(Gurrado per Il Resto del Pallone)
Se mi consentite una metafora extracalcistica (ed evidentemente svincolata dall’attualità) immaginate di essere un grande partito di opposizione in uno Stato governato da un più grande partito di maggioranza che di tanto in tanto, per beghe interne alla coalizione che lo sostiene, ha bisogno dei vostri voti su questioni fondamentali. Cosa fate? Ci sono due tipi di persone: quelli che si allineano a votare insieme al partito di maggioranza, pur con tutti i distinguo del caso, in nome del più alto e comune interesse nazionale; quelli che al contrario ritengono che l’interesse nazionale sia meglio protetto facendo cadere il governo, andando a nuove elezioni, possibilmente vincendole e dando così allo Stato un nuovo governo più stabile.
Entrambe queste opzioni hanno, a mio avviso, pari dignità; ma quando si tratta dell’Italia io appoggio decisamente la seconda. Ho tragicamente dimenticato di dire che la metafora extracalcistica è finita col capoverso precedente, quindi parlando dell’Italia mi riferisco alla Nazionale allenata da Donadoni. Io ho ricordi palpitanti dell’ex giocatore: ero bambino milanista quando ci dava una mano e mezza a vincere trofei su trofei; almeno una volta al mese mi guardo con immutata commozione il suo goal al Real Madrid nel 1989; l’anno dopo avrei voluto essere con altri cinquanta milioni di persone dietro di lui a soffiare per deviare il suo rigore dalle mani protese di Goycochea, per evitare l’epopea tutta italiana delle notti tragiche – e così via, quindi tirate le debite somme. Allo stesso modo stimo l’allenatore (sebbene con la tipica riluttanza a rassegnarsi all’invecchiamento, tipica di chiunque veda un giorno sedersi in panchina colui che ai tempi d’oro sgambettava in campo), concordo che abbia ottenuto risultati sorprendenti al Livorno e penso che con l’esperienza possa diventare eccellente.
Con l’esperienza, però. Mi rincresce dire che a partire dal tremebondo esordio con la Croazia più di una volta Donadoni mi ha ricordato ciò che Gianni Brera disse di Valcareggi, commentando Italia-Germania 4-3 ai Mondiali del 1970: ossia che per allenare la Nazionale bisogna guidarla con mano forte e spirito indomito, non limitarsi a osservarla terrorizzati dalla panchina. La prima volta che ho visto Donadoni spaurito, circondato da fotografi a bizzeffe, con l’aria di chi voleva scusarsi a bassa voce per star iniziando a fare il mestiere che tutti gli altri Italiani (me compreso) esercitano quotidianamente in linea teorica – be’, mi è venuta in mente l’espressione di Arrigo Sacchi quindici anni prima, dopo l’insignificante pareggio d’esordio con la Norvegia.
Rileggete cosa ho scritto poco fa sulla mia infanzia milanista e immaginate quanto sforzo debba essermi costato, nel tempo, iniziare a tifare contro di lui e per estensione contro la Nazionale, soprattutto negli inguardabili progressi tattici dopo i Mondiali del 1994 (l’ultimo con Donadoni in campo, peraltro). Ogni partita della Nazionale era una preghiera acciocché con un dolore improvviso cessasse lo stillicidio di continua sofferenza: ma tempo ce ne volle, poiché a illuminare la Federcalcio non bastò un pareggio con la Slovenia, né una sconfitta con la Croazia, come nemmeno era bastata la sconfitta – e chi se la dimentica? – nell’amichevole contro il Pontedera. Bisognò perdere 2-1 con la Bosnia perché Sacchi tornasse al Milan (scombiccherandolo anziché no, ma non per questo gli voglio meno bene) e la Nazionale passasse in altre, più adatte, mani. Fu il piccolo male per un gran bene. Fu la provvida sventura. Fu il secondo modo di tutelare l’interesse nazionale.
Lo stesso ho pensato di Donadoni, il Signore l’abbia in gloria. Dopo i balbettii a Napoli contro la Lituania, l’allegra giostra dei calci-in-culo a Saint-Denis contro la Francia e così via, mi sono chiesto se non fosse il caso di sospendere il sostegno al (torna la metafora) governo e fare opposizione sporca per il bene dell’Italia. Il pensiero s’è fatto strada in maniera strisciante, diventando manifesto e irreprimibile a seguito del sorriso soddisfatto con cui ho salutato il goal dei volenterosi (nonché surreali) carpentieri delle Far Oer, e lasciando che una piccola parte di me accarezzasse il sogno del pareggio. Allora mi sono reso persuaso che tanto valeva uscire allo scoperto, sperare nel pareggio (o magari nella sconfitta) mercoledì in Lituania, levarsi il dente e passare a miglior vita (miglior vita calcistica, ci mancherebbe).
Solo che non avevo fatto i conti con l’evenienza che mi trovavo in Inghilterra, che l’unica maniera di sapere della partita sarebbe stata aggrapparsi alla malferma trasmissione della radiocronaca via internet, ma soprattutto che la distanza muta la prospettiva e che i battiti del cuore non seguono il ritmo delle volizioni cerebrali. Perché il problema cari miei è che, dai tempi in cui ero alto quanto il mio attuale ginocchio, quando vedo la maglia azzurra con lo stemma tricolore non capisco più niente né intendo sentir ragione: infatti il mio impegno nel tutelare l’interesse nazionale è tramontato nel momento in cui ho sentito descrivere il secondo goal di Quagliarella e mi sono trovato a ballare il trenino da solo in camera, senza accorgermi di star festeggiando (è una metafora, ripeto) perché mercoledì scorso il governo aveva retto.
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