venerdì 2 marzo 2007

Storia naturale dell'alienazione, ovvero La recensione militante

(copyright Ore Piccole)




Comunicazione di servizio: la recensione del romanzo di Joshua Ferris, E Poi Siamo Arrivati alla Fine (Neri Pozza, 2006) inizia dopo un enorme capoverso introduttivo che vi prego di saltare a pie’ pari.




C’è un dato di fatto che, per quanto io tenti di ignorarlo o di far finta che emerga da una serie di letture a tappeto e quindi necessariamente stocastiche, alla fine si ripropone continuamente come i più ardimentosi tentativi culinari di mia madre che da quando è andata in pensione ha quasi tanto tempo libero quanto me. Mi sembra che, a parità di argomento trattato, i romanzi più interessanti vengano quasi tutti da oltreoceano o, se vogliamo limitarci all’Europa, da oltremanica; e tanto più mi sconvolge l’idea che la stessa trama possa risultare narrativamente diafana se prodotta, che so io, a Centocelle e invece improvvisamente solidissima se affrontata, poniamo, a San Antonio, Texas. Premesso che ovviamente si tratta di una considerazione generale, e che di conseguenza le eccezioni supereranno magari in numero le conferme, penso che le ragioni principali siano tre. La prima è di natura linguistica: l’inglese, e in particolare il gergo americano che è venuto via via costruendosi una nuova sintassi, consente ai narratori opzioni più sbrigative, più dirette, forse anche più agevoli a manovrarsi. La seconda è di natura sociale: gli americani hanno una cultura condivisa molto più giovane (e per certi versi ingenua) della nostra, la quale consente loro di fronteggiare a cuor leggero gli argomenti letterariamente più scottanti, quali il lavoro, il sesso, l’angoscia vitale; gli inglesi hanno una cultura condivisa talmente radicata da poter permettersi uno spirito narrativo incrollabile (si pensi alla impressionante regolarità della produzione di Defoe, di Dickens, di Graham Greene). La terza è di natura politica: i principii basilari della comunità, benché radicalmente opposti fra loro, sono parimenti cristallini in America e in Gran Bretagna, di modo tale che il narratore anglofono di solito non deve ricorrere al sotterfugio del romanzo esplicitamente impegnato, le cui varie metastasi hanno avvelenato buona parte della recente narrativa italica.




E Poi siamo Arrivati alla Fine è un ottimo esempio di trama che, sviluppata in Italia, sarebbe divenuta un pessimo romanzo. Grazie al cielo invece Ferris vive a Brooklyn, è nato in Illinois, ha studiato in Iowa e in California e ha ambientato il plot a Chicago, mettendosi al riparo da ogni possibile decadentismo eurocentrico. Si prenda infatti un suo immaginario coetaneo italiano – chiamiamolo Giosuè Ferrari - che sia nato nel 1974 a Torino, abbia studiato a Bologna e viva adesso a Roma. Fosse venuta in mente all’immaginario Giosuè Ferrari, la trama si sarebbe sviluppata così: un gruppo di dipendenti di una holding pubblicitaria di Milano, tutti sull’orlo del licenziamento, tutti sull’orlo di una crisi di nervi, alcuni sull’orlo addirittura della morte per consunzione costituiscono la miglior pubblicità contro la new economy, pertanto giù a criticare il governo ladro, il precariato sistematico, l’impossibilità di avere una vita decente prima dei quarant’anni e dopo i sessanta, la società schiava della cultura dell’immagine e già che stiamo anche la guerra preventiva, il cardinal Ruini e la fame nel mondo. Grazie al cielo invece Giosuè Ferrari non esiste, altrimenti avrei provveduto a sopprimerlo colpendolo reiteratamente sulle corna col dorso del suo stesso (immaginario) romanzo.




Prescindendo dal suo valore letterario, il (realmente esistente) romanzo di Joshua Ferris dimostra che i problemi non si risolvono lamentandosene in continuazione ma affrontandoli; che bisogna scendere a compromessi, e si finisce per sopravvivere benone; che il più delle volte la soluzione non è nel rovesciamento del macrosistema ma nella riconsiderazione dell’equilibrio privato. Se invece vogliamo includere anche il suo valore letterario, è fuori discussione che si origini proprio dall’esser partito dalla trama di cui sopra (un gruppo di dipendenti di una holding pubblicitaria di Chicago, tutti sull’orlo del licenziamento, tutti sull’orlo di una crisi di nervi, alcuni sull’orlo addirittura della morte) e averci costruito attorno una struttura narrativa solida, disinvolta e sorprendente che consegue l’unico obiettivo che uno scrittore dovrebbe prefiggersi in vita sua – rendere la gente felice di aver comprato il suo romanzo.




