(Gurrado per Books Brothers)
Come i più arguti di voi non avranno mancato di notare, mi occupo di letteratura: scrivo recensioni di nuovi romanzi, tento di ricuperare quelli vecchi, leggo ponderosi saggi di stile, colleziono antologie, ammonticchio biografie di scrittori, le rare volte che mi accade qualcosa tiro sempre fuori una storia in cui è già successo pari pari e mi diletto nell’utilizzare brevi lacerti di citazioni poetiche in contesti deleteri che raramente farebbero la felicità dei poeti che le hanno composte pensando in grande. Se nei dintorni capto un volume storia della letteratura, non c’è scampo, è mio: che si tratti di uno di Francese sul quale ha studiato mia madre, di uno di Latino di mio padre, o uno mio di Greco risalente ai bei tempi dell’adolescenza andata, o il De Sanctis a metà prezzo su una bancarella, o una delle innumerevoli letterature inglesi accumulate nel tempo e nello spazio (Daiches, Burgess, Praz, Sanders, Norton…). So chi è Christopher Smart, cito a memoria Agrippa d’Aubigné e posso parlare per ore di Giovan Francesco Maia Materdona. Ho addirittura pubblicato due romanzi, anche se tendo a non dirlo troppo in giro. E ogni giorno vado a letto col rimpianto di non essere stato abbastanza scrittore, di non aver contribuito al progressivo gonfiarsi dell’universale mole letteraria (che un giorno scoppierà) con un nuovo raccontino, una silloge, un romanzo. I più arguti di voi non saranno sorpresi dall’apprendere che sono dottore di ricerca in filosofia.
Ho tuttavia sempre cercato di tener segreto questo curioso hobby che m’è costato otto anni di studio (quattro di università, uno di specializzazione postlaurea, tre di dottorato). In fondo non è difficile, vista la peculiare struttura dell’istruzione superiore italiana: basta non presentarsi mai a lezione e parlar d’altro durante gli esami. Se pure nel corso degli esami qualche larvato riferimento alla filosofia può essere avanzato con la dovuta prudenza, ma giusto per non destare troppi sospetti e ovviamente curandosi di parlare a bassa voce così che solo e soltanto il professore vi senta, è invece assolutamente fondamentale non andare mai a lezione: c’è il rischio concreto di essere visti in facoltà, e in tal caso sarebbe decisamente ardimentoso architettare una scusa plausibile (perché mai uno dovrebbe frequentare le facoltà di filosofia, se non è filosofo egli stesso? per ammirarne l’architettura dall’interno? per uno studio antropologico? per rimorchiare le ragazze? ma l’avete mai vista una filosofessa?). Di più, a furia di frequentare le aule di filosofia si finisce per frequentarne la fauna e chi va col filosofo finisce sempre, volente o nolente, per filosofare. Non è raro essere seduti al bar e venire affrontati a muso duro da una ultras della materia grigia che posa i palmi sul tavolino e vi chiede a bruciapelo: “Ma tu che ne pensi del neoplatonismo hegeliano?”
Una soluzione tanto drastica quanto ragionevole per i problemi assortiti dell’università in Italia potrebbe essere la sua abolizione: a eccezione però delle facoltà di filosofia, le quali andrebbero invece rase al suolo senza porsi troppe domande (e soprattutto senza mai chiedersi cosa si debba pensare del neoplatonismo hegeliano). Non mi riferisco solo al dato di fatto che dalle nostre parti la filosofia è fra le prime cause di disoccupazione, a meno che non si voglia considerare ottimisticamente come sbocco professionale privilegiato la circostanza che fossero laureati in filosofia entrambi gli ultimi Papi. Penso invece soprattutto al paralogismo pseudoaristotelico che affolla e ammorba le facoltà medesime.
A quanto pare la prima opera di Aristotele (non l’ho mai letta, ma c’è scritto nell’Abbagnano) è un dialoghetto, il Protrettrico, che esorta alla pratica filosofica per mezzo di una logica stringente. Per filosofare bisogna dapprima decidere se filosofare o meno. Ma per decidere se filosofare o meno bisogna filosofare anche solo quel tanto che basta a decidere di non filosofare affatto. Quindi prima o poi tutti devono filosofare, anche per non filosofare. Tanto vale filosofare e basta, filosofava il cucciolo di Stagirita. Ve lo ricordate? Bravi, ma non l’avete letto nemmeno voi: l’opera è andata perduta integralmente e noi la conosciamo solo tramite citazioni di Giamblico a sua volta citato dall’Abbagnano.
