Finalmente domenica!
Trentaduesima giornata, 14 aprile 2013
Trentaduesima giornata, 14 aprile 2013
Oggi sono stato a Bari, a Taranto, a Napoli, a Roma, a
Bologna, a Torino e a Marsiglia ma, non avendo tempo di vedere tutte queste
città in un giorno solo, mi sono limitato a fare un salto a Genova che le
comprende tutte. Il vecchio Guido Piovene, che nel 1957 aveva intrapreso il suo
Viaggio in Italia eternato in un
volume monumentale che qualcuno dovrebbe decidersi a rifare (possibilmente non
Concita De Gregorio né Beppe Severgnini; se mi pagate per un anno, mi offro
volontario), scriveva che Genova e Bari erano due città simmetriche, l’una
settentrionale e l’altra meridionale. La peculiarità era che quella
settentrionale era Bari. Genova infatti all’istinto commerciale ancipite – che
un po’ blandisce l’ospite, un po’ intende fregarlo ma senza antipatia – tipico
anche di Bari aggiunge manie di grandezza che sono nettamente napoletane. È
evidente il perché: Napoli come Genova è stata capitale, Bari no, e ad avere
manie di grandezza sono buone tutte le città (anche Pavia, alle volte) ma non
tutte riescono a potere permettersele. Inutile che stiamo qui a contarcela con
ipocrisia quirinalizia: l’Italia è stata grande solo spezzettata mentre
l’unificazione l’ha rimpicciolita, laicizzata, burocratizzata, rattrappita. A
queste manie di grandezza, in realtà, Genova aggiunge anche un’imbarazzante
strada sopraelevata ad alto scorrimento sul lungomare, intitolata ad Aldo Moro
santo patrono del compromesso, su cui le automobili sfrecciano pensando di
essere a Tokyo e invece dando l’identico effetto visivo di Taranto; da un
momento all’altro, guardando la sopraelevata, ci si aspettava di volgere gli
occhi a mare e vedere in lontananza, anziché la lanterna, un ponte girevole.
Il punto comune con Napoli resterebbe monco se mancasse il bathos, ovvero il precipizio nel quale
sia Napoli sia Genova addiacciano le suddette magnificenze: i decumani. A
Napoli sono in parallelo, San Biagio dei Librai, ovvero Spaccanapoli, e i
Tribunali; a Genova sono in successione, via del Campo che diventa la Maddalena
che diventa via di Prè. Sono i posti descritti da De André con perifrasi
perfetta (“i quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, perché
troppo stretti e poveri per poter essere illuminati più di mezz’ora al giorno)
e che dagli adepti di De André sono forse stati rovinati a forza di migliorie:
via del Campo ospita un centro per intellettuali di sinistra aromatizzati al
caviale dedicato ai cantautori genovesi, imperniato su un mercatino di gadget
inutili e costosi. Lì si trasmettono soffuse canzoni di Luigi Tenco e Ivano
Fossati, di fianco i fruttivendoli vendono melette rigate che inoculano il
marciume nell’anima solo a guardarle; sembra di passare istantaneamente dagli
inserti patinati di Repubblica alla carta igienica con la reiterata scritta
“Ferrovie dello Stato” in bluette.
La fauna presente attorno alla darsena dà l’idea di
coincidere pienamente con Khartum, ma da fonti indirette ho appreso che in
Sudan gli indigeni non cercano di venderti poltiglie gommose le quali, sbattute
su un tavolino, dapprima si spalmano e poi si rapprendono tornando alla forma
originaria. Purtroppo ai bambini piacciono i giocattoli schifosi; per fortuna
non ho ancora figli quindi posso guardare e passare. Se fossi stato a
Marsiglia, la parte marina di Genova le somiglierebbe; invece essendo stato a
Bologna posso assicurare che via XX Settembre, lo stradone porticato che oltrepassa il ponte monumentale, è via
dell’Indipendenza; coincide persino la lieve salita, percettibile ma non
noiosa. All’inizio di via dell’Indipendenza c’è piazza Maggiore e all’inizio di
via XX Settembre c’è piazza de Ferrari la quale, a parte il palazzo trompe l’oeil della Borsa che ha la
forma di una barca emersa sfondando il cemento, è una zampata sabauda in cui
Genova finge di essere Torino. Il problema è che alla fine di via
dell’Indipendenza c’è la stazione di Bologna mentre alla fine di via XXV Aprile
non si sa perché uno si accorge di star andando non solo in direzione opposta
alla piazza ma anche in direzione opposta alla stazione, in direzione opposta
al mare, in direzione opposta ai carruggi; pertanto si ferma, si chiede: “Dove
cazzo sto andando?”, e torna indietro a precipizio, verso il bathos, verso il mare, verso la vita.
