Grande attenzione oggi sui giornaloni – Corriere e Stampa in
primis – a Gianni Rivera che esce dalla propria consueta riservatezza lanciando
sul mercato un’autobiografia monumentale che non solo costa 50 euri ma che è
anche stata pubblicata da un editore che non esiterei a definire oscuro, che
richiede l’acquisto online (dal sito giannirivera.it) e definisce il
cinquantone prezzo promozionale. Mah. Mi
sorprende perché soli due anni fa Rivera aveva dato forse inavvertitamente il
più perspicace giudizio sul calcio – ma che dico sul calcio, sull’Italia dei nostri
giorni – quando era stato intervistato da Nicola Calzaretta sul Guerin Sportivo
in occasione del suo settantesimo compleanno. Calzaretta gli aveva chiesto
ragione di come mai si fosse sempre dimostrato “refrattario alle emozioni” e
Rivera aveva risposto – ve lo dico dopo cos’ha risposto. Prima verifichiamo il
senso della domanda e la sua corrispondenza ai dati di fatto.
Rivera esordì nella prima squadra dell’Alessandria a
quattordici anni in un’amichevole contro il non temibile Aik Solna. Dai vaghi
ricordi che serbo dell’adolescenza mi pare di sapere che a quattordici anni tutti
sono emozionati per definizione; Rivera però non lo fu e oltre a giocare benone
segnò anche una rete. Il due giugno del 1959, con l’Alessandria che si era
appena assicurata la salvezza ai danni del Torino, esordì sul serio in serie A
contro un’avversaria più temibile degli svedesi: l’Inter. Non si emozionò
nemmeno allora e finì 1-1. Non aveva all’epoca ancora sedici anni, età minima
per poter essere schierato in campo; l’Alessandria poté farlo solo grazie a un
permesso speciale della Federazione, per fortuna poco emotiva anch’essa e
quindi poco propensa a lanciarsi in alti lai sullo sfruttamento minorile.
Rivera passò al Milan e il 18 settembre 1960, una settimana prima dell’inizio
del campionato, esordì in rossonero in una gara di Coppa Italia: avversario
proprio l’Alessandria dov’era cresciuto. Niente emozioni, niente sceneggiate,
niente piagnistei. Rivera giocò e il Milan vinse. Non segnò ma c’è ragione di
presumere che, l’avesse fatto, non si sarebbe trattenuto dall’esultare cedendo
all’ipocrisia dell’ex. Aveva diciassette anni. Per rendere l’idea, quell’estate
Trapattoni ne aveva venti e giocava nella nazionale impegnata alle Olimpiadi di
Roma; in trattoria aveva notato una cameriera che gli piaceva ma si era
emozionato e, se non si fossero prodigati da pronubi due suoi compagni e
commensali, non avrebbe trovato il coraggio di conoscere la propria futura
moglie.
Avanti veloce col nastro. Rivera vinse lo scudetto del 1962,
esordì in nazionale, vinse la Coppa dei Campioni del ’63, arrivò secondo nella classifica
dell’unico Pallone d’Oro vinto da un portiere ma non si scompose, stante anche
il leggendario merito di Lev Jascin; nel ’66 divenne capitano, rivinse lo
scudetto nel ’68, rivinse la Coppa dei Campioni l’anno seguente e per
soprammercato l’Intercontinentale sopravvivendo alla caccia all’uomo
organizzata a Buenos Aires dall’Estudiantes; a dicembre del 1969 vinse il
Pallone d’Oro, un trofeo molto più contenuto del barocco macigno di oggidì, e
lo ricevé con guardinga indifferenza sul prato di San Siro prima di una partita
contro il Cagliari dalle mani di un uomo in impermeabile. Dopo di che lo
sollevò svogliatamente col braccio destro, quello senza la fascia bianca da
capitano, e ci volle qualche insistenza per farglielo portare in trionfo con
entrambe le mani. In una delle foto che documentano l’evento, sorride quasi.
Il 17 giugno 1970 si trovò sulla linea di porta dello stadio
Azteca di Città del Messico per difendere il palo alla sinistra di Ricky Albertosi
durante la semifinale dei Mondiali. Era il quinto minuto del secondo tempo
supplementare, l’Italia stava vincendo 3-2 e la Germania batté un calcio
d’angolo sul quale Uwe Seeler colpì di testa dando al pallone una traiettoria
arcuata sulla quale si avventò Gerd Müller. Il ralenti da dietro la porta dimostra
che, come commentò amaro Martellini, “potrebbe intervenire Albertosi o Rivera”;
invece la palla lambì il quadricipite di quest’ultimo e la Germania pareggiò.