La banale considerazione del giovane Aristotele, al succo che tutti sono dotati del pensiero e quindi degli strumenti base per filosofare, non ha solo consentito discutibili travasi di studenti nelle facoltà di filosofia ma ha fatto in modo che ogni studente finisse per sentirsi filosofo egli stesso. E un filosofo che fa? Ascolta, pensa, pondera e contraddice. Poi arriva un altro filosofo che lo ascolta, pensa, pondera e contraddice pure lui. Poi un altro, poi un altro ancora. L’indegno teatrino montato dall’Abbagnano – nel quale arriva Kant e dice: “Il noumeno è la cosa in sé”, poi arriva Fichte e gli dice: “Non la cosa in sé, ma l’io”, poi arriva Hegel e gli rinfaccia: “Non l’io, ma l’idea”, poi arriva Schopenhauer e lo rimbrotta: “Non l’idea, ma il velo di Maya”, poi arriva Marx e protesta: “Non il velo di Maya, ma la caduta tendenziale del saggio di profitto”, poi arriva Nietzsche e Dio solo sa cosa dice – ecco, quest’indegno teatrino diluito nei secoli vede una replica ipercompressa ogni giorno, alla fine di ciascuna lezione di filosofia, moltiplicata per le innumerevoli sedi universitarie italiane e per le brulicanti sottobranche di cattedre e insegnamenti in cui si diramano i corsi di laurea in filosofia (che so, Laboratorio di scrittura filosofica o anche Storia del pensiero femminista nell’Alto Medioevo o addirittura Antropologia culturale). La filosofia è così: uno alza la mano e parla.
Molti di questi studenti si sentono giustificati all’intervento logorroico e petulante dall’evenienza di aver letto dei libri. Forse un po’ ingenui, forse in malafede, non tengono presente che il migliore metodo per leggere i libri di filosofia è stato enunciato intorno alla metà del XVIII secolo da un filosofo onesto, David Hume, e consiste grossomodo in questo procedimento reiterativo: si va in una biblioteca di filosofia; si prende un libro a caso; si legge il titolo e, se il titolo è troppo oscuro, anche parte dell’indice; si considera se il libro contiene qualcosa di utile; ci si ricorda che si è in una biblioteca di filosofia; si getta il libro nell’immondizia; se ne prende un altro e così via finché la biblioteca non finisce; dopo di che si cambia biblioteca. D’altra parte David Hume poteva permettersi di essere onesto come filosofo, in quanto campava facendo l’avvocato. D’altra parte ancora, io al metodo Hume preferisco il ben più antico metodo Al Gazali (XI secolo), esposto in un trattato che si intitola La distruzione dei filosofi e che vi esporrei volentieri se non mi fossi limitato a leggerne il titolo per poi gettarlo via.
Sul metodo Hume ho infatti basato il mio intero corso di studi universitari: al primo anno non ho letto Schopenhauer, Mauss e Montaigne. Al secondo ho fotocopiato Bion, ho sentito parlare di un tale che si chiamava Heidegger, o Habermas, o Horkheimer (sinceramente non ricordo) e, dovendo affrontare il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, ho ritenuto opportuno leggerne soltanto le sette proposizioni segnate con un numero intero, così da poterne abilmente maneggiare una significativa sintesi (“Il mondo è tutto ciò che accade. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”). Al terzo anno ho fatto degli esami di storia. Al quarto ho organizzato la festa di laurea.
I miei studi di filosofia mi hanno quindi consentito di formarmi una solida cultura letteraria. E tuttora, quando per mio piacere leggo un libro di filosofia (ne ho letto uno nel 2002 e un altro lo scorso anno), mi interessa sapere se è ben scritto o meno, tutto qui – non m’importa essere d’accordo coi contenuti di un testo più di quanto m’importi di andare d’accordo con una canzone, un quadro o una mucca. In fin dei conti ho fatto non una ma due tesi, fra laurea e dottorato, entrambe su Voltaire che del filosofo aveva solo una confusa fama, dovendo invece la sua gloria all’indefessa attività letteraria e a una sterminata produzione in bello stile che, venisse letta oggi, faticherebbe a venir collocata nei ripiani di filosofia in qualsiasi Feltrinelli – e nella quale rientra e si staglia Il filosofo ignorante, appunto.
