poco, che si presenta a messa solo per Natale, o magari ogni domenica ma sempre con un larvato scetticismo.
Non si capisce se l’incredulità del sacerdote sia una causa o una conseguenza dell’ambiente in cui esercita.La reclusione col diavolo, sotto questo aspetto, è oltremodo istruttiva: in quanto Gideon Mack, che non sa fare un passo senza il proprio cervello (e che come ogni uomo raziocinante crede di essere coraggioso e vive di paure), si ritrova d’improvviso in un mondo diverso, in cui nulla è fatato o incantato come lo si immaginerebbe, ma semplicemente in cui, dialogando con il suo unico diabolico interlocutore, si rende conto che le leggi di ragione sono sospese e che l’incredulità – lungi dall’essere la soluzione di ogni enigma – è una camicia di forza che va smessa. Così che quando ritorna fra i suoi, e racconta con lucidità estrema la sua avventura demoniaca, padre Gideon Mack non viene creduto; e ancor più non viene creduto in quanto la racconta con estrema pacatezza e, sopra ogni cosa, ragionevolezza: lui che pensava di doversi guardare dalla superstizione delle masse, al contrario, si ritrova divorato dalla loro stessa incredulità, soprattutto perché il suo raziocinio nel considerare la strabiliante convivenza di tre giorni col diavolo – la sorprendente gentilezza dei suoi modi, l’estrema ragionevolezza di indossare scarpe da tennis per camminare più comodo per le rocche scozzesi – è vista inevitabilmente come sintomo di pazzia. In definitiva, l’incredulo Gideon Mack muore convinto di aver visto, mentre gli altri erano ciechi: ragion per cui la sua realtà viene considerata alla stregua di allucinazione. E, a un certo punto della sua reclusione, nel suo cervello iperattivo serpeggia il dubbio che il suo nereggiante ospite con le scarpe da tennis, il deceptor potentissimus, sia in realtà un travestimento di Dio, una prova o un trabocchetto. Chissà, gli risponde il diavolo.
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