lunedì 15 aprile 2013


Finalmente domenica!
Trentaduesima giornata, 14 aprile 2013

Oggi sono stato a Bari, a Taranto, a Napoli, a Roma, a Bologna, a Torino e a Marsiglia ma, non avendo tempo di vedere tutte queste città in un giorno solo, mi sono limitato a fare un salto a Genova che le comprende tutte. Il vecchio Guido Piovene, che nel 1957 aveva intrapreso il suo Viaggio in Italia eternato in un volume monumentale che qualcuno dovrebbe decidersi a rifare (possibilmente non Concita De Gregorio né Beppe Severgnini; se mi pagate per un anno, mi offro volontario), scriveva che Genova e Bari erano due città simmetriche, l’una settentrionale e l’altra meridionale. La peculiarità era che quella settentrionale era Bari. Genova infatti all’istinto commerciale ancipite – che un po’ blandisce l’ospite, un po’ intende fregarlo ma senza antipatia – tipico anche di Bari aggiunge manie di grandezza che sono nettamente napoletane. È evidente il perché: Napoli come Genova è stata capitale, Bari no, e ad avere manie di grandezza sono buone tutte le città (anche Pavia, alle volte) ma non tutte riescono a potere permettersele. Inutile che stiamo qui a contarcela con ipocrisia quirinalizia: l’Italia è stata grande solo spezzettata mentre l’unificazione l’ha rimpicciolita, laicizzata, burocratizzata, rattrappita. A queste manie di grandezza, in realtà, Genova aggiunge anche un’imbarazzante strada sopraelevata ad alto scorrimento sul lungomare, intitolata ad Aldo Moro santo patrono del compromesso, su cui le automobili sfrecciano pensando di essere a Tokyo e invece dando l’identico effetto visivo di Taranto; da un momento all’altro, guardando la sopraelevata, ci si aspettava di volgere gli occhi a mare e vedere in lontananza, anziché la lanterna, un ponte girevole.

Il punto comune con Napoli resterebbe monco se mancasse il bathos, ovvero il precipizio nel quale sia Napoli sia Genova addiacciano le suddette magnificenze: i decumani. A Napoli sono in parallelo, San Biagio dei Librai, ovvero Spaccanapoli, e i Tribunali; a Genova sono in successione, via del Campo che diventa la Maddalena che diventa via di Prè. Sono i posti descritti da De André con perifrasi perfetta (“i quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, perché troppo stretti e poveri per poter essere illuminati più di mezz’ora al giorno) e che dagli adepti di De André sono forse stati rovinati a forza di migliorie: via del Campo ospita un centro per intellettuali di sinistra aromatizzati al caviale dedicato ai cantautori genovesi, imperniato su un mercatino di gadget inutili e costosi. Lì si trasmettono soffuse canzoni di Luigi Tenco e Ivano Fossati, di fianco i fruttivendoli vendono melette rigate che inoculano il marciume nell’anima solo a guardarle; sembra di passare istantaneamente dagli inserti patinati di Repubblica alla carta igienica con la reiterata scritta “Ferrovie dello Stato” in bluette.

La fauna presente attorno alla darsena dà l’idea di coincidere pienamente con Khartum, ma da fonti indirette ho appreso che in Sudan gli indigeni non cercano di venderti poltiglie gommose le quali, sbattute su un tavolino, dapprima si spalmano e poi si rapprendono tornando alla forma originaria. Purtroppo ai bambini piacciono i giocattoli schifosi; per fortuna non ho ancora figli quindi posso guardare e passare. Se fossi stato a Marsiglia, la parte marina di Genova le somiglierebbe; invece essendo stato a Bologna posso assicurare che via XX Settembre, lo stradone porticato che oltrepassa il ponte monumentale, è via dell’Indipendenza; coincide persino la lieve salita, percettibile ma non noiosa. All’inizio di via dell’Indipendenza c’è piazza Maggiore e all’inizio di via XX Settembre c’è piazza de Ferrari la quale, a parte il palazzo trompe l’oeil della Borsa che ha la forma di una barca emersa sfondando il cemento, è una zampata sabauda in cui Genova finge di essere Torino. Il problema è che alla fine di via dell’Indipendenza c’è la stazione di Bologna mentre alla fine di via XXV Aprile non si sa perché uno si accorge di star andando non solo in direzione opposta alla piazza ma anche in direzione opposta alla stazione, in direzione opposta al mare, in direzione opposta ai carruggi; pertanto si ferma, si chiede: “Dove cazzo sto andando?”, e torna indietro a precipizio, verso il bathos, verso il mare, verso la vita.

