L’Inghilterra – la Gran Bretagna, va’ – è un’isola che sta affondando. Si sa che il 27 giugno diventerà un paese stalinista grazie all’ingresso di Gordon Brown al 10 di Downing Street. Per non farsi mancare niente, il primo luglio diventerà un paese nazista grazie allo smoking ban, il divieto di fumare in qualsiasi locale pubblico (chiese comprese). Ora, io non fumo ma riconosco agli altri la libertà di farlo, così come pretendo che loro riconoscano il mio diritto a chiedere loro di non fumare, se la cosa mi dà fastidio. Esattamente come ritenni un paio d’anni fa quando questa follia venne messa in pratica dal governo Berlusconi (e chissà che non gli sia costata i ventiquattromila voti per cui ha perso le politiche del 2006), tutto deve risolversi nel gentlemen agreement fra i fumatori e i non fumatori presenti in una sala; i primi devono sentirsi in dovere di chiedere: “Dà fastidio se fumo?”; i secondi devono sentirsi in dovere di non scassare la minchia all’universo mondo e di capire che se si trovano direttamente investiti dal fumo di una sigaretta distratta possono: a) chiedere cortesemente, e magari sorridendo, al fumatore di turno di spegnerla; b) spostarsi dove il fumo non arriva; c) decidere di iniziare a fumare.
(A proposito, ricordate la barzelletta resa immortale da Walter Chiari? Un nano e un energumeno si ritrovano soli nello scompartimento di un treno. Dopo un po’ di silenzio, l’energumeno si accende una sigaretta. Il nano tossisce vistosamente. L’energumeno si preoccupa e indaga: “Le dà fastidio la sigaretta?” Il nano annuisce tossendo vieppiù. L’energumeno si acciglia e gli chiede: “Vuole che la butti dal finestrino?” Il nano lo implora per pietà. L’energumeno si alza, apre il finestrino, afferra il nano, lo getta fuori, si risiede e fuma la sigaretta in santa pace. Che meraviglia i pronomi!)
Lo smoking ban, invece, parte dal presupposto che lo Stato abbia il dovere di garantire la salute dei cittadini. Dove per salute si intende, ovviamente, una salute spicciola e superficiale, fatta per venire incontro a maggioranze ipocrite o a minoranze chiassose. Al contrario, noi sappiamo che lo Stato ha il dovere di garantire i diritti e la libertà dei cittadini, e che debba consentire loro di scegliere se fumare una sigaretta, o un sigaro, o una pipa (non altro, mascalzoni) sia per loro stessi un bene o un male. Continuare a mettere sui pacchetti le scritte “nuoce gravemente alla salute”, una volta che chiunque sa che fumare fa male ai polmoni e fuma ciò nondimeno, è da cretini come scrivere sulle magliette dell’Inter “tifarmi fa male al cuore ed è causa di sofferenze innumerevoli”. Il fumo, Cesare Pavese lo definiva “il vizio assurdo”; e come tutti gli altri vizi è una bilancia che su un piatto ha il piacere e sull’altra il danno, e sta al singolo scegliere fra l’uno e l’altro e stabilire il confine fra bene e male. Sicuramente non sta a Gordon Brown arrivare con una forbice e tagliare la brace alla sigaretta di un povero malcapitato, dicendogli: “Scusi, sa, lo faccio per il suo bene, anzi, per il bene della Nazione, anzi, per il bene del Partito”. Quindi ogni sera, prima di coricarmi, prego che dal primo luglio il numero dei fumatori inglesi aumenti esponenzialmente e che al suo primo discorso pubblico Gordon Brown venga soffocato da nerissime e peccaminose volute.
Questo è niente, però. L’altra sera pare che nel corso dell’edizione inglese del Grande Fratello, mentre si ballava si rideva e si scherzava, una concorrente che se non ricordo male si chiamava Tizia ha dato della negra (nigger) a un’altra concorrente che stando a ricerche approfondite dovrebbe chiamarsi Caia. Ha detto una cosa tipo “Spostati, negra!”, mentre ballava felicemente con lei. Nel giro di un minuto, Caia ha iniziato a iniziato a inveire su Tizia, a dirle che aveva fatto il passo più lungo della gamba, a spiegarle che si trovava in un guaio più grande di lei e sostanzialmente a minacciarla; nel giro di cinque minuti, immancabilmente, il Grande Fratello che tutto vede e tutto decide ha sbattuto Tizia fuori dalla casa. Applausi inevitabili delle fondazioni antirazzistiche.