Come i più arguti di voi non avranno mancato di notare, mi occupo di letteratura: scrivo recensioni di nuovi romanzi, tento di ricuperare quelli vecchi, leggo ponderosi saggi di stile, colleziono antologie, ammonticchio biografie di scrittori, le rare volte che mi accade qualcosa tiro sempre fuori una storia in cui è già successo pari pari e mi diletto nell’utilizzare brevi lacerti di citazioni poetiche in contesti deleteri che raramente farebbero la felicità dei poeti che le hanno composte pensando in grande. Se nei dintorni capto un volume storia della letteratura, non c’è scampo, è mio: che si tratti di uno di Francese sul quale ha studiato mia madre, di uno di Latino di mio padre, o uno mio di Greco risalente ai bei tempi dell’adolescenza andata, o il De Sanctis a metà prezzo su una bancarella, o una delle innumerevoli letterature inglesi accumulate nel tempo e nello spazio (Daiches, Burgess, Praz, Sanders, Norton…). So chi è Christopher Smart, cito a memoria Agrippa d’Aubigné e posso parlare per ore di Giovan Francesco Maia Materdona. Ho addirittura pubblicato due romanzi, anche se tendo a non dirlo troppo in giro. E ogni giorno vado a letto col rimpianto di non essere stato abbastanza scrittore, di non aver contribuito al progressivo gonfiarsi dell’universale mole letteraria (che un giorno scoppierà) con un nuovo raccontino, una silloge, un romanzo. I più arguti di voi non saranno sorpresi dall’apprendere che sono dottore di ricerca in filosofia.
Ho tuttavia sempre cercato di tener segreto questo curioso hobby che m’è costato otto anni di studio (quattro di università, uno di specializzazione postlaurea, tre di dottorato). In fondo non è difficile, vista la peculiare struttura dell’istruzione superiore italiana: basta non presentarsi mai a lezione e parlar d’altro durante gli esami. Se pure nel corso degli esami qualche larvato riferimento alla filosofia può essere avanzato con la dovuta prudenza, ma giusto per non destare troppi sospetti e ovviamente curandosi di parlare a bassa voce così che solo e soltanto il professore vi senta, è invece assolutamente fondamentale non andare mai a lezione: c’è il rischio concreto di essere visti in facoltà, e in tal caso sarebbe decisamente ardimentoso architettare una scusa plausibile (perché mai uno dovrebbe frequentare le facoltà di filosofia, se non è filosofo egli stesso? per ammirarne l’architettura dall’interno? per uno studio antropologico? per rimorchiare le ragazze? ma l’avete mai vista una filosofessa?). Di più, a furia di frequentare le aule di filosofia si finisce per frequentarne la fauna e chi va col filosofo finisce sempre, volente o nolente, per filosofare. Non è raro essere seduti al bar e venire affrontati a muso duro da una ultras della materia grigia che posa i palmi sul tavolino e vi chiede a bruciapelo: “Ma tu che ne pensi del neoplatonismo hegeliano?”
Una soluzione tanto drastica quanto ragionevole per i problemi assortiti dell’università in Italia potrebbe essere la sua abolizione: a eccezione però delle facoltà di filosofia, le quali andrebbero invece rase al suolo senza porsi troppe domande (e soprattutto senza mai chiedersi cosa si debba pensare del neoplatonismo hegeliano). Non mi riferisco solo al dato di fatto che dalle nostre parti la filosofia è fra le prime cause di disoccupazione, a meno che non si voglia considerare ottimisticamente come sbocco professionale privilegiato la circostanza che fossero laureati in filosofia entrambi gli ultimi Papi. Penso invece soprattutto al paralogismo pseudoaristotelico che affolla e ammorba le facoltà medesime.
A quanto pare la prima opera di Aristotele (non l’ho mai letta, ma c’è scritto nell’Abbagnano) è un dialoghetto, il Protrettrico, che esorta alla pratica filosofica per mezzo di una logica stringente. Per filosofare bisogna dapprima decidere se filosofare o meno. Ma per decidere se filosofare o meno bisogna filosofare anche solo quel tanto che basta a decidere di non filosofare affatto. Quindi prima o poi tutti devono filosofare, anche per non filosofare. Tanto vale filosofare e basta, filosofava il cucciolo di Stagirita. Ve lo ricordate? Bravi, ma non l’avete letto nemmeno voi: l’opera è andata perduta integralmente e noi la conosciamo solo tramite citazioni di Giamblico a sua volta citato dall’Abbagnano.