Rivera si abbarbicò al palo: mentre i tedeschi si abbracciavano quasi venne
colto da uno spasmo ma subito si contenne, cinse il legno e lo avvolse con la
gamba destra dalla quale stava per partire uno scatto di rabbia, un calcio al
nulla. A cosa sarebbe servito? Rivera preferì non emozionarsi. Tornò a
centrocampo inseguito dagli improperi di Albertosi per prendere palla immediatamente
dopo il calcio d’inizio. La conservò sovrappensiero per qualche secondo mentre
i tedeschi si disponevano nuovamente in difesa, stremati però, dando via libera
all’azione che trovò Boninsegna furibondo sull’ala sinistra. Questi saltò
Schulz miserello e forse senza nemmeno guardare propose un rasoterra disperato
verso il centro dell’area, dove supponeva potesse, quanto meno dovesse esserci
qualcuno; c’era Rivera il quale, ancora inseguito dalle bestemmie che Albertosi
sarà stato intento a masticare sotto i baffi tagliati, segna nel momento più
difficile il goal più facile che si possa immaginare, un piatto destro dritto
nel punto in cui Meier non sarebbe arrivato, essendo il portiere tedesco stato spiazzato
dall’evenienza che chiunque a quel punto dello psicodramma avrebbe sentito i
polsi tremare e si sarebbe avventato sul pallone con la prima gamba
disponibile, la sinistra appunto e magari di collo pieno, e non avrebbe certo usato
la gamba della ragione, il piatto illuminista. Rivera alzò i pugni al cielo
arcuando le braccia verso di sé, mentre i compagni lo cingevano dal ventre
facendolo roteare, mentre Meier ancora carponava e Schulz giaceva faccia a
terra, mentre Martellini si concedeva addirittura un “Che meravigliosa partita,
ascoltatori italiani” e mentre una voce anonima dalla tribuna stampa urlava con
gutturalità gorillesca “Vingiamo! Vingiamo! Vingiamo! Vingiamo!”, mentre
l’arbitro che era messicano ma si chiamava Yamasaki favoriva il deflusso dei
calciatori azzurri verso la metà campo con consumate movenze da vigile urbano.
Poi Rivera tornò a centrocampo al piccolo trotto, quasi passeggiando, nemmeno
spettinato.
Conservò la stessa postura fieramente eretta il 6 maggio
1979, quando al Milan ormai completamente suo era più che sufficiente un
pareggio per tornare a vincere uno scudetto dopo undici anni. L’eccezionalità
dell’evento, poiché vincendolo sarebbe stato il decimo che avrebbe consentito
di decorare la maglia rossonera con la stella dorata, aveva richiamato sugli
spalti una quantità di persone tale e talmente incontenibile che non c’erano le
condizioni per far cominciare la partita in buon ordine. La stella del Milan
era in mano alle mattane di qualche migliaio di sconosciuti, più indomabili di
undici tedeschi. Rivera non perse la testa. Continuando col passo che aveva
tenuto nello stadio Azteca, avanzò sul prato di San Siro fino al punto in cui
gli venne porto un microfono a gelato e pronunciò l’epigrafe resa appena umana
dalla erre moscia: “Se non vi togliete dall’anello inferiore, il questore non
potrà dare il permesso di iniziare la partita”. Il pubblico era riottoso,
vociava e ruggiva. Un gentiluomo col cappello bianco a fungo gli si parò
dinanzi e protestò dimenandosi esagitato: “Signor Rivera, io non voglio che il
Milan perda lo scudetto perché vengo da Reggio Calabria, da Reggio Calabria
vengo. E io voglio che se ne vanno, perché ho fatto millecinquecento
chilometri”. Per Rivera l’esagitato era trasparente, invisibile, più piccolo
del Pallone d’Oro. A stento levò un braccio per impartirgli la benedizione. Poi
il popolo seguì la sua ammirevole calma, si ricompose, la partita poté iniziare
e il Milan ebbe la stella.
Dunque Calzaretta aveva chiesto ragione a Rivera di come mai
si fosse sempre dimostrato refrattario alle emozioni e Rivera gli aveva risposto
che veniva da una famiglia di contadini, in cui non c’era tempo per
emozionarsi. Italiani abituati a urla e strepiti, adusi all’aggettivo
“incredibile” in ogni salsa, avvezzi allo strillo per azioni appena passabili, assuefatti
al nome di campionissimo gettato a casaccio su fugaci fenomeni da baraccone, anestetizzati
dalle lacrime in tv, propensi a disciogliersi per un bambino ciccione che
canta, famelici di eventi, convinti ciascuno della propria eccezionale
irripetibilità, confinati in un carnevale di eccessi perpetui, o noi che nel
nostro piccolo siamo sentimentali, drammatici, esagitati, facinorosi,
epilettici: se vogliamo combinare qualcosa prendiamo esempio e non
emozioniamoci mai.