Ma se rivediamo il tutto alla moviola, noteremo che: 1. Tizia ha detto “negra” in maniera per così dire preterintenzionale, diciamo che le è sfuggito, e soprattutto in una circostanza di allegria generalizzata e diffuso scarso autocontrollo; 2. Caia ha investito Tizia con una violenza inaudita che le derivava dritta dritta dalla consapevolezza di far parte di una minoranza, mentre Tizia no e quindi era senza alcuna possibile protezione; 3. il Grande Fratello è stronzo. Il Grande Fratello è stronzo perché s’è gettato anima e cuore nella nuova linea stalinista-nazista-gordonbrownista che caratterizzerà (e probabilmente finirà) Inghilterra e Gran Bretagna a partire da quest’estate; perché ha deciso a priori che chi dice una parola senza pensarci troppo è un criminale (nel mondo invertito del Grande Fratello i reclusi sono i buoni, e chi è colpevole viene sbattuto fuori) mentre chi con piena avvertenza e deliberato consenso investe l’altro di improperi e minacce, invece di chiudere un occhio e capire che tutt’al più l’interlocutore è un po’ scemo, è una vittima e un eroe. Una delle cose che mi lascia più perplesso è che non si possa più dire la parola “negro” in alcun contesto, e che vada sostituita per lo meno da “nero” facendo cadere tutta la colpevolezza del termine sulla povera “g” mediana. Eppure viene dal latino, che suona “niger”, da cui deriva anche l’inglese “nigger” usato dalla sbadata Tizia; e mi pare che un’etimologia latina dia a una parola sufficientemente dignità e che ne consenta l’utilizzo. Una persona ragionevole distinguerebbe che è disdicevole dire “negro” (o “terrone”, o “crucco”, o “ricchione”, etc.) in un contesto volutamente offensivo e aggressivo (“sporco negro”, “terrone di merda”, “crucco del cazzo”, “ricchione sfondato”, e per oggi siamo a posto); al contrario, poiché come diceva Casanova l’alfabeto è di tutti e di nessuno, si ha piena libertà di usare qualsiasi parola nel contesto giusto, ossia pacifico, magari ironico, sebbene eventualmente a tinte forti. Tutte le mie telefonate con un amico spagnolo iniziano con un reciproco “Ciao cabrón” (“ciao, stronzo”) e nessuno dei due ha mai pensato di offendersi e riferire al Grande Fratello Universale.
D’altronde in una nazione che tollera, anzi protegge, anzi favorisce i vegetariani c’è da attendersi questo e altro. Cosa ancora più sconvolgente per chi, come me, sa che la carne di cavallo è l’alimento più buono sotto il cielo e ne mangia a quintali (vabbe’, quintali diluiti negli anni); e, come me, si trova a leggere da tre mesi ogni giorno sui giornali inglesi che mangiare carne di cavallo è un’usanza barbara e inaccettabile. Ora, io ad esempio non mangerei mai un cagnolino (sui gatti sono più possibilista) non tanto perché mi commuova l’idea dei suoi occhioni scintillanti quanto perché a quanto pare la carne di cane non è affatto prelibata (come d’altronde buona parte della roba che costituisce la cucina orientale); il cavallo invece è buono e me lo mangio con enormi soddisfazione e gradimento. Al contrario, gli inglesi carnivori fanno il ragionamento che il cavallo è un animale di dignità superiore e che pertanto, buono quantunque, non vada mangiato; alla stessa maniera i vegetariani estendono il questo ragionamento equino a tutti gli altri animali, e non contenti di praticarlo per sé stessi pretendono di estenderlo anche a tutti gli uomini, compreso me che quando vedo un cavallo correre in una prateria già immagino all’orizzonte un’enorme bocca spalancata e pronta a masticarlo con metodo e cura. I vegetariani, come il Grande Fratello, come i non fumatori, trasformano una questione estetica (nel senso greco del termine, cioè percettiva e quindi riguardante il piacere dei sensi) sul piano più schifosamente moralistico, stabilendo che chi mangia carne (peggio ancora se di cavallo) è un criminale, così come chi fuma per i non fumatori. I vegetariani militanti (e gli accaniti non fumatori) sono persone che kantianamente fanno della propria massima (ossia il principio su cui regolano, stando a una libera scelta, la propria vita privata) un imperativo categorico (ossia il principio necessario su cui chiunque deve necessariamente regolare la propria esistenza). Se al ristorante io ordino del cavallo non pretendo che lo mangino anche gli altri, anche se lo consiglio vivamente; se uno è vegetariano pretende che io non mangi carne, perché è male. Che si impicchino.