La banale considerazione del giovane Aristotele, al succo che tutti sono dotati del pensiero e quindi degli strumenti base per filosofare, non ha solo consentito discutibili travasi di studenti nelle facoltà di filosofia ma ha fatto in modo che ogni studente finisse per sentirsi filosofo egli stesso. E un filosofo che fa? Ascolta, pensa, pondera e contraddice. Poi arriva un altro filosofo che lo ascolta, pensa, pondera e contraddice pure lui. Poi un altro, poi un altro ancora. L’indegno teatrino montato dall’Abbagnano – nel quale arriva Kant e dice: “Il noumeno è la cosa in sé”, poi arriva Fichte e gli dice: “Non la cosa in sé, ma l’io”, poi arriva Hegel e gli rinfaccia: “Non l’io, ma l’idea”, poi arriva Schopenhauer e lo rimbrotta: “Non l’idea, ma il velo di Maya”, poi arriva Marx e protesta: “Non il velo di Maya, ma la caduta tendenziale del saggio di profitto”, poi arriva Nietzsche e Dio solo sa cosa dice – ecco, quest’indegno teatrino diluito nei secoli vede una replica ipercompressa ogni giorno, alla fine di ciascuna lezione di filosofia, moltiplicata per le innumerevoli sedi universitarie italiane e per le brulicanti sottobranche di cattedre e insegnamenti in cui si diramano i corsi di laurea in filosofia (che so, Laboratorio di scrittura filosofica o anche Storia del pensiero femminista nell’Alto Medioevo o addirittura Antropologia culturale). La filosofia è così: uno alza la mano e parla.
Molti di questi studenti si sentono giustificati all’intervento logorroico e petulante dall’evenienza di aver letto dei libri. Forse un po’ ingenui, forse in malafede, non tengono presente che il migliore metodo per leggere i libri di filosofia è stato enunciato intorno alla metà del XVIII secolo da un filosofo onesto, David Hume, e consiste grossomodo in questo procedimento reiterativo: si va in una biblioteca di filosofia; si prende un libro a caso; si legge il titolo e, se il titolo è troppo oscuro, anche parte dell’indice; si considera se il libro contiene qualcosa di utile; ci si ricorda che si è in una biblioteca di filosofia; si getta il libro nell’immondizia; se ne prende un altro e così via finché la biblioteca non finisce; dopo di che si cambia biblioteca. D’altra parte David Hume poteva permettersi di essere onesto come filosofo, in quanto campava facendo l’avvocato. D’altra parte ancora, io al metodo Hume preferisco il ben più antico metodo Al Gazali (XI secolo), esposto in un trattato che si intitola La distruzione dei filosofi e che vi esporrei volentieri se non mi fossi limitato a leggerne il titolo per poi gettarlo via.
Sul metodo Hume ho infatti basato il mio intero corso di studi universitari: al primo anno non ho letto Schopenhauer, Mauss e Montaigne. Al secondo ho fotocopiato Bion, ho sentito parlare di un tale che si chiamava Heidegger, o Habermas, o Horkheimer (sinceramente non ricordo) e, dovendo affrontare il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, ho ritenuto opportuno leggerne soltanto le sette proposizioni segnate con un numero intero, così da poterne abilmente maneggiare una significativa sintesi (“Il mondo è tutto ciò che accade. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”). Al terzo anno ho fatto degli esami di storia. Al quarto ho organizzato la festa di laurea.
I miei studi di filosofia mi hanno quindi consentito di formarmi una solida cultura letteraria. E tuttora, quando per mio piacere leggo un libro di filosofia (ne ho letto uno nel 2002 e un altro lo scorso anno), mi interessa sapere se è ben scritto o meno, tutto qui – non m’importa essere d’accordo coi contenuti di un testo più di quanto m’importi di andare d’accordo con una canzone, un quadro o una mucca. In fin dei conti ho fatto non una ma due tesi, fra laurea e dottorato, entrambe su Voltaire che del filosofo aveva solo una confusa fama, dovendo invece la sua gloria all’indefessa attività letteraria e a una sterminata produzione in bello stile che, venisse letta oggi, faticherebbe a venir collocata nei ripiani di filosofia in qualsiasi Feltrinelli – e nella quale rientra e si staglia Il filosofo ignorante, appunto.
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