Finalmente domenica!
Trentasettesima giornata, 12 maggio 2013
Stamattina, trovandomi ospite in casa di amici, in bagno ho
visto una bilancia e non ho resistito: trattandosi di una di quelle bilance
moderne, accattivanti, digitali, che con la loro stessa sottigliezza sembrano
promettere il dimagrimento dell’utente, appena uscito dalla doccia mi sono
avvicinato e saltatoci sopra ho atteso che le cifre sul display si
stabilizzassero. Dopo di che mi sono stupito, mi sono rivestito condecentemente
e ho pensato quanto segue.
Il peso del corpo è un guaio che ci portiamo addosso dalla
nascita – non per niente di un neonato la prima cosa che si chiede è quanto
pesi, la seconda è se respiri ancora – perché in maniera più o meno newtoniana
dà la misura del nostro inevitabile ancoramento al terreno. Anche quando ci
sentiamo presuntuosi e riteniamo che sopra di noi non ci sia nessuno (perché
abbiamo avuto la promozione, l’aumento, la macchina nuova o l’amante di zecca)
il solo fatto di avere un corpo ci limita entro confini angusti che possiamo
voler violare quanto ci pare ma sempre lì sono, insormontabili. Anche se
fossimo dittatori del mondo, basterebbe un’unghia incarnita a precipitarci
nell’abisso. Il corpo è un ammasso di peccati e malattie, di peli, nei,
verruche, ferite, muscoli indolenziti, sporcizia dentro e fuori che solo il
Cattolicesimo può benedire. Da piccoli siamo prigionieri del corpo in cui
vogliamo crescere e cerchiamo di superarne i confini; da adolescenti siamo
prigionieri del corpo che crescendo si deturpa e non ci piace perché non piace agli
altri; da giovinotti siamo prigionieri del corpo che ci impedisce di mangiare,
bere, ballare e scopare a oltranza, perché a un certo punto non ce la fa più e
dice basta; da adulti siamo prigionieri del terrore che i capelli inizino a
cadere, che la pancia si dilati, che i fianchi si allarghino, che le rughe
spuntino, e di non essere più in grado di compiere con estremo sforzo ciò che a
diciassette anni facevamo senza accorgercene; da vecchi, nel migliore dei casi,
siamo il sostegno delle nostre vene varicose; da malati non ne parliamo;
perfino da morti ci sarà la risurrezione della carne, anche se per fortuna il
Vangelo ci assicura che non si prenderà né moglie né marito ma saremo come
angeli nel cielo.
Diceva Proust che siamo condannati a trascorrere tutta la
vita incatenati a un estraneo, che è appunto il corpo; o forse lo diceva
Pascal; o forse non lo diceva nessuno dei due ma è come se l’avessero detto,
perché basta citarli per ottenere assensi da tutti quelli che non li hanno
letti ma sono convinti che avrebbero dovuto farlo. Di sicuro (non lo dice
Proust né Pascal ma lo dico io) siamo tutti condannati a fare la cacca, e di
conseguenza siamo condannati a nutrirci, e di conseguenza a lavorare, e di
conseguenza a ricoprire un ruolo sociale con tutte le conseguenti implicazioni,
forzature e delusioni. Quando guardiamo il Giro d’Italia ci entusiasmiamo per i
grandi scalatori perché sfidano la forza di gravità salendo repentini verso
l’alto lì dove tutti gli altri rotolerebbero verso il basso; e ci entusiasmiamo
per i cronometristi perché filano veloci fendendo l’aria che respingerebbe
chiunque avesse un filo di grasso e non indossasse il casco aerodinamico.
Io non so andare in bicicletta quindi non oso né fendere
l’aria né scalare montagne. L’anno scorso di questi tempi tuttavia mi ero
trovato pesante oltre il limite della decenza, 84 chili di pane perduto, e
avevo deciso di abbatterne qualcuno eliminando le porzioni più assassine dalla
dieta e soprattutto montando a giorni alterni su uno strumento che chiamerei
cyclette per ignoranza di termini ulteriori ma che era uno strumento a pedali
senza ruote moderno, accattivante e digitale che con la sua stessa snellezza
sembrava promettere il dimagrimento della vittima. Regolavo percorsi che
simulavano salite, discese e mezza costa e intanto che pedalavo, quando i
quadricipiti dolevano e il cuore m’implorava, pensavo: questa pedalata è perché
salendo due piani di scale mi viene l’affanno; questa perché a letto sono
costretto a inventarmi sorprendenti diversivi per dissimulare il fiatone;
questa perché il completo elegante non mi contiene più l’ombelico; questa
perché dieci anni fa pesavo 62 chili; questa perché dopo morti non ci metteremo
più a dieta ma saremo come angeli nel cielo. Quelli scalavano il Mortirolo e io
pedalavo nella palestra immobile, sentendomi ridicolo perché in cravatta faccio
miglior figura che in pantaloncini; sudando e bestemmiando perché perdevo tempo
avevo tirato avanti per un paio di mesi e a luglio, pesatomi, ecco che constavo
di 77 chili.
Io ambisco a essere un paio di occhi alati ma, calcolato il
rapporto fra il sudore che avevo emesso e i grammi di cui mi ero disfatto,
avevo deciso che sette chili in due mesi bastassero ed ero andato al mare a
stare sdraiato per tre settimane. Poi sono stato seduto a scrivere e a leggere
per nove mesi. Poi ho mangiato come un porco. Poi non ho avuto tempo per
tornare in palestra. Poi hanno aperto nuovi ristoranti, nuove enoteche, nuove
gelaterie. Poi, incomprensibilmente, sono tornato ad avere l’affanno quando
salivo due piani di scale. Eppure, mi sono detto nel bagno dei miei amici,
questa bilancia che è sotto di me mi assicura con asettica oggettività che,
nonostante la mia impressione di essere enorme e inchiavardato al suolo e
condannato a portare a spasso me stesso quando mi lascerei volentieri a casa,
nonostante tutto questo peso esattamente quanto pesavo a luglio dello scorso
anno dopo tanta fatica e tanto sudore, dopo l’impegno ossessionante di
accanirmi su quelle parti del mio corpo che potevano essere disciolte. Anzi,
meno: 76 chili e 600 grammi, nudo come un verme dopo la doccia; lo dice la
bilancia digitale, sottile e accattivante.
Allora l’esercizio fisico è una mitologia illusoria, il peso
del corpo è una variabile indipendente dalla nostra volontà esattamente come la
morte o il funzionamento dello smartphone. Tutto contento della mia scoperta ne
ragguaglio i miei ospiti raggiungendoli dabbasso. “Ah, la bilancia?”,
reagiscono: “Guarda che è starata, bisogna aggiungere una decina di chili”.
Oggi i ciclisti attraversano l’Italia mentre io guardo la cyclette e non ho il
coraggio, non ho la forza.
[L'altra metà della rubrica, in cui Francesco Savio tratta l'acquisto di una barca con una bambina di nove anni, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]