Ultima giornata, 19 maggio 2013
Alla fine l’ultima giornata di campionato era importante
quando facevo le elementari, le medie o il liceo, ossia quando era un
trampolino verso un’estate pressoché immediata e segnava non tanto il momento
dello stacco (seguivano, all’epoca, le ultime interrogazioni o gli esami) quanto
la dimostrazione pratica delle promesse del futuro: le ultime partite venivano giocate
con un’aura da ultimo giorno di scuola, talune con disimpegno talaltre con il la
disperazione di chi non s’è impegnato prima, sotto il sole rilassato delle
sedici e trenta; fra sussulti e sbadigli si iniziava a progettare la stagione
che veniva, coi primi nuovi acquisti, le qualificazioni alle coppe europee, le
promozioni, le retrocessioni, di modo tale che al futuro incasellamento delle
squadre corrispondesse un rinnovato incasellamento della vita propria, un altro
morso alla febbre di crescita che io e i miei coetanei pensavamo ci avrebbe
portati chissà dove.
Ci ha portati qui, eccoci. Ora il campionato finisce ma noi
no, la vita e i pensieri continuano uniformi fino ad agosto e anche quando
siamo in vacanza non smettiamo di pensarci se non per finta, di tanto in tanto,
sapendo che settembre è sempre dietro l’angolo e che fra un bel po’, ma non si
sa quanto esattamente, ogni settembre potrebbe rivelarsi l’ultimo. Per questo
inizio a confondere le stagioni una con l’altra, non ricordo quanti scudetti di
fila abbia vinto la Juventus o chi si fosse qualificato per l’Europa League due
anni fa (a bruciapelo non se lo ricorda nessuno, temo, nemmeno l’estensore
dell’Almanacco Panini) e questo vale anche per i Giri d’Italia, i playoff di
basket, gli Internazionali di racchettoni a Roma: un tempo ogni maggio segnava
un salto mentre adesso qualsiasi maggio niente segna se non la prosecuzione
della ruota. Per me da qualche anno segna tutt’al più l’inizio della stagione
delle migrazioni, visto che inizia la tournée per conferenze e sfogliando
l’agendina scopro con orrore che nel giro di in fin dei conti pochi giorni oltre
che in Lombardia devo essere in Toscana, in Inghilterra e in Francia senza per
questo essere dotato del dono dell’ubiquità come San Francesco.
O era Sant’Antonio? Mi è venuto il dubbio ieri sera,
guardando La lingua del Santo di
Carlo Mazzacurati, sin dai titoli di testa in cui i nomi degli attori
scorrevano su “Guantanamera” in sottofondo. Ecco, ora la distinzione del maggio
è che di qui in poi la sera, quando non ho niente da fare, dopo cena faccio due
passi per il centro di Pavia con la scusa che devo tenere d’occhio la pressione
(con la minima che avevo a Oxford potevano usarmi per gonfiare le ruote delle
biciclette) e poi torno a casa e mi stravacco sul divano a vedere un film
perché di primavera ho bisogno di dormire meno ore che d’inverno; ma questa è
una distinzione di massima visto che, facendo una cura per potenziare le difese
immunitarie da ottobre ad aprile, da un paio d’anni inevitabilmente mi raffreddo
con ammirevole regolarità a settembre e a maggio così che riuscire a compiere
la passeggiata serotina durante la mezza stagione diventa già grasso che cola.
“Guantanamera” ritorna anche alla fine del film, montata
stavolta su immagini di repertorio che mostrano la traslazione anzi la
restituzione della reliquia del Santo alla Basilica dopo il furto anzi il
rapimento operato nel 1991, che riguardò in realtà il mento e non la lingua, e
su questa musica essendosi fatta mezzanotte mi sono svestito preparandomi ad
andare a letto. Ho dato un’occhiata alla fascetta riassuntiva del romanzo che
avrei letto l’indomani, ho sfogliato le pagine inutili del Guerin Sportivo
(quelle cioè che parlano del calcio italiano odierno, in particolare le
interviste ai calciatori, che sono simili ai tornei di calcio fra
intellettuali) poi, mentre recitavo compieta, da un’altra camera del collegio
ho sentito distintamente arrivare le sillabe scandite di un’altra versione di “Guantanamera”
che rispondeva alla mia e allora, clic, ho spento la luce.