Per gli appassionati, la concentrazione variegata di prostitute ai crocicchi promette prezzi concorrenziali, sui quali non ho avuto tempo di documentarmi con precisione anche perché nella circostanza la mia assoluta priorità era di uscire dai carruggi senza riportare traccia di coltellate. È notevole che all’altitudine sul livello del mare, all’interno della stessa città, coincida chiaramente un diverso grado di ricchezza se non di civilizzazione; accade anche a Napoli, dove in alto ci sta il Vomero. A Bari, invece, non ci sono salite. L’unica cosa bella della casa di Cristoforo Colombo è la bigliettaia; i turisti che vi entrano sono tutti americani e sono la seconda cosa più interessante del monumento. Se si cala dall’adiacente Porta Soprana invece si arriva ai Liberi Giardini di Babilonia, di fronte alla chiesa di Sant’Agostino, dove un gruppo di rasta intrattiene i passanti con una musica esattamente uguale a quella della canzone di Elio che sta spopolando oggidì e che si chiama Complesso del Primo Maggio, in cui si asserisce che “la musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni”. Agli amici babilonesi manca purtroppo questa serena consapevolezza.

Non a tutte le chiese capita lo stesso destino. Di fronte alla Cattedrale di San Lorenzo c’è un finto cappuccino che resta seduto a mezz’aria grazie a un trucchetto (sotto il saio nasconde uno sgabello, basta guardarne l’ombra per accorgersene); una pattuglia di carabinieri, anziché arrestarlo per stregoneria, lo guarda tutta divertita. È, incidentalmente, l’unica presenza di forze dell’ordine in tutta la città. La Chiesa del Gesù è grasso barocco che cola doratissimo; bisognerebbe organizzarci pellegrinaggi di cattolici confusi che credono che Papa Francesco sia povero perché gesuita. Spettacolare anche la basilica di Santa Maria delle Vigne, talmente bella che la tengono nascosta per non consumarla e anziché ai turisti la aprono alle prime comunioni; la si nota solo se, girando per l’apparato digerente di Genova, si alza lo sguardo e si vede un campanile atipico, puntuto. Allora si inizia a girare attorno a questo punto di riferimento aereo finché ci si imbatte nell’ingresso della chiesa quasi casualmente; in premio si riceve la visione di un cartello sul quale è segnato il cellulare del parroco, per ogni evenienza e soprattutto per le emergenze che in zona non devono mancare. Va specificato che questo girare attorno è figlio della peculiare idea che i genovesi hanno dell’andare dritto. Gli edicolanti – che incidentalmente sono tutti gentilissimi, paterni e logorroici – ci danno indicazioni dicendo “Andate dritto qui, andate dritto lì”; noi ci fidiamo e andiamo dritto e per prima cosa sbattiamo immancabilmente contro un muro. Andare dritto a Genova significa assecondare ciecamente serpentine ignote, dietro le quali potrebbe annidarsi ciò che hanno in effetti detto gli edicolanti.

Dalle tre alle cinque del pomeriggio in giro non c’è nessuno, se si escludono ovviamente i turisti che non si addentrano fin dove ardiamo noi e i magrebini integrati che presidiano determinate strade della Casbah. Dalle finestre aperte si sente il rumore di pugni battuti su tavoli imbanditi: chi non è allo stadio sta guardando Genoa-Sampdoria in tv con un certo nervosismo. Il nostro trattore ci assicura che quelli del Genoa non sono scudetti, sono diplomi vinti col Cepu di fine Ottocento; non abbiamo osato chiedere a dei genoani in cosa consistesse lo scudetto vinto dalla Samp una ventina d’anni fa. Abbiamo tutto l’agio di leggere le scritte sui muri, che incitano all’insurrezione armata – quelle più moderate – oppure elogiano l’operato di Don Gallo, dando l’impressione che se Bologna è una città rosso vermiglio allora Genova è una città rosso carminio. Don Gallo è una presenza incombente e fissa, che occhieggia da qualsiasi muro e che in un manifesto ciclostilato viene addirittura definito “angelo”, secondo una tendenza che accomuna la psicologia religiosa genovese al culto pagano del Cardinal Martini recentemente instaurato dal Corriere della Sera. A un certo punto un urlo trafigge l’aria limpida e callida, quasi estiva, con parole che non si possono ripetere: ha segnato la Sampdoria. Oggi sono andato a Genova a non vedere il derby.


[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio va in bici senza sellino, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]