Per gli appassionati, la concentrazione variegata di
prostitute ai crocicchi promette prezzi concorrenziali, sui quali non ho avuto
tempo di documentarmi con precisione anche perché nella circostanza la mia
assoluta priorità era di uscire dai carruggi senza riportare traccia di
coltellate. È notevole che all’altitudine sul livello del mare, all’interno
della stessa città, coincida chiaramente un diverso grado di ricchezza se non
di civilizzazione; accade anche a Napoli, dove in alto ci sta il Vomero. A
Bari, invece, non ci sono salite. L’unica cosa bella della casa di Cristoforo
Colombo è la bigliettaia; i turisti che vi entrano sono tutti americani e sono
la seconda cosa più interessante del monumento. Se si cala dall’adiacente Porta
Soprana invece si arriva ai Liberi Giardini di Babilonia, di fronte alla chiesa
di Sant’Agostino, dove un gruppo di rasta intrattiene i passanti con una musica
esattamente uguale a quella della canzone di Elio che sta spopolando oggidì e
che si chiama Complesso del Primo Maggio,
in cui si asserisce che “la musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e
tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni”. Agli amici babilonesi manca
purtroppo questa serena consapevolezza.
Non a tutte le chiese capita lo stesso destino. Di fronte
alla Cattedrale di San Lorenzo c’è un finto cappuccino che resta seduto a
mezz’aria grazie a un trucchetto (sotto il saio nasconde uno sgabello, basta
guardarne l’ombra per accorgersene); una pattuglia di carabinieri, anziché
arrestarlo per stregoneria, lo guarda tutta divertita. È, incidentalmente,
l’unica presenza di forze dell’ordine in tutta la città. La Chiesa del Gesù è
grasso barocco che cola doratissimo; bisognerebbe organizzarci pellegrinaggi di
cattolici confusi che credono che Papa Francesco sia povero perché gesuita.
Spettacolare anche la basilica di Santa Maria delle Vigne, talmente bella che
la tengono nascosta per non consumarla e anziché ai turisti la aprono alle
prime comunioni; la si nota solo se, girando per l’apparato digerente di
Genova, si alza lo sguardo e si vede un campanile atipico, puntuto. Allora si
inizia a girare attorno a questo punto di riferimento aereo finché ci si
imbatte nell’ingresso della chiesa quasi casualmente; in premio si riceve la
visione di un cartello sul quale è segnato il cellulare del parroco, per ogni
evenienza e soprattutto per le emergenze che in zona non devono mancare. Va
specificato che questo girare attorno è figlio della peculiare idea che i genovesi
hanno dell’andare dritto. Gli edicolanti – che incidentalmente sono tutti
gentilissimi, paterni e logorroici – ci danno indicazioni dicendo “Andate
dritto qui, andate dritto lì”; noi ci fidiamo e andiamo dritto e per prima cosa
sbattiamo immancabilmente contro un muro. Andare dritto a Genova significa
assecondare ciecamente serpentine ignote, dietro le quali potrebbe annidarsi
ciò che hanno in effetti detto gli edicolanti.
Dalle tre alle cinque del pomeriggio in giro non c’è
nessuno, se si escludono ovviamente i turisti che non si addentrano fin dove
ardiamo noi e i magrebini integrati che presidiano determinate strade della
Casbah. Dalle finestre aperte si sente il rumore di pugni battuti su tavoli
imbanditi: chi non è allo stadio sta guardando Genoa-Sampdoria in tv con un certo nervosismo. Il
nostro trattore ci assicura che quelli del Genoa non sono scudetti, sono
diplomi vinti col Cepu di fine Ottocento; non abbiamo osato chiedere a dei
genoani in cosa consistesse lo scudetto vinto dalla Samp una ventina d’anni fa.
Abbiamo tutto l’agio di leggere le scritte sui muri, che incitano
all’insurrezione armata – quelle più moderate – oppure elogiano l’operato di
Don Gallo, dando l’impressione che se Bologna è una città rosso vermiglio
allora Genova è una città rosso carminio. Don Gallo è una presenza incombente e
fissa, che occhieggia da qualsiasi muro e che in un manifesto ciclostilato
viene addirittura definito “angelo”, secondo una tendenza che accomuna la
psicologia religiosa genovese al culto pagano del Cardinal Martini recentemente
instaurato dal Corriere della Sera. A un certo punto un urlo trafigge l’aria
limpida e callida, quasi estiva, con parole che non si possono ripetere: ha
segnato la Sampdoria. Oggi sono andato a Genova a non vedere il derby.
[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio va in bici senza sellino, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]