mercoledì 17 dicembre 2008

Lo storico in diretta

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il Melangolo ha voluto trasporre su stampa gli atti di una tavola rotonda tenutasi presso l’Università di Pavia lo scorso 12 marzo. Nell’occasione il diplomatico, storico e giornalista Sergio Romano donava al locale Ateneo una quantità di propri manoscritti, rigorosamente elencati nell’appendice del volume e sorprendenti per la varietà di temi e generi che esplorano: non solo, com’era presumibile, riflessioni sulla politica estera o cronologie e prontuari per la stesura di saggi storici, ma anche traduzioni letterarie (soprattutto da Dubliners) e addirittura racconti. Consegnando i propri appunti al fondo manoscritti pavese, Sergio Romano si è di fatto consegnato agli studi, accettando di farsi considerare dall’esterno e indubbiamente ascoltando con curiosità i vari suoi ritratti esposti nel corso della tavola rotonda primaverile.

In questa stessa polifonia ritrattistica risiede indubbiamente il maggior pregio di quest’agile volumetto. Certo bisogna saperlo leggere, scavando oltre la superficie accademica pedissequamente riportata dall’editore, che ha incluso non solo la lettera beneaugurante del Presidente della Repubblica e il saluto del Rettore dell’Ateneo ma anche tutto il continuo e reciproco ringraziarsi e lodarsi che costituisce la cifra stilistica di qualsiasi convegno in qualsiasi università (per contro non può che risultare consolante la freschezza del tono pure rigorosamente accademico della giovane professoressa Arianna Arisi Rota, che nel descrivere o forse decrittare il Crispi di Romano risale felicemente ai giorni in cui lo conobbe da laureanda accompagnandolo nel Collegio Ghislieri). Una volta grattata via questa patina inevitabile, emerge un formidabile multiritratto di un ingegno proteiforme, a opera di alcuni fra i migliori intellettuali italiani.

Tanto Arrigo Levi quanto Salvatore Veca, infatti, impostano il loro intervento su un quesito paradossale: “quale Sergio Romano?”. Come tutti sanno, ne esistono almeno tre: il rinomato ambasciatore, l’autorevole storico e l’editorialista di successo, erede di Montanelli nella corrispondenza del Corriere. A ciascuno di questi tre infaticabili gemelli s’è dedicata maggiormente l’attenzione ora di uno, ora dell’altro intervento nel corso della tavola rotonda, che per noi lettori di romanzi potrebbe avere quasi una struttura giallistica nel suo tentativo di rispondere all’interrogativo esistenziale di cui sopra; e alla fine, per fortuna, la soluzione viene rivelata da Sergio Romano medesimo, nella duplice metaforica veste di vittima e assassino, con una breve e sapidissima “confessione” in cui spiega chi è per davvero e che pare rispondere passo passo alla lucida introduzione di Fabio Rugge.

Se ci si limita agli interventi esterni, che inaugurano ufficialmente lo studio di Sergio Romano, la miglior risposta è quella di chi insiste nel sottolineare l’identità di questi tre gemelli indiscernibili, o meglio ancora l’interscambiabilità dei loro ruoli. Il giornalista, insiste Arrigo Levi, è uno storico in diretta: qualcuno che tenta di descrivere quotidianamente il procedere della Storia in corso d’opera, e può farlo solo in ragione di una solida cultura storico-geografica che il Sergio Romano saggista e diplomatico indubbiamente possiede e maneggia con la serena maestria che gli è propria. Idem, lo storico non avrebbe riscosso il successo che meritava se non avesse potuto parlare con una lingua che non fosse immediatamente fruibile al pubblico e che lo coinvolga pur conservando saggiamente le distanze, così come accade ogni giorno nella rubrica delle lettere che Romano gestisce sul Corriere. Infine, il talento del diplomatico non sarebbe stato noto fra i non specialisti qualora non fosse immediatamente identificabile nell’autorevolezza e nel raffinato eloquio del Sergio Romano noto al grande pubblico.

Per questo colpisce l’insistenza di tre relatori – lo stesso Rugge, Vittorio Dan Segre e soprattutto Angelo Stella – sul riferimento alla figura di Voltaire. Questi, in tempi e luoghi diversi, era storico, uomo di corte e autore apprezzato dal grande pubblico; Julien Gracq lo gratificò appunto dell’appellativo di “giornalista” (che in Gracq non è precisamente un complimento, ma poco importa). In particolare, Stella ricalca l’identità fra la conclamata proprietà linguistica di Voltaire e di Romano; e vede le radici di quest’identità nell’intenzione di restituire per mezzo del linguaggio una struttura razionale al caos altrimenti incomprensibile della Storia in continuo e inarrestabile avanzamento. Romano è dunque da ascrivere non tanto alla tradizione dell’illuminismo oltranzista (per quanto la sua insistenza sul laicismo possa farlo sospettare) quanto a quella più nobile, ragionevole e destinata a durare dei secoli dell’illuminismo quale applicazione pratica dell’ordo rhetoricus in ogni ambito delle scienze sociali.

Per questo motivo mi ha lasciato un po’ perplesso la notazione di Silvio Beretta che distingue recisamente l’approccio di Sergio Romano da quello che George Lytton Strachey espone in Eminenti Vittoriani, e che consiste nel “pescare nel grande oceano di materiale calandovi dentro, qua e là, un secchiello per portare alla luce, da quelle remote profondità, qualche caratteristico campione da esaminare con diligente curiosità”. La curiosità cui fa riferimento Strachey non è tanto da intendersi nel senso di capriccio eccentrico, credo, quanto nel senso originario del termine latino “curiositas”, ovvero “ricerca del vero”: esattamente il compito che nella sua confessione finale Sergio Romano adombra, celato dietro un velo di modestia, quale comun denominatore dello storico, del diplomatico e del giornalista.

Il volume è indubbiamente apprezzabile più nei suoi contenuti che nella forma – ove peraltro un’occhiata in più del proto non sarebbe stata male (a pagina 88 ci scappa l’imbarazzante refuso “un’amico”, che in un volume universitario sarebbe meglio evitare). Finisce però che il miglior ritratto di Romano lo fornisce senza una parola Emilio Giannelli: una vignetta che lo ritrae davanti a uno scaffale in cui è catalogato tutto il suo sapere storico, politico e letterario, circondato dalle riproduzioni in scala dei grandi personaggi di ieri e di oggi, mentre è intento a scrivere a mano qualcosa che non si distingue ma mi piace immaginare come risposta a qualche suo lettore per nulla accademico.

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