Io ho iniziato a sorridere quando sono stato posto di fronte al prevedibile licenziamento dell’instabile Tom Mota e ho continuato a sorridere quando è stato notificato il testamento di Frank Brizzolera; ho sorriso imperterrito di fronte alle istanze politically correct di Karen Woo e ai meno riusciti abbozzi creativi dei copywriter, ma anche scavando nel cancro che condanna Lynn Mason, nella follia che divora Carl Garbedian, nel sospetto che Joe Pope sia frocio, vergato da una mano ignota sulla parete del suo ufficio. Non ho smesso di sorridere pagina dopo pagina, ho sorriso quando socchiudevo il libro augurandomi una versione cinematografica e pensando a chi potesse interpretare chi; ho sorriso, infine, riponendo definitivamente il libro e continuando involontariamente a immaginare cos’avrebbero continuato a fare tutti i personaggi nelle pagine non scritte del romanzo, quelle che seguono la quarta di copertina.




I miei potenti informatori d’oltreconfine, dietro esplicita domanda, mi hanno riferito che la scrittura di Joshua Ferris viene ritenuta molto americana: sullo stile, per intenderci, degli americanissimi Jonathan Franzen o Dave Eggers, tanto per citare autori diversi accomunati dal piacere che si ricava nel leggerli, e dalla voglia di andare avanti anche quando si è troppo stanchi per continuare a girar pagine. Può darsi (ma non credo) che i miei agenti a Oxford abbiano inteso sottilmente offenderlo; ma alle mie orecchie la considerazione è suonata come un incoraggiamento poiché Ferris, esattamente come Franzen, esattamente come Eggers, ripone proprio nella serenità con cui affronta i contenuti una solidità formale che stupisce, considerando che si tratta pur sempre di un esordio (e comparandolo all’immaginario e potenzialmente agghiacciante esordio dell’immaginario Giosuè Ferrari, narratore impegnato).




E Poi Siamo Arrivati alla Fine è raccontato in prima persona, e fin qui niente di nuovo; se non che E Poi Siamo Arrivati alla Fine è raccontato in prima persona plurale: “Eravamo irritabili e strapagati”, inizia. Poiché il valore di una narrazione dipende molto più da come è narrata che da cosa viene narrato, giova ricordare che questa persona narrativa al tempo stesso autoreferenziale e spersonalizzante è sostanzialmente impossibile da rendersi in Inglese (lingua che abbonda di pronomi, a cominciare dall’incipit: “We were fractious and overpaid”), a meno di essere veramente molto ma molto bravi a fare slalom linguistici degni dell’OuLiPo (e, visto com’è andata la discussione sulla fiducia, degni anche dell’Ulivo). Già che stiamo, giova ricordare anche che la traduttrice, Katia Bagnoli, per quanto avvantaggiata dalla possibilità di elidere i pronomi in Italiano, ha saputo cavarsela più che egregiamente di fronte a un testo lungo quattrocento pagine e sovrabbondante di gergo tecnico, senza mai farlo pesare a chi, come me, non avrà mai un lavoro vero pertanto decisamente non può dirsi specialista.




Sappiamo tutti, lettori sgamati, che i romanzi di solito si basano su alcune trovate e parecchi riempitivi. Certamente, questa di narrare in prima persona plurale è una trovata e non delle più banali; tuttavia non mi sembra che si possa ridurla a mero espediente. Scavando più a fondo, infatti, è evidente come il “noi” che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina costituisca la coscienza collettiva dei dipendenti dell’agenzia pubblicitaria; e come altresì i personaggi che appaiono in terza persona, Lynn e Karen e Carl e Tom e tutti gli altri, non siano da ritenersi di volta in volta esclusi da quest’insieme, ma piuttosto posti sotto un occhio collettivo che tutto vede e tutto sa, parte di un corpo che come un leviatano aziendale si compone di tutti i mali privati: “Soffrivamo di tutti i tipi di disturbi”, scrive Ferris, “avevamo la madre di tutti i mal di testa, eravamo influenzati dai cambiamenti di clima, dai cambiamenti di umore e da insicurezze liceali mai superate del tutto”.




