Ma le avete viste le facce dei quattro candidati alla leadership laburista? Siccome so che non sapete nemmeno chi siano, vi suggerisco di cercare su google gli identikit di Andy Burnham, Yvette Cooper, Jeremy Corbin e Liz Kendall. Non sorprende che buona parte del dibattito interno al partito verta sulla prospettiva di restare all'opposizione per altri dieci anni o forse venti, nonostante quanto avevo scritto sul Foglio nel giorno in cui Gordon Brown cedeva a tempo potenzialmente indeterminato la casa di Downing Street al dinamico ciuffo conservatore di David Cameron:
Gli inglesi hanno da sempre un rapporto controverso col corpo dei loro leader. La Regina, per esempio, ogni estate va in vacanza nello stesso paesino e la prassi è che tutti gli abitanti del luogo fingano di non vederla: è la loro maniera di tributarle onore. Ma un giorno un turista non molto pratico del tacito accordo, avendo scorto in una sala da tè questa signora dall’aria familiare, le si avvicinò sussurrandole discretamente: “Sa che somiglia moltissimo alla regina?”. E lei: “Grazie, è davvero rassicurante”.
Il desiderio di ignorare a ogni costo il sembiante di chi rappresenta la nazione è stato rimosso senza ritegno di fronte a Gordon Brown. Nel giorno che avrebbe portato alle sue dimissioni, quasi tutti i quotidiani – senza distinzioni fra raffinati broadsheet e tabloid popolari – hanno incentrato la prima pagina su un primissimo piano del suo volto accigliato, quasi grottesco per quanto infantile appariva la sua espressione. Sembrava volessero certificare all’unisono che Brown era da tempo la caricatura di se stesso, schiacciato sotto il peso di una fisicità che non riusciva più a governare e che lo rendeva un po’ ridicolo e un po’ implausibile.
Per quanto i media inglesi abbiano iniziato a danzare intorno al cadavere di Brown già nel giugno 2009, quando le dimissioni in serie di ministri chiave lo costrinsero a un rimpasto estremo e quasi eroico per il suo equilibrismo, il momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è stata fatta convergere sul corpo del primo ministro è arrivato a settembre. A Brighton, nel corso del congresso laburista, Andrew Marr della Bbc gli rivolse una raffica di domande improvvide sul suo effettivo stato di salute e Brown fu costretto a entrare nei dettagli su come avesse perso la vista dall’occhio sinistro durante una partita di rugby al college. Mai un premier era apparso tanto isolato e sperduto come Brown sul palco di Brighton mentre cercava affannosamente di non rispondere all’inquisitorio Marr, che gli chiedeva se davvero assumesse psicofarmaci.
Da allora le immagini imbarazzanti si sono susseguite incalzandolo. In un corteo solenne a Buckingham Palace si lascia sfuggire un incongruo sorriso che sembra piuttosto un rictus; visita le truppe in Afghanistan indossando (Dio solo sa perché) due elmetti uno sull’altro; sprofonda il volto fra le mani scoprendo di aver lasciato il microfono acceso mentre offendeva un’elettrice. Oppure, stando alle rivelazioni di Andrew Rawnsley in “The end of the party”, in auto conficca una penna nel sedile di un sottoposto che gli aveva fatto perdere la pazienza. I dibattiti televisivi hanno fatto il resto: mettendo Brown a confronto con due consapevoli posatori quali David Cameron e Nick Clegg, hanno contribuito a diffondere l’idea che non fosse adatto a governare perché muoveva la mascella in modo buffo e non sapeva mai come sistemare le mani sul leggio.
Il triste paradosso di Gordon Brown è che nessun primo ministro sembra aver dato meno di lui peso alla propria immagine e ciò nonostante verrà ricordato soprattutto per il suo corpo brutto, goffo e malandato. Non gli si può negare una grandezza tragica. Lui forse aspirava a essere un Macbeth destinato al dolce tormento di vedersi le mani sempre macchiate del sangue dei suoi alleati, divenuti avversari e via via sconfitti; invece i media hanno trasformato la sua inesausta furia politica nella rabbia di Calibano che scorge la propria immagine riflessa in uno specchio.