mercoledì 22 giugno 2011

Io coi calvinisti (tranne una) già ce l’ho su per motivi miei, figuriamoci dopo avere trascorso l’intera giornata di ieri a leggere i loro saggi apologetici del XVII e XVIII secolo – nelle edizioni originali, poi non stupiamoci se divento cieco – senza trovare in migliaia di pagine alcuna delle tre o quattro citazioni che mi sarebbero state utili. Dopo una giornata del genere, non avevo altra scelta che concedermi un cheeseburger (tentando di fatto il suicidio, visto quello che accade di recente con la carne tritata, ma non tentandolo abbastanza visto che ho chiesto espressamente di evitare pomodori spagnoli, cetrioli internazionali e possibilmente anche i germogli di soia) e guardarmi la registrazione della migliore trasmissione sportiva della Rai, Sfide. La puntata in questione era dedicata a Vialli e Mancini, i gemelli del goal – un po’ come me e Francesco Savio – che col talento comune hanno trasformato la Sampdoria di vent’anni fa in una cosa di bellezza armonizzando provenienze opposte: Vialli, da famiglia ricca, giocava a calcio solo per divertimento; Mancini, da un convitto per adolescenti, giocava a calcio soprattutto per rivalsa. Rivederli intervistati oggi e così diversi – Vialli felicemente intrallazzato nell’ambiente ma senza incarichi specifici nonostante una carriera da allenatore niente male già lasciata alle spalle, Mancini ingrassato e installato sulla panca di una squadra onusta di petroldollari, Vialli che racconta di quando ritardò i tempi supplementari di una finale di Coppa Italia perché doveva fare la cacca, Mancini che tenta di giustificare i reiterati scatti d’ira che lo portarono a essere squalificato proprio nel memorabile giorno dell’unico scudetto, Vialli con gli occhi che ancora gli ridono, Mancini no – mi ha fatto pensare quanto il tempismo sia davvero tutto: se si fossero incontrati oggi non si sarebbero riconosciuti, le loro metà combacianti non si sarebbero specchiate l’una nell’altra e loro non avrebbero più potuto diventare fratelli in blucerchiato. Ma ho pensato anche a quanto contino le circostanze: il breve brillare della loro amicizia non sarebbe potuto accadere senza un presidente come Paolo Mantovani, paterno ma non scemo, né senza un allenatore come Vujadin Boskov, prima di Mourinho il migliore utilizzatore nel circo calcistico della lingua italiana. Un giorno un giornalista Rai lo insegue chiedendogli: “Ma insomma, mister, oggi in panchina chi va?”; e Boskov, prima di scappare negli spogliatoi: “Tutti che non giocano”.

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