Ferris s’inventa un livello di narrazione onnisciente che si incunea fra l’assoluta alterità dell’autore (che come il Dio di Flaubert lascia che il mondo corra e provvede a limarsi le unghie) e la compartecipazione piena dell’autodiegesi. Tradotto in termini che possano essere capiti addirittura da uno studente universitario post-riforma del tre più due, Ferris presta il suo inchiostro allo spirito inquieto che si agita nei corridoi dell’azienda, quello che appartiene a ogni dipendente ma che non coincide con nessuno di loro. Tradotto in termini che possano essere capiti perfino dall’autore stesso della riforma del tre più due, il “noi” usato dall’autore è il luogo narrativo in cui si ritrova la cospicua parte di cervello che ogni dipendente dedica all’azienda; è, per dirla marxianamente, il contenitore dell’alienazione.




Quando facevo il liceo ero troppo impegnato a rincorrere altezzose signorine per poter prestare la debita attenzione all’undicesima tesi esposta da Marx contro Feuerbach, e che recita: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarlo”, con tanto di verbi evidenziati in corsivo come nel peggiore dei master aziendali. Joshua Ferris non lo sa, ma il maggior pregio del suo romanzo è quello di avere superato Marx: essere riuscito a individuare un problema, e a far riflettere sulla sua eventuale soluzione, non ponendosi l’obiettivo di trasformare il mondo del lavoro ma soltanto quello di descriverlo; e di descriverlo benissimo, con questa voce narrante collettiva che testimonia come non ci si possa fermare a fare i rivoluzionari perché “avevamo le nostre bollette da pagare e i nostri limiti da considerare; avevamo famiglie da mantenere e i weekend per distrarci”.



Comunicazione di servizio: la recensione è finita, andate in pace. Ma per i pervicaci e i gurradomani non posso trattenermi dal rendere giustizia al talento narrativo di Joshua Ferris, che si rispecchia nel personaggio di Hank Neary, l’unico dipendente che passi il tempo libero a leggere romanzi e che sappia distinguere Dickens da Shakespeare. Saggiamente, tuttavia, le dichiarazioni di poetica vengono infilate in bocca ad altri personaggi; a Tom Mota quando dice “siamo creature tanto tristi, in fondo al cuore, noi clown; soli, disperati e pieni di dolore: così, per sentici meglio, facciamo gli scherzi!”; allo zio di Jim Jackers per cui quello della pubblicità “è un uso della lingua troppo assurdo per essere vero”; alla voce collettiva quando rivela che “certi giorni il tempo passava decisamente troppo piano, altri troppo in fretta, e quello che era accaduto la mattina poteva sembrare vecchio di secoli mentre quello che era avvenuto sei mesi prima era ancora vivido nella nostra mente come se fosse successo da meno di un’ora”. Ferris infatti gioca con il tempo, dilatandolo e ripercorrendolo a ritroso, taglia e cuce la lingua parlata e soprattutto i suoi scherzi, i suoi dialoghi brillanti (versione postmoderna delle conversation novel), le sue immaginifiche soluzioni narrative celano un fondo di tristezza clownesca. Quanto ad Hank Neary – e qui chiudo perché se no rischio di morire di vecchiaia prima di finire – riesce a pubblicare il suo romanzo quando tutto è finito, quando il gruppo si è sciolto, quando del compatto noi iniziale è rimasto poco e niente. Qualche suo vecchio collega, richiamato dalla diaspora aziendale, crede che abbia avuto successo col romanzo arrabbiato che stava scrivendo per denunziare l’inaccettabile vita di grafici e copywriter in un enorme grattacielo al centro di Chicago. Invece si apprende, per bocca dello stesso personaggio scrittore, che il romanzo di successo tutt’altro, e che il romanzo impegnato è stato gettato via senza rimpianti. Allora io sorrido una volta di più, ricordando cosa scrisse Nietzsche: che Zarathustra poté sputare sulla città di Vacca Pezzata solo dopo averla attraversata tutta, dalle strade principali ai più nascosti vicoli, diventando parte di essa e rendendola parte di sé.

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