In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». (Mt 16, 13-19)
Non tutte le domande suonano chiare come quelle di Gesù; non
tutti i punti interrogativi ci pongono così serratamente di fronte alla nostra
coscienza senza via di fuga. Forse abbiamo sbagliato l’interpretazione della
domanda che Papa Francesco aveva posto quasi un anno fa sull’aereo che lo
riportava da Rio de Janeiro a Roma. Verso la fine dell’intervista collettiva
Ilze Scamparini, giornalista brasiliana, gli aveva chiesto un parere sulla
presunta “lobby gay” del Vaticano e il Papa aveva risposto con una lunga
argomentazione che culminava in un’altra domanda: “Se una persona cerca il
Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”.
Per forza di cose i giornali devono abbreviare i fatti,
dunque l’hanno trasposta nei loro titoloni con questa formula sintetica
dall’aria un po’ scettica se non qualunquista: “Chi sono io per giudicare?”.
Così abbiamo trascurato due aspetti fondamentali. Il primo è che il Papa si
riferiva a qualsiasi peccato, anche non sessuale, ricordando che se una persona
si sforza la Chiesa ha il dovere di perdonare, e che si ottiene il diritto al
perdono solamente col pentimento e con lo sforzo. Se Gesù ha detto: “Neanche io
ti condanno; va’ e non peccare più” (Giovanni 8, 11), il Papa che è il suo
vicario a maggior ragione deve chiedersi: Gesù non ti condanna, chi sono io per
giudicare?
Il secondo aspetto è una diretta conseguenza del Vangelo di
oggi. La domanda di Francesco affonda le radici in quella di Gesù. Tutte le
domande che vorticano intorno alla nostra vita e alla nostra coscienza possono
essere ridotte a ciò che Gesù chiede ai discepoli: “Ma voi, chi dite che io
sia?”. Se rispondiamo come Pietro, se siamo convinti che Gesù è “il Cristo, il
Figlio del Dio vivente”, cambia il senso di tutto ciò che pensiamo e di tutto
ciò che facciamo: chi sono io per giudicare te di fronte a Cristo? Se invece alla
domanda di Gesù rispondiamo balbettando o perdendoci in mille distinguo o
lasciandoci travolgere dalla presunzione che il nostro io sia più importante di
Dio, allora il nostro giudizio nei confronti della vita nostra o altrui sarà mutevole
e vacuo, sarà un sacchetto vuoto che il vento porta dove capita.
Francesco è Papa perché alla domanda di Gesù ha risposto
come Pietro. Quando la vocazione lo ha avvolto, da giovane a Buenos Aires, è stato
pronto e fermo nella risposta; in conclave è tornato a rispondere alla domanda
di Gesù e la sua fermezza, la sua convinzione, è diventata la nuova pietra
sulla quale continuare a edificare la Chiesa. Non conta la dimensione della
pietra né la sua forma né la sua consistenza: l’importante è che sia pietra.
Tutte le disquisizioni sulla lana caprina, tutte le comparazioni fra un
pontefice e l’altro, mi sembrano un po’ frivole e a tratti offensive perché
dimenticano che alla radice di tutta la storia della Chiesa c’è questo momento
eterno che si ripete nei millenni: Gesù che chiede chi crediamo che lui sia e
un Pietro che risponde con fermezza e merita le chiavi del regno dei cieli.