Tutto questo accade mentre qualche intelligente di cui non ricordo il nome ha proposto che in tutta l’Inghilterra ogni bottiglia di vino rechi l’etichetta: “può indurre all’ubriachezza”. È evidente che una frase del genere, da sola, basta a evitare che tutta l’Inghilterra si ubriachi a ogni weekend, come invece soleva fare prima che il genio in questione non avesse avuto la bella pensata. È allo studio la proposta di attaccare su ogni automobile l’etichetta: “può schiantarsi in un incidente”, su ogni biglietto della lotteria “può non risultare vincente”, su ogni vetro “può rompersi ed eventualmente ferirti”, su ogni piccione “può fare la cacca e sporcarti la camicia”, su ogni laurea in filosofia “può non essere sufficiente a trovare un lavoro”, su ogni elenco telefonico “può sembrare ripetitivo”, su ogni ragazzo “può portarti a letto e poi svanire nel nulla”, su ogni ragazza “può ingrassare smodatamente”; mentre sta incontrando impreviste difficoltà il progetto di scrivere sul sole: “può causare scottature”. Eppure, se per ovviare all’intelligenza di quest’intelligente basterebbe attaccargli sul braccio la scritta: “può dire talvolta cazzate”, come ci comporteremmo col dottore che, sempre in Inghilterra e sempre in questi tristi giorni, ha proposto una legge che obblighi i medici a rifiutare le cure ai fumatori – e sia chiaro, stiamo parlando di qualsiasi tipo di cura, non solo di quelle relative al sistema respiratorio? Infilargli la testa in un cesso e tirare lo scarico può non essere abbastanza indicativo dei sentimenti che proviamo per questo benefattore dell’umanità.
Qui si scherza ma la situazione è seria. Si sta facendo avanti un’orda di vacui salutisti del corpo e della mente che pretende di imporre le proprie idee al mondo intero, facendosi schermo della tolleranza e del rispetto nei loro confronti per imporre la propria intolleranza e il sistematico calpestamento nei confronti di chi li circonda. Lo sapete che Hitler, quando era agli esordi, diceva di agire per il bene dell’uomo e veniva applaudito; sapete anche che in nome di un principio etico a capocchia (ossia svincolato da ogni riferimento divino) si inizia con il proibire le sigarette, poi si passa a proibire la carne, il vino, le parole fraintendibili, e si finisce col proibire, che ne so, di vedere le repliche di Drive In (una lacrimuccia per Beppe Recchia, fra parentesi) o di svegliarsi alle dieci del mattino o di dire che un cretino è un cretino o di non fare ginnastica ogni giorno o di comprare Topolino invece che MicroMega o di avere una fidanzata bella se prima non se ne è avuta almeno una brutta. Lo fanno per il nostro bene, sia chiaro: sono gli apostoli di un’etica innovativa, ossia la privazione della libertà di scelta, della possibilità di errore, del piacere del vizio e, conseguentemente, della capacità di redenzione, di crescita e di automiglioramento. Sono i difensori delle ragioni giuste. Sono i trombettieri della felicità obbligatoria. Noi invece siamo dei criminali, e crediamo che il senso della vita consista nel bere vino durante i pasti, fumarsi mezzo sigaro dopo cena, cuocere cavalli in varie guise, usare come meglio possiamo tutte le parole che esistono e lasciare che l’Inghilterra – la Gran Bretagna, va’ – affondi come meglio crede, purché noi stiamo a galla.
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