(copyright Il Resto del Pallone)
Prima, Paolo Valenti. I suoi sorrisi domenicali erano l’inaugurazione della gioia del calcio, in un tempo nemmeno tanto lontano milioni di italiani il campionato, per ore e ore, si limitavano ad immaginarselo. Poi compariva lui, sereno, affabile, con il fondo degli occhi pieno della responsabilità di entrare nelle case di tutta Italia e al tempo stesso non disturbare, venire atteso e passare sottotraccia, proporre le tirate strapaesane di Strippoli o di Bubba ammantandole di lieve ironia, di understatement, di cortese avvertimento al non prendere un gioco troppo sul serio. E dall’altra parte i telespettatori, che lo aspettavano per tutta la settimana e che, quando 90° Minuto divenne appuntamento quotidiano in occasione dei mondiali in Italia, si sentirono come se d’improvviso fosse domenica ogni giorno, vedendosi salutare dal suo sorriso, dal tono di voce smorzato, dallo sguardo concentrato e divertito di chi ama veder giocare.
Poi, Gianni Brera. Quando morì, la televisione di corta memoria ricordava quasi soltanto la sua polemica con Sacchi, in cui sosteneva che il gioco del calcio consistesse nel trattare la palla e non nel far scattare all’improvviso quattro difensori in linea. Dimenticò, certa televisione di corta memoria, che per Brera l’esercizio dialettico contava più del suo contenuto, alle volte, e che la polemica era parte integrante del gioco, del confronto, fondamento irrinunciabile del calcio.
Poi, Vladimiro Caminiti. Il velenoso corsivista che con il suo ampio e ipnotico periodare prendeva l’ignaro lettore che cercava un commento sportivo e lo trascinava per le lande diverse della politica, dell’arte, della letteratura, senza che nessuno osasse interromperlo, distogliere gli occhi, chiudere il giornale; perché sapeva che alla fine si sarebbe ritrovato di nuovo a leggere di calcio, considerandolo non più l’unico argomento possibile ma la parte di un tutto armonico, di un intero mondo vagliato da uno sguardo caustico.
Poi, Sandro Ciotti. La voce perduta che tutti i bambini tentavano di imitare gorgogliando, raccontandosi le proprie partite. Il mito del viveur che scriveva canzoni, giocava a carte tutta la notte e fumava quaranta sigarette al dì. Il fine dicitore che stigmatizzava un arbitraggio definendo testimoni gli spettatori e che aveva la faretra piena di perifrasi sarcastiche; ogni parola al proprio posto, mai un congiuntivo sbagliato nella foga, l’impressione che stesse leggendo un testo già scritto al quale i calciatori si limitavano ad adeguarsi.
Poi, Enrico Ameri. Il basso continuo, il sottofondo inafferrabile delle domeniche trascorse a girare la manopola della radiolina sperando di riuscire ad ascoltare, miracolo dei miracoli, un tempo intero tutto di fila. Finché non arrivava il momento in cui, al colmo della disperazione, orientati quasi a spegnere il marchingegno e a non pensarci più, dal fruscio delle onde elettromagnetiche si sentiva giungere il suo racconto, riconoscibile fra mille, ci si ingolosiva, si girava impercettibilmente la manopola per sentirlo meglio e non lo si sentiva più.
Poi, Nando Martellini. Che quando venne scritturato in vecchiaia per commentare alcune partite di Coppa dei Campioni ce le fece apparire più importanti per il solo fatto che fosse la sua voce a farcele arrivare in casa, eco di un passato perduto nella mitologia e del triplice compostissimo grido che ci battezzò campioni del mondo.
Ora, Giorgio Tosatti. L’ultima testimonianza che esistono due motivi per seguire il calcio. Il primo è puramente estetico, immediato, e consiste nel vedere la giocata spettacolare, l’azione travolgente, la rete impossibile. L’altro è mediato, intellettivo, e consiste nell’attendere con trepidazione il commento in seconda serata o il quotidiano del giorno dopo; sapere che una vittoria non sarà mai piena se non ci sarà qualcuno a raccontarla, o che una sconfitta ci sembrerà sempre irragionevole finché qualcuno non ce la spiegherà. Perché la palla che rotola è un’emozione unica nel cuore di ognuno; ma nella memoria collettiva, si sa, se non ci fosse stato Omero alla guerra di Troia non avremmo dato tutta questa importanza.
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