Finalmente domenica!
Trentacinquesima giornata, 5 maggio 2013
Sarà che sto invecchiando ma non riesco più a fingere: quando mi invitano a presentazioni letterarie con formula tradizionale o innovativa, e soprattutto quando nessuno mi invita esplicitamente ma è mio implicito dovere presenziare per documentarmi o per salutare autori che un po’ conosco un po’ no, inizio a dare chiari segni di impazienza prima ancora dei saluti del presentatore del presentatore e sovente me ne vado prima che sia stata detta la prima cosa intelligente della serata, o della giornata intera. Molte volte me ne vado consapevole che se anche avessi aspettato per ore e ore, restando inchiavardato sulla mia sedia dopo che tutti hanno abbandonato il campo, comunque al momento di alzarmi e andarmene sarei ancora stato in vana attesa di sentir dire la prima cosa intelligente.
Io non so perché a Pavia i presentatori, che pure fuori da tale temporanea incombenza sono persone normali (magari con un lavoro vero e una famiglia e una capacità di interagire sanamente con chi li circonda stabilmente od occasionalmente), quando devono presentare un autore iniziano a cantilenare. Più ritengono importante dare importanza all’autore che presentano, più la cantilena si fa marcata. Meno importante è l’autore che presentano, più ritengono importante dargli importanza e in caso di autore letterariamente insostenibile il cui incensamento è però necessario a fare bella figura – per una causa nobile che ha abbracciato, per una moda, perché è la moglie del cugino dell’azionista di maggioranza della libreria ospite – la cantilena diventa insopportabile, oltre i confini della salmodia.
Ieri mattina a mezza strada fra l’edicola e camera mia mi sono ricordato dell’appostamento di una due giorni di presentazioni letterarie, o meglio di un ciclo compresso in cui giovani lettrici presentavano giovani autori dal mattino alla sera. Mi sono ricordato che dovevo andarci per forza perché conoscevo alcune delle lettrici ed ero stato in contatto con alcuni degli autori ma niente: sono arrivato verso la fine del primo evento in calendario, mi sono seduto (era un bar) a un tavolino seminascosto da un arbusto artificiale, ho sfogliato la Gazzetta dello Sport perché va bene la letteratura ma il Giro d’Italia è più importante, sono stato fotografato in posa indolente da un tizio che trovava curioso il contrasto fra il quotidiano rosa e i libri (D.H. Lawrence, Joseph Roth e George Mikes) che avevo posato sul tavolino, poi me ne sono andato prima che iniziasse l’evento secondo ripromettendomi di rifarmi vivo per quello pomeridiano che iniziava alle tre. Dopo pranzo sono arrivato con un paio di amici, abbiamo preso il caffè, abbiamo chiacchierato con un paio di presentatrici e alle tre meno dieci, quando un organizzatore ha annunciato l’imminente arrivo del terzo scrittore della giornata, me ne sono andato ritenendo di avere visto più che abbastanza.
Nello specifico mi stuzzicava la formula con giovani lettrici (per giovani si intende anche della mia età, quindi donne compiute) che presentavano giovani lettori (per giovani si intende della mia età e più, ma che forse vivono ancora coi genitori): mi sembrava un’improvvida ammissione, forse involontaria, del ruolo ancillare della donna nella letteratura. Niente di tutto ciò: era una rivendicazione del ruolo dominante della donna nell’editoria, a furia di gonnelline svolazzanti e ciglia sbattute. Scusate, ho interrotto la stesura per schiacciare una coccinella sotto la suola destra. Cosa stavo dicendo? Ah, che io posso sbattere le ciglia quanto voglio ma fatalmente non sortirò lo stesso effetto. Ergo, la mia avversione deriva altresì da roboante invidia dovuta all’inghippo che alla mia età ci sia gente più famosa di me, che viene invitata a dire chiacchiere sull’importanza della propria mamma mentre io sono seduto ai tavolini a sfogliare la Gazzetta, che viene pubblicata da Feltrinelli mentre io metto in subbuglio gli scaffali delle librerie dell’usato per scovare George Mikes. Il quale, lo dico a beneficio delle giovani lettrici esperte di editoria italo-milanese, essendo ungherese non si legge Màics ma Michèsc; me l’ha insegnato un vecchio lettore anglofilo e bassaiolo, lo zio Athos Andrea Maietti.
Se non che mentre la cantilena della presentazione andava avanti e s’insinuava nella mia testa così che nemmeno la visione integrale della cronaca della prima tappa del giro a opera di Pancani & Cassani fosse sufficiente a scacciarla, è arrivata l’immancabile scolaresca e il giovane scrittore, come l’antropologo fra i cannibali, ha cercato di instaurare una comunicazione con questi giovani più giovani di lui chiedendo loro quali videogiochi prediligessero. Al che ci sono stati l’immancabile elogio ai videogiochi che hanno una struttura davvero romanzesca e l’immancabile intervento ecumenico sull’utilità e il beneficio della lettura.
Ho quindi capito che la mia insofferenza di fronte alle presentazioni non si origina dai complimenti reciproci, né dalla cantilena, né dall’invidia, tutte cause di per sé ragionevolissime; bensì da una causa prima che consiste nel paralogismo secondo il quale la lettura sia di per sé nobilitante. Non è vero. Alcune letture fanno bene e altre sono dannose, mentre la gran parte è indifferente. Gli alti lai sul femminicidio o sulle pari opportunità, per dirla con Jerome K. Jerome, non eleverebbero una vacca. Idee che dette ad alta voce suonano stupide non diventano meno stupide messe per iscritto, e vale ancor di più per i ragionamenti fallaci, i sillogismi zoppi e le conclusioni tratte erroneamente da pregiudizi: stamattina per trovarne conferma ho letto accuratamente la pagina dei commenti dei principali quotidiani e con grande generosità Vito Mancuso e Michela Marzano, tanto per dirne un paio, sono prontamente intervenuti in mio soccorso temendo che Concita De Gregorio da sola non ce la facesse. La cultura consiste soprattutto nel capire al volo cosa non leggere e, se inavvertitamente lo si legge, a cosa non credere. Il paralogismo invece è il fondamento di una delle rovine della società, dovuta all’evenienza che le donne siano molto più determinate degli uomini nel voler fare carriera e abbiano una soglia del dolore molto più elevata quando si tratta di star seduti a leggere senza accettare distrazioni: la convinzione che basti studiare tanto per essere intelligenti.
[Come sempre l'altra metà della rubrica l'ha scritta Francesco Savio e si trova su Quasi Rete.]