Maracanazo
da Pavia, Inghilterra-Uruguay
Italiani che vi umettate l'indice onde contare sulle dita dell'altra mano le possibilità che l'Italia ha di passare il turno - e se convenga vincere o basti pareggiare con la Costa Rica, e se e con quanti goal di scarto si potrebbe addirittura perdere contro l'Uruguay, e se ieri sera non ci sarebbe derivato maggiore agio da un eventuale pareggio dell'Inghilterra - lasciate perdere il riquadro esplicativo della Gazzetta dello Sport e interpretate piuttosto i segni che dal cielo discendono sui campi. Nel pomeriggio, durante Colombia-Costa d'Avorio, il cronista di Sky non ha saputo farlo, limitandosi alla smarrita considerazione che non si capiva cosa stesse accadendo. Glielo spiego io. A un certo punto del primo tempo, mentre colombiani e ivoriani erano lì a giocare coi tocchetti di fino e colpi di tacco superflui, qualcuno aveva lanciato un secondo pallone sul terreno di gioco, con conseguente interruzione seguita pochi minuti dopo da un'ulteriore interruzione per via di un ulteriore secondo pallone lasciato cadere in campo non si sa se dalle stesse mani di ricotta. Fra un secondo pallone e l'altro, entrambi di cuoio, il vento aveva invece gettato lo scompiglio fra i ventidue portando fra loro un pallone da calcio enorme, gonfiabile e volante, come a dire: cosa state lì a giocare di fino, cosa state a fare assist di tacco quando potete tirare in porta, guardate che il calcio è un gioco serio e se fate così vi meritate tutt'al più di intrattenerci con ludi circensi - come effettivamente avviene quando un colombiano a caso stoppa quest'enorme pallone volante rigonfio, cerca di schiattarlo coi tacchetti ma finisce quasi per inciamparci sopra e capitombolare in mondovisione. Considerate invece Inghilterra-Uruguay, tre ore dopo, e ditemi se una mongolfiera a forma di Tango avrebbe mai osato posarsi sul campo: sarebbe esplosa a mezz'aria per la sola tensione che si respirava su San Paolo, città che non a caso si chiama come il quartiere più emozionante di Bari. Partita per sistemi nervosi, partita da bari che giocano a carte con le punte dei coltelli conficcate sotto il tavolo alla bisogna; in cui la ginocchiata sulla nuca è endemica e non c'è fallo in cui chi scivola non cerchi di colpire entrambe le gambe dell'avversario con entrambe le proprie. La salvaguardia delle caviglie è decorativa. Alvaro Pereira, dicasi con Alvaro Pereira un signore somigliante più a un pesce gatto che a un calciatore ai tempi in cui traccheggiava sulla fascia dell'Inter di Stramaccioni, viene tramortito da una pedata in faccia di Raheem Sterling, reagisce rimanendo sdraiato come il Cristo morto del Mantegna ma poi si rialza, sbraita, s'incazza con il medico che vuole preservarne il comprendonio facendolo sostituire, fa ampi gesti di diniego verso la panchina per assicurare che non ha la minima intenzione di abbandonare la battaglia, torna in campo presumibilmente ancora stordito e tempo un minuto uccide il primo avversario che trova. Finisce che l'Inghilterra sostituisce Sterling. L'Uruguay, poesia non pittoresca dell'America Latina, luogo dove Peter Cameron ha voluto ambientare Quella sera dorata, è la patria del rovesciamento delle sorti, come dimostrato in gran sovrabbondanza quattro anni fa dalla partita contro il Ghana. Stavolta Luisito Suarez, pallone d'oro di noi intenditori, non para indebitamente i tiri avversari bensì segna come Hemingway scrive: pulito, semplice, scabro, dritto per dritto, bello e purtuttavia irriproducibile. Quando gli arriva la seconda palla utilizzabile, dopo il goal del primo tempo, di fronte alle pertiche di Joe Hart non si perde in gargarismi circensi, non aspetta di sormontare un palloncino; non si perde in disquisizioni sul fair play e su quanto in Inghilterra abbiano menato il torrone etico con questa balzana idea che uno non possa essere un campione solo perché nella concitazione ha morso il braccio di un avversario. Tira, segna e vince in un colpo solo mentre io balzo su dalla poltrona e urlo un vaffanculo a due anni e rotti del mio passato infilzato all'arma bianca.