Come Lance Armstrong volle che i propri compagni di squadra indossassero una manica gialla per essere partecipi della maglia che gli spettava in quanto vincitore del Tour de France, così Roberto Saviano s’è arrogato un pezzettino della medaglia di Svetlana Aleksievic: nella lenzuolata di oggi su Repubblica definisce “rivoluzione culturale” e “terremoto” il Nobel conferito all’autrice bielorussa e per estensione anche a se stesso, ossia “a un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia ma ha come fine il racconto della verità”. Ora che Saviano è passato di moda si farà dell’umorismo sull’appropriarsi dei Nobel altrui e sul fatto che il suo articolo possa essere un ulteriore tentativo di difendersi chiamando in causa mansueti accademici svedesi un po’ svampiti che non avranno come interesse primario le polemiche sul plagio intentate dal Daily Beast. Così ci si perde però la parte interessante e rivelatrice del pezzo di Saviano, quella in cui spiega che “relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo”.
È vero più di quanto creda. Chiunque sia pratico di filologia sulla letteratura moderna sa che la grandezza di certi autori risiede anche nell’aver fatto proprio materiale altrui, nell’averlo scovato e rimaneggiato in modo tale da renderlo letterario e sottrarlo all’oblio. Pochi ricorderebbero Terenzio Mamiani se Leopardi non avesse schiaffato le magnifiche sorti e progressive nella “Ginestra”, tanto per dirne una, e se conduceste l’edizione critica di un classico vi accorgereste che pullula di riferimenti inconfessati a cianfrusaglie editoriali, detriti di varia provenienza che ne aumentano la portata. Se uno ambisce a scrivere classici, deve avere il coraggio di divorare i minori.
In ciò Saviano paga la differente idea di citazione che vige nel mondo anglosassone, in cui anche la parola più banale va pedissequamente appoggiata su un riferimento esterno; deve averlo capito poiché lungo tutto l’articolo si scaglia contro “quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante”. Senza scomodare Comte e Lutero, o John Stuart Mill e Melantone, bastava ricordare che fra i precedenti del grande inquisitore Michael Moynihan risalta l’accusa a John Lehrer di avere modificato dei virgolettati di Bob Dylan, peccato veniale per un divulgatore delle neuroscienze ma sufficiente a rovinargli la carriera. Come ha scritto Daniel Engber su Slate (specifico, non si sa mai) si tratta di un esempio della “esazione di tremenda giustizia per trasgressioni secondarie”; per questo Moynihan viene lungamente criticato da Jon Ronson ne I giustizieri della rete, che in Italia esce a fine ottobre (Codice edizioni).
Dunque Saviano può plagiare impunemente in nome della letteratura? No, perché a non renderlo un grande scrittore basta l’incapacità di fare ciò che ascrive al genere letterario che elogia e di cui si ritiene un’ipostasi pari alla Aleksievic: “raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole”. Non dico io che non sappia farlo, lo dice lui stesso; il pezzo di oggi può essere letto come ammissione di colpa se lo si compara all’autodifesa uscita su Repubblica il 25 settembre, in cui – lungi dalla “cura delle parole” – Saviano diceva che non ci sono molti modi di raccontare una notizia, anzi ce n’è uno solo che corrisponde alla verità poiché implica il riferirla “così com’era”. Cercasi a questo punto editore abbastanza temerario da pubblicare degli esercizi di stile savianeschi, novantanove modi diversi di raccontare l’accusa di plagio e la susseguente difesa così come avrebbe fatto Queneau: per litoti, omoteleuti, onomatopee o anagrammi, in modo ampolloso, disinvolto, volgare o reazionario, come ode, comunicato stampa, versi sciolti o commedia in tre atti. Dirime il come, non il cosa. Se un autore ha qualcosa da dire, anzitutto deve trovare una maniera che giustifichi la necessità di farlo; se invece vuole solo lasciare un messaggio non vale la pena che scriva un libro, può limitarsi a farmi una telefonata.