martedì 2 aprile 2013


Finalmente domenica!
Trentesima giornata, 31 marzo 2013

Mentre stamane il Papa compiva il giro pasquale in piazza San Pietro ho notato la diffusa tendenza della folla a non chiamarlo, quando si avvicinava, né “Francesco” né “Bergoglio” ma direttamente e semplicemente “Papa”. Se fossi uno dei fessacchiotti convinti di poter cambiare col proprio blog le convinzioni dello Spirito Santo, qui piazzerei un’intemerata sul fatto che un tempo quando passava il Papa ci si inginocchiava segnandosi, anziché lanciargli magliette del San Lorenzo. Essendo invece un altro tipo di fessacchiotto, la scena mi ha ricordato un film di Marco Ferreri, L’udienza, in cui Enzo Jannacci cercava invano di essere ricevuto da Paolo VI inseguendolo e urlandogli: “Papa! Papa!”. Il film non l’ho mai visto e lo conosco solo per tradizione orale ma mi pare verosimile che fosse così.

Fossi stato in Lombardia, avrei visitato seduta stante la camera ardente di Jannacci; invece è capitato proprio nell’unica settimana che trascorro in Puglia nel giro di sei mesi. Qui posso tutt’al più attraversare la strada immaginando di essere lui nel Carosello di non ricordo cosa: pedone stritolato dal traffico sogna di possedere un auto, sulla quale angustiato dalle lamiere sogna di possedere uno yacht, a bordo del quale temendo di affondare sogna di pilotare un aereo, nella cabina del quale precipitando sogna di star pacificamente attraversando la strada da semplice pedone, e pazienza per il traffico. Sono passati anni e annorum da quando avevo visto questo spot ma mi pare verosimile che fosse lui.

Stamattina sul Corriere si sono dati appuntamento comici e artisti per comporre una processione alla pagina dei necrologi: Teo Teocoli, Renato Pozzetto, Gino e Michele, Roberto Vecchioni, Bebo Storti, Vasco (“Wiva Enzo Jannacci”), Ivana Monti, Massimo Boldi, Renzo Arbore, Aldo, i discografici Sugar, la fondazione Giorgio Gaber, Antonio Ricci e tutta Striscia la Notizia, il cabaret Zelig e la pasticceria Gattullo. Questa teoria di nomi di persone nate per intrattenere e divertire, affiancati a quelli dei propri familiari e a parole di dolore oneste, secche, prive della retorica dei coccodrillisti un tanto a riga, mi conferma quanto sia vero il luogo comune secondo il quale in Italia i comici siano persone serie perché, infatti, per riuscire a farci ridere devono prima avere fissato negli occhi ciò da cui vogliono farci distogliere lo sguardo: la morte, la malattia, la povertà, la depressione.

Il vero comico deve sapere che ogni vita è una scala reale che trema in mano perché sa di poter essere sconfitta da un’altra scala di valore maggiore o minore a seconda dei casi, come nella pubblicità del pedone che vorrebbe essere motorizzato ma che, se fosse motorizzato, per salvarsi dovrebbe essere pedone. Uno poi può decidere di fare il cabarettista o il cantante, l’attore o il pasticciere, il musicista o lo scrittore; può essere Jannacci o Tognazzi o Bianciardi o chi gli pare ma solo se coglie la tragedia di questo corto circuito è un comico che quando muore riesce a farci piangere, altrimenti appartiene alla numerosa schiera di tronfi buffoni che in Italia godono di ottima salute.


[Il resto della rubrica, questa settimana eccezionalmente di martedì, è scritto da Francesco Savio che trova il Papa nel montacarichi e può essere letto su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.]